I fratellieil custode Carmelo Samonà Fratelli Torino, Einaudi, 1978 pp. 108, lire 3.500 Il custode Torino, Einaudi, 1983 pp. 117, lire 15.000 «/eh bin die Einsamkeit als Mensch». F.W. Nietzsche e arme lo:Samonà è uno studioso di letteratura spagnola, un critico letterario e l'autore di due romanzi, Fratelli (1978) e Il custode (1983). Fratelli racconta la storia di due fratelli l'uno «sano» e l'altro «pazzo» {benché questi ruoli siano a volte difficili da distinguere), e degli enigmi che le parole e i gesti di quest'ultimo pongono al narratore «sano». Il custode narra invece la storia di un uomo tenuto prigioniero contro la propria volontà in un isolamento assoluto, e dei suoi tentativi di comunicare . con il suo misterioso carceriere. 1. Casa del linguaggio o carcere del linguaggio? La solitudine degli uomini, la difficoltà di esistere nel labirinto del linguaggio, le forme della speranza: sono questi i temi preferiti di Samonà, temi che legano la sua opera ad alcune importanti correnti della letteratura europea del ventesimo secolo, da Kafka agli esistenzialisti. Le riflessioni di Samonà assumono la forma di un racconto filosofico, in cui vengono poste ed esaminate questioni e situazioni universali: la storia dei due fratelli nel primo romanzo si trasforma rapidamente in un'allegoria della «ricerca dell'altro»; la storia del prigioniero e del suo carceriere nel Custode significa (se si può dire che un testo effettivamente significa qualcosa) il carcere del linguaggio in cui dimora l'umanità intera. Sia Fratelli sia Il custode concedono poco al lettore, né si avvalgono delle convenzioni usuali del genere romanzesco: non ci sono nomi propri o nomi di luoghi, i capitoli non hanno titolo, non ci sono mai più di due personaggi (uno dei personaggi, in ambedue i romanzi, parla raramente o mai), le descrizioni sono rarissime, i dialoghi inesistenti. Forse sarebbe più giusto definirli narrative o finzioni 'min:- mali' con l'economia e l'unità della finzione borgesiana o della novella fantastica (come suggerisce la frase di apertura del Custode: «In un luogo di cui non so nulla, a una distanza che mi sembra incolmabile da tutto ciò che un tempo mi fu familiare- o appartenne, anche remotamente, al mio mondo - una stanza anonima, immersa quasi sempre in una leggera penombra, ospita il mio corpo contro la mia r---. ......,volontà», p. 3). I narratori delle finzioni minima- <::I .:; ~ li di Samonà vivono in un universo I::)., quasi anonimo, distanziato dal no- ~ stro, dove anche le cose più fami- ......,liari - una sedia, un tavolo, una e:, -~ mela, un braccio - acquistano l'aus.: 5 ra misteriosa di oggetti mai visti t>o prima. In un tale universo nulla ~ viene naturalizzato dai narratori: i:: nessuna stanza, nessun posto ci si ~ presenta come elemento di un l mondo quotidiano in cui ci possia- ~ mo muovere distrattamente obliando la presenza degli oggetti che lo compongono. Tutto viene radicalizzato con un rigore quasì fenomenologico, e preso come oggetto d'indagine piuttosto che come punto di riferimento fisso (come la convenzione stessa dei nomi propri): leggere Sa- • monà vuol dire tornare a volgere lo sguardo verso cose che erano là da sempre, ma che ci erano diventate invisibili. Perciò i narratori di Samonà sono dei viaggiatori, esploratori di territori di cui abbiamo perso le mappe (ammesso che le avessimo mai avute), e quella del viaggio è una metafora importante in .ambedue i testi. Come l'Ishmael di Melville, però, questi viaggiatori scoprono (e i lettori con loro), dopo la circumnavigazione di un mondo strano e ostile, che ciò che avevano creduto di lasciare indietro partendo era pur sempre presente dinanzi a loro. - 2. L'impossibilità di sapere: ~Fratelli» Il narratore anonimo di Fratelli vive solo con un fratello che soffre di una malattia ugualmente senza nome, in un appartamento semivuoto al centro di una grande città. Il narratore dedica tutto il proprio tempo e le proprie energie a sorvegliare ed accudire il fratello, analizzandone le espressioni misteriose e il comportamento apparentemente irrazionale, con l'intenzione {forse) di ricondurlo alla 'normalità'. Fratelli è un racconto che esamina rigorosamente gli enigmi del linguaggio, i molteplici disordini che ne costituiscono l'ordine. Non sorprende quindi che il problema della comunicazione fra i due fratelli, che parlano 'linguaggi' radicalmente diversi, costituisca la base della narrazione. Ponendosi come meditazione sui temi fondamentali del pensiero post-strutturalista, dall'ermeneutica alla psicoanalisi e alla semiologia, Fratelli è intessuto intorno alla questione centrale di queste tre discipline e dell'atto stesso di narrare. La questione è la seguente: è possibile ridurre la distanza incommensurabile che se- . para l'interprete