Alfabeta - anno VI - n. 66 - novembre 1984

Mario Luzi Il silenzio, la voce Firenze, Sansoni, 1984 pp. 71, lire 10.000 Jacques Derrida Ciò che resta del fuoco trad. di Stefano Agosti con testo a fronte Firenze, Sansoni, 1984 pp. 50, lire 10.000 Edmond Jabès Il libro della sovversione non sospetta trad. di Antonio Prete Milano, Feltrinelli, 1984 pp. 108, lire 12.000 Michel Leiris BitTures prefazione di Guido Neri trad. di Eugenio Rizzi Torino, Einaudi, 1979 pp. 277, lire 10.000 B asta un'endiadi, Il silenzio, la voce, per smuovere nella mente di chi legge una folla di domande: un tema? un luogo privilegiato alla cui luce ripensare la propria poesia? e non piuttosto l'essenza stessa del dire poetico? l'anima del linguaggio, la sua «componente profonda»? Verrebbe spontaneo pensarli uniti da una congiunzione: il silenzio e la voce. Ma Mario Luzi, fin dal titolo, li separa. Forse, proprio per rivelarne la sostanziale identità. Li di- • • I sgmnge senza tuttavia contrapporli, perché entrambi parlano: a tal punto che, rompendo il silenzio, chi usa la parola «interrompe in verità un discorso in atto» (Il silenzio, la voce, p. 13). Nel linguaggio della comunicazione, la voce e il silenzio sono soltanto segni in alternativa fra loro: fonici o muti. E impegnano la vista o l'udito. Ma il poeta non li pensa come mancanza o pienezza, vocalità o assenza di suono. Anzi, se tende l'orecchio, percepisce il silenzio come «una lingua continua e irrefutabile, emessa dalla profondità dello spazio e del tem- .po» (p. 14). Una lingua che gi;ice, al fondo di noi stessi come una «perenne mormorazione» e si risente all'improvviso allorché affiora alla coscienza: carica di presagi, intessuta di «suoni e moti» impercettibili, «appena intraudita, ma subiacente e presente». Al pari della voce. Forse, però, di entrambi è diverso l'apparire. Il silenzio parla solo nella relazione e nell'intreccio con l'altro. È dicibile - ci ricorda Leopardi - solo nel confronto e nel paragone: «io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando». In alcune poesie luziane, dove si compenetra e si confonde con la voce come in un canto gregoriano, mette a nudo un turbamento dell'animo, «un fremito di morte e di speranza»; svela l'ambi- ~ valenza fra la pulsione di morte e ~ il desiderio di reciprocità, d'amo- .s ~ re, di vita; dice il senso del lin- ~ guaggio, il cui culmine è il dire ~ poetico stesso. """' Ma allora non c'è alcuna differenza fra la voce e il silenzio? Sembrerebbe di no. O meglio: in quanto segno, il silenzio è muto, anche se non si può ritenere solo «lacuna», giacché a volte appare alla superficie come figura ( ad ~ esempio, nei cenni o nei gesti), ;g_ preda soltanto della vista, segno ~ visuale che si rivolge agli occhi. E l'occhio - ci ricorda Jabès - «coglie solo ciò che emerge». In quanto essenza, parla: in modo analogo (anche se opposto) alla voce, che si veste di un «linguaggio intermittente e episodico» ma, nella sostanza, è voce della parola. Di una parola che porta le tracce •di quanti hanno testimoniato l'esserci, «la nostra inerenza o la nostra non rassegnata casualità -nei mondo» (Il silenzio, la voce, p. 29). Di una parola che è dono ed è destinata all'ascolto. Affidandola in passato a Cristo, Luzi ne confermava metaforicamente la sacralità. E aggiungeva: «non abbiamo il diritto di dire parole inutili, di avvilire questo dopo» (L'inferno e il limbo, Milano, Il Saggiatore, 1964, p. 62). Q uesta intenzionalità poetica, sia che si ritragga nel silenzio o che si isoli nella scrittura, riemerge dall'oblio come la memoria. Si fa parusla: non dell'idea, ma del senso dell'«avventura umana». E nell'attraversare la vita, l'umano, la storia, si trasforma: da monologo in presenza del «testimone muto» diventa dialogo, si coniuga con le voci che s'interrogano, risponde a quelle che la interrogano. Alle voci che provengono da fuori o all'altro di sé? Quella con cui il poeta «contende da anni» è voce interiore o voce «di sirena»? È eco, proiezione dell'esterno o rovello della mente che interroga se stessa? Domande retoriche, giacché tutto il mondo di fuori è racchiuso nel grumo dei nostri pensieri. E lo scrittore ne segue il corso e lo traduce nella finzione del linguaggio, muovendosi sempre più fra slittamenti, deviazioni, corrispondenze o disgiunzioni. Come Leiris, per il quale pensiero e lingua, gonfi di ricordi e di sapore, a ogni istante deviano, svincolando - di pari passo - per luoghi inaspettati, Come il signor Palomar (Calvino), il cui esistere risiede in un «pensare», che non è un semplice vedere, ma un leggere il mondo afferrandone le cose «in un solo colpo d'occhio» .