Modernoe individualità .LouisDumont Homoaequalis. 1. Genesie trionfo dell'ideologiaeconomica trad. di Guido Viale Milano, Adelphi, 1984 pp. 347, lire 20.000 D opo una stagione sempre più dispoticamente dominata dall'interesse per la contemporaneità, o, ancor meglio, per la 'posteriorità' - l'ambito del 'dopo' come unico spazio semanticamente praticabile - la ricerca torna a guadagnare profondità e prospettiva. Ciò che è revocato in causa, o quanto meno sottoposto a verifica, non è tanto l'opzione tematica per un segmento cronologico così raccorciato e schiacciato in avanti, quanto l'idea della sua percorribilità fuori da una risistemazione critica della grande matrice moderna da cui pure storicamente emerge. E non intendo necessariamente nel senso della continuità, ma proprio in quello della differenza. Solo una rivisitazione concettuale di ciò che precede consente di cogliere il profilo differenziale di quanto si muove ai suoi margini esterni. È il principio metodologico di fondo che ispira la ricerca di Louis Dumont raccolta nel primo volume dell'opera Homo aequalis dedicato alla Genesi e trionfo dell'ideologia economica: l'identificazione categoriale della società moderna è praticabile solo per differenziazione e separazione da quella arcaica - per esempio l'indiana cui lo stesso Dumont ha precedentemente dedicato importanti studi (La civilisation indienne et nous, Paris 1964; Homo hierarchicus, Paris 1964, ed ampliata Paris 1979 - entrambi in preparazione presso Adelphi). Quali sono, appunto, questi caratteri differenziali? Secondo Dumont, essi sono riconducibili a due coppie contrastive reciprocamente intrecciate, e cioè la coppia gerarchia/uguaglianza e la coppia olismo (vale a dire organicismo, prevalenza del tutto sulle parti, dell'ordine sulle funzioni)/individualismo. Quest'ultimo contrasto si determina, a sua volta, nel passaggio da un tipo di organizzazione sociale dominato dai rapporti tra gli uomini a un altro - moderno, oggi largamente diffuso - dominato dai rapporti tra gli uomini e le cose; e cioè da una struttura aprevalenza politica (in cui il 'rapporto con le cose', l'economico, è ancora sotto tutela, subordinato al politico) a una prevalenza economica (in cui l'economia si autonomizza e assume una funzione decisiva). L'analisi più dettagliata che Dumont dedica ad alcuni 'classici' serve appunto a verificare tale assunto. Se già in Quesnay traspare un primo abbozzo del sistema economico come sfera relativamente indipendente, è Locke che per primo ne tematizza l'incipiente contrasto con l'ordine politico. Ad esso Mandeville riesce a dare una risposta coerente 'liberando' l'economico attraverso un'inedita riproposizione in chiave etica: il bene comune non è impedito ma scaturisce dalla compinazione dei vari egoismi individuali. Solo èon l'Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni di Smith l'autonomia sistemica dell'economia si afferma con piena evidenza. La stessa opera di Marx, pur a partire da una pro- ;·spettiva intenzionalmente rovesciata, conferma, per Dumont, il definitivo primato dell'economia. È l'esito in cui sembra precipitare con ferma logica l'intero sviluppo del Moderno. Ed è proprio esso che vorrei provare a interrogare da un punto di vista diverso rispetto all'ottica dell'autore: e cioè non più (non solo) da quello, diciamo così. 'vincente', dell'economico, ma da quello, 'perdente', del politico. Da questa prospettiva, allora, l'interrogativo si sdoppia in due distinte domande. Intanto, e prima di tutto, è credibile la tesi del carattere costitutivamente spoliticizzante del Moderno? E in secondo luogo, se la risposta è affermativa, come va inteso, che segno valutativo va a esso assegnato? Va cioè considerato come una tenRoberto Esposito riguarda invece il modo d'intendere il processo di modernizzazione, e cioè il passaggio dall'ambito religioso a quello politico e da questo a quello economico. L'impressione è che Dumont tenda a 1 'ricostruirlo secondo una