Alfabeta - anno VII - n. 68 - gennaio 1985

Lai Tullio De Mauro Ai margini del linguaggio Roma, Editori Riuniti, 1984 pp. 100, lire 6.000 H o letto un libro bellissimo. Perché non iniziare a parlare così dell'ultimo lavoro di Tullio De Mauro; e perché in ogni altra recensione non inserire subito, a caldo, un giudizio di valore sul libro letto, salvo poi esser pronti a discutere con chiunque possa essere di parere diverso o anche opposto? La lettura di A i margini del linguaggio e il fatto di scriverne per altri non può non portare a considerazioni sul fatto stesso, o meglio sull'azione della recensione, quest'esercizio di lontana derivazione critico-filologica che continua a prosperare forse su una falsa coscienza culturale, quella che finge la non esistenza di uno dei più gravi problemi della nostra epoca 'posttaletiana': la dispersione e la quasi definitiva impossibilità di un'unità del sapere. A questo giudizio pessimistico se ne potrà certo contrapporre uno costruttivo e ottimistico. Quello che sembra, comunque, è che mentre la tendenza generale è verso la separazione e la massima parcellizzazione specialistica delle conoscenze e dei relativi linguaggi, soltanto pochi ormai accettano di contrapporre a quello stato (o tendenza) delle cose una loro visione globale in cui sdenza e cultura vadano di pari passo con impegno sociale e politico o, in una parola, umanistico nel senso più ampio. Sulla divulgazione verte dunque il problema. Ora, una volta nato in Francia, col giornalismo e in genere col boom divulgativo illuministico, quel tipo moderno della divulgazione detto recensione, una volta che lo si ebbe denominato nello stesso modo di quell'antica operazione filologica (salvo riservare per questa l'originale termine latino, quasi a volerne significare in partenza, nella distinzione delle lingue, la maggiore vetustà e scientificità), era proprio necessario, anche, che il nuovo esercizio dello scrivere di opere altrui assumesse via via col tempo il suo attuale status di «istituto ridicolo ( ... ) della improvvisazione presuntuosa»? (F. Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Milano, Il Saggiatore, 1968, p. 12). Eppure, anche nei concorsi universitari, la recensione continua ancor oggi a 'far titolo', al contrario ad esempio di altre attività, spesso ben più ponderose e importanti scientificamente e socialmente, come la traduzione o la redazione di antologie scolastiche. Fino a non molti anni addietro, ~ alla base vi era, in effetti, una pre- <:::i tesa di mediazione tra la stratosfe- .s ~ ra della scienza e la crosta del vul- ~ go: in quest'aura o troposfera se- ~ midotta e semivolgare era tutto il ~ segreto della recensione. Finché il -~ sapere non era tanto diviso, finché ~ si continuava a credere uniti i vari ~ C-O campi della conoscenza umana (la ~ grande speranza o illusione del po- ~ sitivismo), il tono della 'divulgazio- ~ ne' era appunto un tono medio, l spesso anche mediocre, ma che co- ~ munque usava parole normali, per rendere accessibili cose che in partenza erano dette con parole 'straordinarie'. La deflagrazione post-positivista del sapere ha reso tutto ciò impossibile e ha dato origine all'attuale assurdo dilemma della recensione: o a livello giornalistico si tenta di esprimere in parole intrecciate, in •giri di frase rileccati e ridondanti ciò che in realtà non si è in grado di esprimere in parole 'povere' e quindi, in fin dei conti, non si dice nulla; o si ripropone su giornali e riviste un'ulteriore spiegazione e discussione in chiave specialistica di una questione che già in partenza era estremamente tale. Ma se l'alternativa alla fumisteria linguistica è quella della maggiore settorializzazione e tecnicizzazione dei linguaggi, siamo destinati a diventare, o a essere già, tutti vulgo, allora? Se «siamo la prima generazione post-taletiana» (De Mauro, p. 53) perché «i saperi, nella grande varietà delle loro articolazioni e proliferazioni, pervadono e invadono ogni nostra giornata e ogni nostro luogo e recesso» (p. 55)? Come risponderemo umanisticamente a questa invasione specialistica (si pensi ad esempio al rischio, forse più irrazionalmente temuto che effettivo, della formazione di una nuova casta oligarcocibernetica o anche allo spettro, già orwelliano, della schedatura generalizzata)? Che mezzi ci sono dati per comprendere ciò che ci avviene intorno e per spiegarlo con gli strumenti non specialistici di cui tutti noi, sembra, siamo costretti a serv1rci rispetto a questa «frantumazione specialistica e incontrollata del sapere» (p. 59)? Si è detto dell'impasse della recensione, ma si è anche accennato all'inizio alla possibilità di un nuovo (in realtà antichissimo) tipo di divulgazione. U miltà è una parola di cui si è appropri~t~ la nostra tradiz10ne cnstiana, contrapponendovi - in un'unica visione distorta del senso - le antivirtù o peccati dell'orgoglio e della vanità. In realtà, come venivamo spesso ammoniti nelle traduzioni liceali, molte delle parole latine e greche cui la storia successiva ha attribuito un determinato senso di qualità, positivo o negativo, erano in partenza voci 'medie', si adattavano cioè alle situazioni e solo in un dato contesto assumevano connotazioni di valore. Così l'aggettivo humilis non a~eva niente a che vedere ad esempio con lo strisciante, viscido