confusi, nel cuore dei nostri dubbi» (p. 48).. Si è parlato di una nuova esperienza di scrittura: ovvero, del modo in cui tradurre, nella finzione del linguaggio, il frantumarsi, l'interrompersi, il perdersi e il ricominciare del discorso e del pensiero. Rimane da affrontare - almeno per i testi di Derrida e di Jabès - il problema della traduzione da una lingua all'altra. Stefano Agosti e Antonio Prete scelgono, nel tradurre, strade molto diverse fra loro. Il primo dilata il ritmo del testo derridiano, rendendolo ancora più avvolgente. Si pensi al passo francese «La cendre-tombe, lasse, làMarina Mizzau L'ironia. La contraddizione consentita Milano, Feltrinelli, 1984 pp. 115, lire 13.500 Paul Watzlawick Istruzioni per rendersi iofelici trad. di Franco Fusaro Milano, Feltrinelli, 1984 pp. 108, lire 10.000 Roger Caillois L'incertezza dei sogni trad. di Vittoria De Fazio Milano, Feltrinelli, 1983 pp. 119, lire 10.000 Giuseppe Pontiggia Il giardino delle Esperidi Milano, Adelphi, 1984 pp. 307, lire 18.000 CJ è odore di bruciato nell'ironia. O meglio, in quelle due sottospecie dell'ironia che sono la classica figura dell'antifrasi, la contraddizione tra ciò che si dice e ciò che si vuole dire veramente, e l'ironia come menzione, riconducibile agli usi citazionali e decentranti del linguaggio. È innegabile- come scrive Marina Mizzau nel suo ardimentoso tentativo di circoscrivere alcune delle pratiche ironiche possibili - che «la suggestione dell'ironia sta nel fatto che attraverso il suo meccanismo il linguaggioesibisce, per cosl dire, il meglio delle sue possibilità». Chi non subisce il fascino dell'ironia come duplicazione . sfrangiata della parola, mulinello di intenzioni e allusioni contrapposte, nutrice di humour e paradossi, strumento ipersensibile d'ogni comunicazioneverbale solipsistica o socializzata, alzi la mano. L'individuo sguarnito di auto- e di eteroironia è musilianamente in odore di stupidità, figuriamoci. E l'ironia socratica fonda la maieutica. Succede però che l'abuso delle procedure ironiche (antifrastiche, citazionali, parodistiche, ecc.) sviluppa nell'interazione quotidiana dinamiche abissalmente stratificate di discorso, in cui le componenti di volta in volta belligeranti o 'affiliative' (il termine è della Mizzau) finiscono per confluire in un garbuglio di complicità a delinquere a lungo andare inestirpabile. Se poi il livello di pertinenza del fenomeno è la produzione di testi culturali scritti, si arriva a un vero e proprio manierismo antifrastico: che travolge l'architettura argomentativa del discorso e trova la sua manifestàzione più plateale nella saggistica divulgativa. L'impaginazione antifrastica del ragionamento induce allora nel che, plus matérielle d'effriter son mot, elle est très divisible», che suona così in italiano: «La ceneretomba cade, allaccia, allenta il nodo, cade stancamente e lascia cadere, più materiale ancora nello sbriciolare la sua stessa parola: si suddivide, si partisce continuamente» (pp. 44-45). Quasi scusandosi di aver dovuto amplificare l'ordito originale, Agosti avverte in nota: «Dello splendido testo di Derrida, tutto giocato sulla riserva omonimica, si è purtroppo dovuto, nella traduzione, là dove non soccorrevano omonimi equivalenti, esporre quanto tratteneva come riserva propria. Così a un vocabolo, o a una- frasé, ne corrispondo~ lettore la tentazione semplicistica ad automatizzare il gioco del contrario dislocato su diversi piani enunciativi. N el suo ricettario sull'infelicità, Watzlawick srotola al vastissimo pubblico i luoghi teorici già vulgati della scuola di Palo Alto: le profezie che si autoverificano, il doppio legame, l'illusione diabolica delle alternative. Tra i rasoi micropsichiatrici teatralizzati dalla facile esposizione saggistica trovano ospitalità citazioni e paradossi d'autore, aneddoti, stereotipi culturali qua e là insopportabili come certi vademecum ferroviari da usare e gettare tipo libri-kleenex. Pure, come spesso accade, anche i luoghi comuni su cui fa leva la divulgazione teorica mantengono una loro superficialità abrasiva assimilabile a quella delle massime, le frasi-nome di cui parla Barthes, provviste di valori ansiolitici come ogni concetto o filosofema squadernato senza mezzi termini, e riciclabili come parole magiche. La verità dello stereotipo si può smussare virgolettandola di 'per così dire' e 'in linea di massima', come in ogni esercizio di generalizzazione bonaria; tuttavia essa può causare un bruciore remoto come i pizzicotti dati in segno d'affetto. Morale ultima del libretto, rubata a Dostoevskij: l'uomo è infelice perché non sa d'essere felice. Mentre ci si chiede sul piano del- . l'enunciato di accogliere questo asserto che suona facile ma tutt'altro che ane,stetizzato, al livello dell'enunciazione si assiste alla progressiva . défaillance della finzione antifrastica molto codificata su cui il testo si regge. Accade infatti che la presupposizione retorica già contenuta nel