(eh' era privilegio e souffrance - fin dai tempi dello Zibaldone leopardiano - del filosofo e del poeta). E giacché - per dirla anche con Lévinas - «pensare non significa più contemplare, ma coinvolgersi, essere implicati in ciò che si pensa, essere imbarcati», capita che il mondo e la pluralità delle sue forme si colgano solo andando al fondo di se stessi. «Quale immagine dell'universo - si chiede Jabès - assumerò oggi su di me? A priori nessuna in particolare» (Il libro della sovversione non sospetta, p. 74). L'intrigo di passioni e di pensieri che anima le figure poetiche luziane e si complica o si dipana lungo l'itinerario di questo libretto, è perseguire un'unità continuamente insidiata; sentire e sognare una felicit~. «rettilinea», pur sapendo di non poterla situare che in un passato immemoriale; cogliere il senso della vita sempre più simulato e offuscato dal molteplice. Al punto che la lingua della poesia, costretta a bucare la maschera della pluralità, risulta marcata da un passaggio che dalla voce monologante, il cui locutore era la natura silenziosa, muove verso il dialogo e infine si rappresenta in una proliferazione di voci: come se il pensiero non riuscisse più ad afferrare il senso se non rappresentando al di fuori di sé le diverse forme in cui s'è disarticolato. Come se le volesse raffigurare in tante voci, quasi per vederle. Costrizione della storia o cifra stilistica personale? L'una e l'altra cosa insieme: il linguaggio poetico luziano, proprio perché percorso dal molteplice, deflagra dal suo interno; si offre come spazio dell'altro, del diverso da sé; si esibisce nella sua pluralità; si fa teatro. Il suo rappresentarsi è l'esito di una trasformazione che nasce dall'intimo del poema: quasi la vecchia differenza grafica fra il corsivo e il tutto tondo volesse assumere un volto, quasi la voce volesse diventare persona. Il suo teatro è «un luogo della mente»: spazio in cui la meditazione - la voce del «pensiero poetante» - acquista un corpo, dei contorni figurali, addirittura dei tratti fisionomici. cenere non è niente che sia al mondo, niente che resti come essente», p. 45), quanto piuttosto la prova di una scrittura ordita «alla plurale», quasi che più pensieri, più immagini, più discorsi si sovrapponessero. Di una scrittura che non può non essere plurale o al plurale, giacché sotto la cenere - residuo di un solo fuoco - cova «l'innumerevole». È come se l'autore tentasse di tradurre sulla pagina gli intricati cammini del pensiero alla ricerca di un senso che non si trova più e che tuttavia continua a mascherarsi nelle sembianze di molteplici corpi fra loro differenti. Di un senso che si è disseminato, frantumato, estraniato da ogni oggetto o persona. Al pari della cenere, qui metafora di una perdita: di sostanza e, a un tempo, di unità; emblema di separazione da sé e di dispersione: «la polvere, le ciprie, il usata per heureusement: «Quella parola storpiata, di cui ho appena scoperto che in realtà non è quel che avevo fin allora creduto, mi ha messo in grado di oscuramente avvertire - grazie alla sorta di deviazione, di scarto impresso al mio pensiero - in che cosa il linguaggio articolato, tessuto aracneo dei miei rapporti con gli altri, mi trascenda, protendendo da ogni parte le sue antenne misteriose» (p. 6). Ce lo dice Derrida. Non solo ·con la frase «vi è la cenere» che, grazie alla sua enigmatica indeterminazione, produce un gioco di equivalenze metaforiche e di segrete risonanze, ma anche con la stessa parola 'cenere', «questa vecchia parola grigia, questo tema polveroso dell'umanità, immagine immemoriale che si era disfatta da sola» ( Ciò che resta del fuoco, p. 5): un segnale? il «miglior para- ------------------------------· digma della traccia»? oppure, in lll f~IMA O fOI DOVfVA svceepef2E '" I SergioStaino Mi domando: che sia questa la scrittura più propria al tempo che viviamo? Una scrittura in cui la voce - per usare un'immagine luziana - «si scinde in tante voci»? Al riguardo, penso all'ultimo Barthes, che concepiva la scrittura «come la forza del linguaggio che pluralizza il senso delle cose e, per •finire, lo sospende». Queste