modello dell' 'umile' magistralmente esemplificato da Dickens nella figura di Uriah Heep, né, in generale e senza eufemismi, con la cosiddetta umiltà cristiana, tanto predicata e così mal razzolata non solo alle corti papali di un tempo. Cosicché non vediamo il senso di una contrapposizione tra umiltà e orgoglio scientifico, come quella intesa da Umberto Eco nel suo catechistico Come si fa una tesi di laurea (Milano, Bompiani, 1977). Che orgoglio ci può essere infatti a sapere che «su quello che [abbiamo] scelto, fosse pure Variazioni sulla vendita dei quotidiani a/l'edicola a/l'angolo di Via Pisacane e Via Gustavo Modena dal 24 al 28 agosto 1976, su quello [noi dobbiamo] essere la massima autorità vivente» (Eco, p. 199)? No, l'opposto non è l'umiltà dei «piagnoni e complessati» (ivi), caro Eco, l'opposto è l'umiltà di chi, avendo scritto fosse pure Variazioni sulla vendita dei quotidiani ecc., sa che quel suo scritto non gli deve servire a sentirsi la massima autorità vivente su quel dato argomento (pur se ammettiamo pienamente problemi di compensazione individuale di frustrazioni più o meno infantili), ma a rendere un contributo alla conoscenza specialistica in quel determinato campo, un contributo in cui non possiamo distinguere, per la loro strettissima interrelazione, quanto vi sia di scientifico e quanto di sociale. A che serve, infatti, essere la massima autorità in quello, se tutto il resto del sapere ci è negato nella sua stessa rappresentazione linguistica, causa-effetto della crescente irrefrenabile specializzazione dei singoli settori della conoscenza umana? Il fatto è che, al di fuori della variazione di vendita dei giornali in quella tal edicola, noi siamo nelle mani di Dio o, in realtà, delle classi dominanti che nell'evoluzione tecnologica e nell'ideologia tecnicistica ad essa connessa hanno trovato nuovi ampi ricettacoli al loro antico bisogno di oppressione. A riprova di quanto il nostro discorso non possa essere qualificato come moralistico, basti ricordare l'esempio di uno specialista del rango di De Mauro, che si fa promotore del «reperimento di un vocabolario di base» per «costruire gli accessi alle più disparate esperienze [,] ristabilire i tramiti fra sapere e linguaggi specialistici e sapere e linguaggio corrente» (p. 58). Un vocabolario di base, nell'accezione etimologica qui proposta, è un vocabolario 'umile', «antidoto efficace - come ha detto Maurizio Dardano, citato dallo stesso De Mauro - contro le fumisterie di certo odierno linguaggio burocratico e pseudotecnico» (Nuovissimo dizionario della lingua italiana, Roma, Curcio, 1982, voi. I, p. VIII). Il problema è dunque anzitutto morale (De Mauro parla di etica nello scrivere): «Usare le centomila parole non comuni soltanto a patto di glossarle o renderle comunque evidenti in contesti costruiti con le qua!antamila parole comuni» (p. 57). E questo il tema profondo del saggio intitolato Dopo Talete, che del resto ritorna felicemente anche nelle riflessioni sui Linguaggi scientifici (pp. 60-83) e, a ben vedere, nella stessa quasi infantile ammirazione, assai ricorrente in altre parti del libro, per la funzione autonimica o metalinguistica riflessiva del linguaggio (il comprendere, lo stesso meccanismo del pensiero di fondo, è lo spiegare le parole con altre parole). E qui torniamo al problema della recensione, da cui eravamo partiti, per cui risulterà più chiaro, forse, perché questa nostra non poteva non svolgersi ai margini di Ai margini del linguaggio (e ci si perdoni l'escamotage stilistico). Abbiamo sottratto all'attenzione di chi ci legge il libro in sé, per incentrare la discussione non solo·su un saggio soprattutto, ma addirittura sulle sue implicazioni morali e sociali, oltre che scientifiche naturalmente. Ma questa è forse la lezione di De Mauro in un altro fondamentale intervento del suo affascinante libro, quello su Linguaggio e informazione (pp. 35-51). L'informazione, in più d'uno dei sensi registrati per la parola da De Mauro, dovrebbe essere il fine ultimo delle recensioni. La nostra, perciò, è assolutamente incompleta, perché ha privilegiato in tutto e per tutto il senso là indicato col numero 6: «implicazione logica di un atto, anche di un'azione d'informazione nel senso 2a [cioè «dare o ricevere notizie»]» (p. 43). Ma l'implicazione logica di un discorso «ai margini del linguaggio» non può che risiedere in una realtà extralinguistica che ci tocca profondamente giorno per giorno e di cui è sempre bene, comunque, parlare: lo spazio della dicibilità si allarga soprattutto rendendo accessibile a ognuno ciò che si dice. In quella sua «opportuna premessa» alle Ventiquattro voci del remoto 1968, proprio sul problema della divulgazione, allora come ora disdegnato da molti (in fondo temuto) o comunque considerato privo d'interesse intellettuale, Franco Fortini diceva (p. 31): «Ogni specialismo - anche quello che riguarda l'uso professionale del linguaggio - varrà solo se contribuisca ad altro sapere. Quale? Dirò per chi sappia tradurre e per offendere chi non sappia: quello che riguarda la 'salvezza dell'anima'». Non ci resta che concludere esplicitando: il vero pericolo, in caso contrario, è l'incomprensione, e ne abbiamo ben presenti, purtroppo, i diabolici effetti.

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