titolo, che l'infelicità è la meta da raggiungere (cui segue l'implicito metacomunicativo 'adesso vi spiego come'), verso l'epilogo del testo volge di colpo al suo opposto, raddrizzando l'argomentazione del contrario: la felicità è riabilitata e nominata in positivo come scopo finalmente esplicito del testo; affrontando di petto il tabù linguistico che la parola felicità accanto alla parola morte ( e il nesso non è casuale) ha subìto da tempo nella nostra cultura dominante, l'autore sembra ricordarci che il termine e il concetto figurano come un diritto (all'utopia?) sancito nelle prime righe della Costituzione americana. La paura d'essere felici come destino o vocazione all'infelicità è omologata dall'autore alla situazione in cui si pretenda di giocare a tutti i costi il gioco la cui prima no a volte due o anche più nel testo italiano» (p. 3). Tuttavia, a me pare che questa ridondanza nel1' offrire la parola concorra ad accentuare quell'aria di dramma impressa alle idee, al gioco di assonanze e alle figure di linguaggio che il nome 'cenere' evoca; ad accrescere la suggestione di un teatro del dire (o del pensare). Antonio Prete, invece, frantuma ancor di più lo stile aforistico di Jabès e ne spezza i frammenti a volte fino al limite del singhiozzo. Alla lettura (che, a mio avviso, è la prima traduzione, perché solo con la punteggiatura e le pause della voce si dà il ritmo allo scritto), la forma italiana suona più regola è di non giocare alcun gioco, con un paradosso russelliano: nel frattempo, le istruzioni per rendersi infelici convergono verso quest'ultima istruzione: quella di rovesciare tutte quante le istruzioni ricevute (come se ci fosse davvero bisogno di dirlo, con una zeppa logica e retorica sintomatica) per conseguire così il supremo bene mascherato dietro il suo opposto. L'esperto di distanziamenti semantici e pragmatici esce allo scoperto nelle ultime pagine parlando di felicità senza più antifrasi né perifrasi; come se la posta in gioco non concedesse di fare fino in fondo il discorso del rovescio. Conseguenza di ciò è che la felicità viene assunta leopardianamente come potenziale sinonimo di assenza di infelicità, con un buco logico vistoso. Le istruzioni per l'infelicità rovesciate di segno, infatti, sono leggibili come ostacoli per la felicità, non come regole costitutive della medesima, che dev'essere ovviamente considerata come valore altrimenti raggiungibil~ e di per sé consistente. Felice e infelice sono, in altre parole, non due termini complementari in opposizione binaria (per cui l'asserzione dell'uno implica la negazione dell'altro. e viceversa) ma due antonimi graduabili. L'asserzione dell'uno implica la negazione dell'altro, quindi infelice implica sicuramente non-felice; ma la negazione dell'uno non implica necessariamente l'asserzione dell'altro: non-infelice, ahimè, non implica felice. La relazione di opposizione binaria sopravvive solo in aree molto selezionate del lessico in cui si applica il principio aristotelico del terzo escluso (quest'ultimo fonda ad esempio il rapporto tra 'vertebrato' e 'invertebrato'); mentre i casi di binàrismo antologizzati dai linguisti come vivo/morto, maschio/femmina, scapolo/sposato sono vanificati come tali, empiricamente, senza svegliare il vecchio cane metaforico, dall'esistenza di morti neurologiche, di ermafroditi e transessuali, di separati e divorziati. Naturalmente, la relazione complementare continua a essere attiva in logiça e matematica, affidata ai grafemi rapidi e beneducati dei numeri e delle lettere dell'alfabeto. L a crisi del ragionamento antifrastico, evocativo di epistemologie in bianco e nero, contagia con effetti più vellutati anche le classiche tematiche di frontiera come la questione del so-.- gno. Per Caillois non sono i sogni che ci rimandano come vetrate gotiche breve e contratta dell'originale, quasi volesse testimoniare con maggiore incisività i soprassalti del pensiero. In entrambi i casi, comunque, si tratta di una scrittura che, pur essendo marcata fin dai titoli ( Ciò che resta del fuoco e Il libro della sovversione non sospetta) da un'impronta tutta personale, non scavalca il testo d'origine né gli si sovrappone. Ne translittererà invece l'intensità del senso e dello stile: che è, a mio avviso, la qualità di una ·vera traduzione poetica. Troppo sf è detto stilla creatività del tradurre (e lo si è detto di contro alle traduzioni piattamente 'letterali'). Ma tradurre vuol dire sensi freudianamente condensati o spostati del reale, ma è il reale stesso in sospetto di sogno, tanto o troppo il primo somiglia al secondo per l'abbondanza di effettivo nonsenso. Questa, colpendo con . la scure, la tesi centrale del pamphlet datato 1956 nell'originale, e il cui titolo L'incertitude qui vient des reves è stato equivocamente tradotto in italiano con L'incertezza dei sogni, selezionando il senso 'i sogni sono di natura incerta' piuttosto che il senso originario per cui i sogni generano