cronache, diceva, «sono per me un modo di far parlare (senza prevenirle, però) le voci tanto diverse che mi compongono. In un certo senso non sono 'io' che le scrivo, ma una collezione, talvolta in contraddittorio, di voci» (in Alfabeta n. 59, aprile 1984, p. 11). A nche Jacques Derrida di recente ci ha dato, con Ciò che resta del fuoco, un esempio di scrittura non tanto da leggere, quanto da ascoltare. Il segreto dell'originalità del suo testo polilogo mi pare consista soprattutto nel mantenere vive le tracce della sua ostensione orale; nel trattenere il carattere di una conversazione con se stessi, proferita immaginariamente da più voci. A mio avviso, ciò che resta di questo fuoco che non si può spegnere, non è tanto la traccia destinata, come ogni traccia, a perdersi, a farsi «non-essere o impresenza», e nemmeno la cancellazione e la critica di ogni fondamento («la pharmakon inconsistente d'un corpo plurale che non gli appartiene più. Non restar più in contatto con sé, non appartenere più a sé: sta in questo l'essenza della cenere, la sua stessa cenere» (pp. 3637). Da questa biforcazione del pensiero e del linguaggio nasce una scrittura nella scrittura; un testo attraversato da un altro testo in corpo minore, che gli corre parallelo a piè di pagina; un intreccio di voci che dialogano, si rispondono, si commentano; una sorta di teatro «in bilico tra l'o chio e la mente». Teatro: perch on sempr.ele lettere del linguaggio restano «let- . tere morte»; non sempre i segni restano senza spessore. Possono a un tratto animarsi, spezzare la gé'ometria della pagina e diventare la molla dell'immaginazione. Ce l'ha insegnato Leiris con i suoi «scarti, inciampi o slittamenti di pensiero producentesi in occasione di un'incrinatura, di un balenlo ... o di una qualsiasi altra singolarità, aspra o sfuggente, che il discorso manifesti. .. risucchi, increspature, schiume o altre alterazioni della superficie (solitamente tranquilla) della lingua» ( Biffures, . pp. 255-56). Ce l'ha ripetuto, concludendo. .. .Reusement!, titolo del racconto che apre il volume, ma anche esclamazione impropriamente assenza dell'articolo determinativo, un nome proprio che fa «vibrare d'una parvenza di donna il fantasma sepolto nella parola, nel fumo» (p. 7)? In ogni caso, un segno o un contrassegno del linguaggio, in cui si materializzano le peregrinazioni della mente. A nche la voce e il silenzio - per ritornare al punto da cui siamo partiti - mi sembra non appartengano altro che alla nostra lingua interiore: sono «l'acustica dell'anima», per dirla con Novalis; il leopardiano «nel pensier mi fingo»; la parola rammemorata che riaffiora. E scrivere questa finzione reale non vuol dire che «rifar daccapo sul margine dello scritto, ma in senso inverso, il percorso seguito dal pensiero» (Jabès, Il libro della sovversione, p. 45). Da un pensiero che, per quanto assoluto e libero dal mondo, lo riassume in sé; che «è senza legami: vive di incontri e muore di solitudine» (p. 19). Seguire poeticamente il flussodi questo meditare - che è insieme immagine, riflessione, sogno - significa specchiarsi nell'altro come in sé. In un sé, il cui volto è sconosciuto: «Queste pagine - dice Jabès - testimoniano l'impossibilità di venire a capo non soltanto del proprio pensiero, ma di se stessi. Dicono il nostro disorientamento di fronte all'impotenza ad essere che ci costituisce» (p. 21). Proprio per questo il libro, posta in gioco dei conflitti. interiori, «non è mai compiuto»: come il viaggio all'interno di sé. E se avviene che una sua forma, una sua figura provvisoriamente si concluda, non può che essere costellata di spazi bianchi, pause, interruzioni, bruschi passaggi da una voce all'altra. Non può che prodursi come un dire interrogante che si alimenta di parole «dal senso molteplice», perché chi le proferisce - saggi, folli, profeti sovversivi e sentenziosi - ha seppellito con le proprie domande ogni certezza. Ma con Jabès, con la feconda molteplicità di sensi che il suo stile - interrogativo «persino quando afferma» - fa esplodere, siamo lontani dalla ricerca luziana di un'unità sotto la mutevolezza delle forme? Forse. Tuttavia, pur nel groviglio di tante piste·insabbiate, anche Jabès guarda a un cammino, tende a una realtà, «della quale andiamo costruendo l'immagine, nel cuore dei nostri desideri

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