veduta a 'stadi successivi', anziché a 'dislocazioni laterali': cosicché ogni stadio risulta superato e risolto da quello successivo, anziché trasvalutato e trasformato, secondo un più preciso uso del concetto di 'secolarizzazione'. La conseguenza che ne deriva è un eccesso di linearizzazione che rende lo schema di successione di Dumont meno convincente, perché più rigido, non solo del modello weberiano (e poi lowithiano), ma anche di quello schmittiano. Proprio Carl Schmitt, infatti, aveva messo in relazione il transito logico-simbolico dall'uno all'altro stadio della modernizzazione sembra allo stesso Schmitt interrompere bruscamente il meccanismo vitale di ripoliticizzazione finora sperimentato e avviare una fase di definitivo esaurimento del politico (almeno nella sua dimensione classica) assimilabile alla spoliticizzazione finale diagnosticata da Dumont. Ma con la differenza che ciò che a Schmitt appare come rischio mortale, centro vuoto occupabile da qualsiasi forza in grado di gestirne la potenza, è guardato da Dumont come il prodotto naturale, e dunque positivo, della civilizzazione occidentale. Colpisce nel suo libro l'ottica sdrammatizzante con cui è ricostruita la tendenza 'impolitica' del Moderno. Quello che non solo in Schmitt, ma nella più avvertita filosofia del Novecento, è sentito come problema, il problema della E infatti proprio l'idea di vita è opposta da Mann - ma, per esempio, anche da Freud- alla tecnicizzazione conseguente al primato dell'economico. Naturalmente, tutto ciò concerne un asse di discorso e un quadro di riferimenti che, se percorsi fino in fondo, ci porterebbero lontano. E lontano, per certi versi, anche dall'ambito programmatico del lavoro di Dumont, esplicitamente circoscritto alla genesi dell'economico e alla sua autonomizzaziòne lungo lo sviluppo della società moderna. Ma il problema, sottovalutato, se non ignorato, dall'autore, è che appunto tale genesi non è separabile dalla 'patogenesi' della Modernità, strettamente connessa alla sua perdita di carica politica. È proprio quest'assenza di luce sulla 'malattia del Moderno' a ridimensionare e anzi a annullare, per .-----------------------------------------------, Dumont, il problema - presente alle società complesse - di una inversione di tendenza del trend di spoliticizzazione. Questa possibilità è preventivamente azzerata dalla meccanicità del rapporto istituito da Dumont tra sviluppo dell'economico e esaurimento del politico. Esso, infatti, è ricostruito nei termini della relazione 'a somma zero': tanto più economico, tanto meno politico; e viceversa. Ciò spiega il motivo per cui l'ipotesi di una ripresa di politica significherebbe, per Dumont, un «arretramento» dell'economia, è perciò un aumento della «subordinazione» tipica delle società tradizionali. La cosa sarebbe provata da quanto succede nei paesi totalitari, in cui il surplus artificiale di politica - il controllo politico sull'economia implicito nell'idea dt piano - sarebbe pagato da un ac~ crescimento proporzionale di vio• lenza: «L'ipotesi sarà che il totali~ tarismo risulta dal tentativo, in una società in cui l'individualismo è profondamente radicato e predominante, di subordinarlo al primato della società come totalità. Esso combina, inconsapevolmen- '----------------------------------------- .....-.~ lte, valorizzazioni opposte; la conFranco Originario : traddizione che abbiamo incontradenza irreversibile, o è possibile, e necessario, lavorare a una inversione di rotta? e irca la prima questione, la lettura del Moderno come generale tendenza alla spoliticizzazione - lettura tutt'altro che esclusiva del solo Dumont (a parte le ovvie radici_ comtiane, basti pensare da un lato a Pour la sociologie di Alain Touraine e dall'altro a The Great Transformation di Karl Polanyi) - mi pare nel complesso accettabile: io stesso, in un recente volume, ho cercato di mettere in questione il nesso, troppo diretto e lineare, tra genesi del Moderno e fondazione