dall'oggetto dell'interpretazione? O è l'interprete destinato a sentire sempre l'oggetto dell'interpretazione ripetere, come succede al narratore di Fratelli mentre il malato gli sfugge un'ennesima volta, «cercami di nuovo, anche se mi hai trovato» (p. 31)? Oltre alla storia del confronto tra due linguaggi e due prassi interpretative ('normale' e 'anormale'), però, Fratelli propone anche una riflessione metalinguistica sull'ambiguità e l'incertezza dello stesso linguaggio narrativo. I vuoti mai riempiti, i differimenti che diventano permanenti, le interrogazioni che non trovano mai una risposta sono tutti segni della doppiezza e duplicità del linguaggio narrativofigurale e dei 'significati' da esso prodotti. I due fratelli formano e deformano narrative (/ Promessi Sposi, Don Carlos, Pinocchio: «facciamo che Geppetto era di legno», p. 18) i cui significati non sono mai presenti o pienamente recuperati: ogni nuovo tentativo narrativo diventa solo l'occasione per un ~nnesimo differimento di senso; e la narrazione stessa un dissolvimento perenne di segni in altri segm. JonSnyder Parallelamente, i capitoli finali di Fratelli rivelano, nella scrittura e nella dissoluzione del «rendicon- . to» del narratore, l'instabile· territorio su cui il testo stesso del romanzo si fonda, e lasciai•oil lettore -sospeso in un'aporetica ndecidibilità: il significato del d,:,corso del fratello inalato è, in definitiva, semplicemente una proiezione del desiderio del narratore? Oppure si può attribuire un significato univoco e non ambiguo alla «follia» di ciò che dice il fratello malato, e a ciò che dice il narratore? Al lettore non è dato, dall'interno dei confini di Fratelli, alcun modo di stabilirlo. Ciononostante Samonà non celebra la duplicità del linguaggio figurale: gli errori del linguaggio vengono visti nell'ottica di una classica malinconia che a volte rasenta la dimensione tragica (sia il Vecchio Testamento sia le parabole di Kafka sono fra i testi che Fratelli evoca indirettamente). Il linguaggio è fatto di tropi e figure, e quindi di errori: è la fonte e il luogo dell'incomprensione fra esseri umani, e il testo che racconta questa 'storia' è esso stesso una trappola. Alla fine di Fratelli il narratore si rassegna ad abbandonare il proprio progetto di «rendiconto» e di trascrizione della malattia del fratello. Egli abbandona, in altre parole, ogni tentativo di narrazione e dunque di normalizzazione della malattia: essa non può essere tradotta nel 'nostro' linguaggio. Il narratore progetta invece di continuare semplicemente a cercare di decifr~re le parole e i gesti apparentemente insensati e casuali del fratello, nella speranza di poterne un giorno scoprire la logica nascosta («leggo nella sua arte combinatoria (una parola e un'occhiata, una parola e uno schiocco della lingua contro il palato, un gesto inverso alla parola che l'accompagna o ·un incrocio di due parole opposte) qualche indizio di senso che viaggia verso di me. Vi sono momenti in cui mi sembra di essere vicino a uno spiraglio di verità, di cogliere . una trasparenza simile a un significato intero», p. 108). Non c'è naturalmente alcuna garanzia che riuscirà mai a raggiungere il suo scopo. Se il fratello malato sia o no in possesso di un linguaggio alternativo, al di fuori dell'ordine rappresentativo a noi noto e in grado di ridurre la distanza tra i due fratelli (o tra due esseri umani in genere), rimane uno degli enigmi irrisolti di Fratelli. Il testo si limita a suggerire che le tracce di un tale linguaggio •sono reperibili nel discorso del fratello malato, e a indicare un tragitto potenziale versò la dimensione in cui un tale linguaggio potrebbe costituirsi. Ciononostante per il narratore di Fratelli la ricerca della parola dell'altro diventa una strategia di sopravvivenza, un progetto èhe non può essere abbandonato:· «che altro posso fare se non muovermi nella scia di questi indizi al tempo stesso perentori e vaghi, nella speranza di decifrarli?» (p. 105). 3. Porte socchiuse, dialoghi semiaperti: ~n custode» Il custode continua l'esplorazione, benché in chiave diversa, del tema della ricerca dell'altro nel labirinto del linguaggio, un labirinto privo di centro e da cui nessun filo d'Arianna può farci emergere. La descrizione della condizione umana è anche più rarefatta che in Fratelli, e si struttura figurativamente come una parabola. Ma, come nelle parabole di Kafka, al lettore non è mai dato scoprire cosa si nasconde al di là del livello letterale della narrazione. 