incertezza (differenza semantica non banale). Il testo pare sostenuto argomentativamente da questa tesi, antifrastica rispetto al modello oniricologico più illustre escludendo ogni sconfinamento neuropsichiatrico. Ma, leggendo e mirando, questa si rivela la prima mossa dello scrittore, preliminare a un successivo percorso autocorrettorio. L'approdo degli andirivieni possibilistici di Caillois si può riassumere nel dilemma abbagliante di Zhang Zi citato nel testo («Sono io che ho sognato di essere una farfalla o sono una farfalla che in questo momento sta sognando di • essere me?») solo a patto di ricucire questo dilemma nel quadro di un'opzione ragionevolmente problematica. L'intensa forza illusoria del sogno non è la i:nessa in scena di una fuga ontologica, ma piuttosto l'effetto di irrealtà che il sogno riverbera, per il fatto stesso di accadere, sul concetto e la coscienza di reale. Mentre Watzlawick tratta due antonimi graduabili, felicità e infelicità, come due complementari, con una slabbratura o forzatura concettuale che si poteva parare in due righe, Caillois usa l'antifrasi dialettica per sfaccettare fin dove è pudico l'antinomia tra veglia e sogno; il paradosso teorico e retorico che il testo lavora si bilancia tra verosimiglianza acuta e lieve incongruenza come ogni gesto teorico che risuscita le locuzioni idiomatiche di un paradigma culturale. Cartesio, Pascal, Freud si riprendono alla fine ciò che gli spetta. Entro i più vasti confini dell'ironia, il gioco del contrario ha un suo contrappunto - come si diceva - nel gioco del citato. S e sedurre, come scrive Pontiggia in un'aiuola del suo Giardino, «significa incarnare agli occhi di tin altro la sua attesa», col fatale mascheramento di sé che ciò comporta, l'estetica fondata sull'ironia è tecnica seduttoria onnivora perché - proponendo la caccia al contrario e al citato come esercizi paranoidi ma irresidavvero dar vita a un altro testo? e, semmai, in che misura? Colto il rapporto che il senso • dell'opera da tradurre intrattiene col suo stesso ritmo, a me sembra. necessario (ed è oltremodo impegnativo) trasporre nella nuova lin-, gua proprio questa· relazione, mantenendone i due poli in equilibrio, in armonia fra loro. Solo così - guardando all'intimo rapporto di stile e senso insieme - si può dar luogo davvero a una nuova scrittura che sia, al tempo stesso, traduzione. Ed è il caso- mi pare - sia di Agosti che di Prete. stibili dell'intelligenza - risponde alle attese di riconoscimento di un'identità culturale collettiva. Non solo l'ironia antifrastica con le sue fenditure argomentative, ma più ancora l'ironia citazionale con le sue linee di fuga sembrano essere divenute le unità di misura di una situazione semiotica che ha promosso come valore preminente, e teorizzato, l'assemblaggio intertestuale. Sicché un feuilleton qualunque, un film western, una filastrocca, una tavola rotonda, un articolo di fondo sono immediatamente sponsorizzati dai promotori e dagli arbitri culturali se appaiono in sospetto di ironia. In realtà, escludendo i casi espliciti di remake e le varie parodie di genere (intersegniche e multimediali), l'ironia è spesso una lettura compulsiva del testo, un'ipercorrezione interpretativa non marcata né marcabile da indizi probanti. Così, se un autore supplica di essere preso alla lettera, si pensa ormai a una sua ennesima e più sofisticata finzione. La nostalgia per la lettera perduta del testo, per la superficie integra e piena del senso, per la parola senza doppi o tripli fondali, trapela ancora in Pontiggia a proposito di Palazzeschi: «Come accade solo coi grandi, il linguaggio di Palazzeschi rinvia a continue interpretazioni (... ) per farci giungere infine alla conclusione che tutto andava preso alla lettera». La coscienza di non poter più catturare la forza denotativa delle parole, troppo autoevidente e troppo esposta, soggiace al principio che «il testo ne sa più di me» quando ho finito di scriverlo (è lo scrittore Pontiggia che parla); al critico ·' conviene appuntarsi ancora la metafora di Eco del testo come «macchina pigra», che ne saprà sempre e comunque più di me ma talora, provvisoriamente, anche meno, per la sua inerzia semantica strutturalmente correlata alla sua eccedenza. La superficie dei segni, delle pa~ role-concetto oltreché delle parole-immagine, è diventata una figura retorica più misteriosa di qualsiasi profondità o fragore nascosto; in sé e per sé trasmutante a ~ ogni minimo spostamento dell'oc- <::i ,5 chio. Tale, o simile, sembra lo sta- ~ to d'animo letterale dell'ultimo ~ Porta quando scrive: «se la scrittu- ~ ra s'arresta o finisce / allora mi ~ chiedo: si capisce non si capisce?/ 1 oppure: ho paura che si capisca fin ~ troppo? I in gola le parole si ce- 6 mentano in un groppo»; l'ultimo ~ verso che il poeta traccia, ciò che :g da sempre desidera, è «stringere la i:: parola che è fatta trasparente». ~ -e ~ ~
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