della politica consegnatoci dalla tradizione interpretativa. Ma con due forti 'distinguo'. Il primo - di tipo, per così dire, sincronico - riguarda l'impossibilità di estendere la caratterizzazione spoliticizzante all'intera filosofia moderna. Penso ovviamente a Machiavelli, che in questo caso risulterebbe arretrato in una improbabile pre-modernità; ma anche, per esempio, alla linea Spinoza-Vico, del tutto irreducibile al meccanicismo cartesiano-hobbesiano. Il secondo - di tipo diacronico - «centro di riferimento» (teologico, metafisico, etico ed economico) con l'esigenza di neutralizzazione progressiva degli ambiti divenuti di volta in volta conflittuali; ma aveva inteso tale intentio spoliticizzante come un processo insieme irrisolto e contraddittorio. Processo risolto, perché destinato a sempre ulteriori avvicendamenti; contraddittorio per la naturale e inevitabile ripoliticizzazione del «centro» precedentemente neutralizzato, cosicché «nel nuovo centro, da principio ritenuto neutrale, si sviluppa immediatemente con nuova intensità la contrapposizione degli uomini e degli interessi, e precisamente in modo tanto più violento quanto più si prende possesso del nuovo ambito di azione. L'umanità europea migra in contin4azione da un campo di lotta-a un terreno neutrale, e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali» (L'epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, ora in Le categorie del 'politico', Bologna, Il Mulino, 1972, p. 177). Vero è che l'ingresso nella dimensione 'tecnica' come ultimo modernità dispiegata - il deficit di passione politica, o, che è lo stesso, il suo progressivo asciugarsi a pura tecnica - è ridotto da Dumont a semplice dato: evento neutro, non suscettibile di valutazione. Come se tutte le difficoltà e i veri e propri blocchi di funzionamento che affliggono i governi delle cosiddette società post-moderne e post-industriali non trovassero la propria origine appunto nel deperimento politico sperimentato nella fase precedente. N on bisogna necessariamente scomodare i reazionari sociologi del «tramonto» o anche i romantici difensori della Kultur contro la Zivilisation della scienza e della tecnica, per rintracciare un primo, vigoroso, anticorpo all'ottimismo implicito nello· schema descrittivo di Dumont: basta fermarsi alle «considerazioni impolitiche» di Thomas Mann per ritrovare intero il prezzo pagato dalla Modernità alla propria anima neutralizzante: vale a dire le 'controfinalità' o 'effetti perversi', inerenti a quello che Dumont chiama il transito dal «rapporto tra gli uomini» al «rapporto tra gli uomini e le cose», e cioè al processo di devitalizzazione dei rapporti. to è al suo stesso interno. Di qui l'accento smisurato, feroce, posto sulla totalità sociale» (p. 30). Ma proprio l'esempio del totalitarismo svela il punto cieco della nozione di 'politico' adoperata da Dumont. Essa resta interamente confinata all'interno della sua dizione classica, cioè all'interno della tradizionale identificazione con la nozione di 'Stato'. Da questo deriva, da un lato, il suo schiacciamento sulla semantica della «totalità», dall'altro la sua contrapposizione frontale a quella dell'«individualità». Eppure «totale», nei paesi sottoposti a dittatura, è lo Stato, non il 'politico'. Anzi, al contrario di quel che ritiene Dumont, la causa e la conseguenza del totalitarismo vanno rintracciate nel deficit e non 00 nell'eccesso di politica. E infatti la ~ .s spoliticizzazione - l'assenza di ~ conflitto politico, di politica come ~ conflitto - è la forma specifica, ~ l'altra faccia, della statalizzazione ..._ della società. Ciò confernta la tesi, ] portata avanti da Dumont, di una ~ crisi senza ritorno (almeno nei ;:,. vecchi termini) deHa forma-Stato g nel mondo contemporaneo. Ma ~ chi ha detto che la progressiva i:: 'perdita di Stato' non significhi, ! anziché definitiva fine del politico, 1 una sua inaspettata rinascita? 1s
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