1 La figuralità del Custode allude comunque alla solitudine dell'individuo, prigioniero di un'alterità le cui intenzioni sono indecifrabili, e al sottile filo del linguaggio e del desiderio (chi può distinguerli?) «come una corda tesa fra i nostri corpi» (p. 117). Il custode o carceriere invisibile sorveglia dapprima il prigioniero rimanendo nascosto dietro la porta chiusa o socchiusa della cella, per poi procedere a rivelarsi, attraverso un elaborato pas-à-deux condotto in un codice privato e misterioso, e comparire infine di fronte al narratore. L'apertura finale della porta e l'emergere del custode dall'oscurità sono metafore indicative della corrente di speranza che anima il romanzo. Il lettore non viene a sapere che cosa il custode dice finalmente al narratore, né la cosa ha importanza: il testo si chiude con le parole «... si mette al mio capezzale e mi parla» (p. 117). Il destino finale del narratore (sarà liberato o condannato a morte?) non ci viene rivelato perché Samonà vuole solo mettere in luce il complicato intreccio di relazioni, le strategie e le strutture segniche che conducono finalmente i due uomini a riconoscersi reciprocamente. Alla fine della narrazione, infatti, il custode non deve più solo sorvegliare il prigioniero, ma deve anche vegliare su di lui. Il rapporto fra il narratore e il custode si struttura e si sviluppa attraverso una serie di interrogazioni senza risposta, testi indecifrabili {il bracciale), lunghi silenzi e brevi sguardi lanciati verso l'oscurità al di là della porta socchiusa, da dove gli occhi del custode non cessano di fissare il narratore (e sono, secondo il paradosso del panopticon, a loro volta fissati dal narratore). Alla tremenda solitudine del narratore subentra a poco a poco un lungo e difficile scambio di gesti, sussurri e lamenti. I suoni e i ' movimenti corporei più banali, componenti minime e insondabili della comunicazione quotidiana fra esseri umani, acquistano nel silenzio semiassoluto della cella nuda un'inusitata densità e complessità che lentamente attirano e coinvolgono i due uomini in un mutuo spazio semiotico. Finalmente, -per mezzo di una strategia di mosse e contromosse, il narratore riesce a far emergere l'altro nello spazio «aperto» del dialogo. Il custode descrive perciò una prassi (una pragmatica) della situazione dialogica, basata su una logica discontinua e fratturata come la logica stessa della conversazione quotidiana, in cui l'interpretazione di gesti ed espressioni dipende dalle condizioni particolari del loro uso, e da chi li usa. Il momento culminante del riconoscimento, reciproco nel Custode può apparire deludente: con l'entrata del custode nella cella termina la solitudine oggettiva del prigioniero, e la narrazione si chiude. Ma l'inizio del dialogo fra i due non può non essere il momento della chiusura narrativa: la narrazione omodiegetica del Custode è focalizzata esclusivamente sul e dal narratore (il lettore sa solo quello che sa il narratore) e non può permettere l'inserzione di un vero dialogo, la parola di un «altro». Con la scoperta della parola altrui, Il custode giunge alla propria conclusione: il dialogo diretto (e l'implicita dimensione di comprensione reciproca) è letteralmente irrappresentabile nel mondo di Samonà. Proprio come il fratello malato di Fratelli rispondeva indirettamente ed ellitticamente, e con giorni di ritardo, alle domande che gli poneva il narratore, così nessuno scambio diretto di parole può aver luogo tra i due personaggi del Custode dentro i confini del testo. La problematica del «dialogo» quindi traspare sia a livello narrativo sia a livello tematico nei romanzi di Samonà. Vivere, per il narratore del Custode, vuol dire parlare («rivolgermi a loro significa poter fare le cose di cui ho bisogno per sentire che sono vivo: parlare ... », p. 12) ma, come dimostra Il custode, non tutte le forme di dialogo si fondano su un linguaggio collettivo preesistente: ogni dialogo fra due individui si costituisce anzi come un linguaggio a sé, o come l'articolazione di una dimensione linguistica comune (quel qualcosa ,<cheè tra di noi»), una dimensione che allo stesso tempo non può più essere puramente privata. Ma l'ordine sociale non fa mai parte del mondo narrativo di Samonà, perché tutto ciò che è sociale (e sessuale) fa parte del refoulé dell'intersoggettività, non meno irrappresentabile per il narratore - chiuso nella solitudine - dello stesso dialogo. Quella di Samonà è una finzione che parla della debolezza innata della propria forma, il conte philosophique: contraddicendo i presupposti della propria natura allegorica essa ci dice che non c'è alcun Altro universalizzabile, nessun soggetto umano «rappresentativo», ma solo un intrico infinito di altri in cui desidereremo sempre, senza forse mai ottenerla, «la conoscenza di un uomo solo: quell'uomo» (p. 37). Nota (1) Samonà non esclude neanche la possibilità di una lettura politica del Custode: ma non mi sembra la lettura più rilevante del romanzo.
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