Architettureparole Francesco Dal Co Arduino Cantafora Architetture Milano, Electa, 1984 pp. 156, ili., lire 28.000 Stanza di città olio su tela, 200 x 400 cm (Biennale di Venezia, 1984) Mi spoglierò del mio vestito abituale olio su tavola, 35 x 25 cm (1981) M i spoglierò del mio vestito abituale è un olio su tavola. Sulla destra, il profilo di una parete, la sagoma di una quinta che introduce alla costruzione prospettica del quadro. Il punto di fuga si trova nella zona illuminata lateralmente di un muro vuoto, parzialmente inquadrato da una porta. In primo piano, a sinistra, una colonna grigia, più chiara. Il basamento, alto, è ben disegnato, mentre il capitello rimane nascosto, come gran parte del soffitto della stanza. Nella parte accanto, una finestra chiusa, parzialmente accennata. I colori, velati, lucidi e scuri, quasi umidi. La colonna è grigia e la base poggia sul pavimento di mattonelle bianche e rossoscure. Le pareti, la scala centrale, il rivestimento basso dei muri hanno colori di tonalità sfumate, tra l'azzurro carico, il blu e il verde cupo. Ogni dettaglio è colto con precisione nella sua spoglia configurazione. Lo spazio non è angusto ma neppure ampio; forse è più alto che largo, mentre la lunghezza rimane indefinibile. In questo quadro, !'-interno di una casa, vi è una parte importante del mondo di Arduino Cantafora e, inoltre, un catalogo seppur ridotto degli strumenti che egli utilizza per esprimersi. In quell'interno si avverte un'intimità dolorosa, fissata nell'attimo di apparire come vuoto e solitudine, ma anche la consistenza di quella concisa elencazione di mezzi. Catalogare con cura situazioni e stati d'animo, modi di raccontare e rappresentare - questa preoccupazione si esprime nell'ossessione prospettica e nella puntigliosità tecnica che costituiscono tratti caratteristici del lavoro di Cantafora. Un «inventario» ben curato è anche la Stanza di città allestita per la Biennale a Venezia. In quest'occasione Cantafora ha predisposto un ambiente in penombra, con la sola parte di fondo illuminata direttamente. Qui è sistemata una grande tela a olio, di 2 metri per 4. L'architettura del dipinto quadripartito è rigorosamente prospettica. L'ambiente visitato è romano: episodi di vedute capitoline elencati con precisione, monumenti classici raffigurati con meticolosità quasi ingenua e stupita, :=:: pesanti case di civile abitazione, 1::S anonime periferie. A questa sorta -~ di fondale funge da premessa un Cl.. secondo ordine narrativo, più let- ~ terario, svolto per citazioni, rico- ...,. struito nei cassettoni e nei riquadri delle alte volte che registrano in prospettiva gli episodi che si affollano nella ricostruzione mnemonica. Quasi a voler ripristinare una tecnica che ha conosciuto illustri ~ ma oramai desueti precedenti, ;g_ Cantafora ricapitola in tal modo ~ gli archetipi delle proprie figure. Con il medesimo procedimento utilizzato da Antonio Pannini per presentare il lavoro accumulato nel suo studio, Cantafora usa inventariare i propri materiali. Ciò facendo, dichiara funzione e natura delle costruzioni prospettiche alle quali dedica tanta attenzione. Tramite la prospettiva, infatti, egli rende sincroniche e concatenate immagini altrimenti lontane. Non a caso - ed è utile sottolinearlo ora - i soggetti di queste rappresentazioni sono per lo più di natura architettonica. Ne è un'ennesima conferma il dipinto esposto nel Padiglione centrale della Biennale. Anche in quest'occasione, i materiali provengono da uno spazio di osservazione delimitato, per un verso, dalla conoscenza storica della città attraversata e, dall'altro, dalle annotazioni rese possibili dalla casualità di una passeggiata o di un viaggio. Analizzando le compresenze in tal modo accumulate alla luce di quanto il quadro restituisce, pare che Cantafora dipinga con il fine di sottrarre le immagini al loro tempo storico, per inserirle nell'individualità di un'esperienza introvertita al limite dell'incomunicabilità. Tale astrazione si coniuga prospetticamente, poiché la prospettiva offre l'occasione di archiviare (nostalgicamente) forme, edifici, monumenti, modelli, dettagli costruttivi, l'inizio e la fine di ogni configurazione architettonica. L a città è soggetto privilegiato di tali indagini. Cantafora si aggira nello spazio urbano conducendovi estemporanee «cacce minime», verrebbe da dire ricordando le passeggiate parigine di Ernst Ji.inger. Il bottino che ne consegue fornisce le tracce del ricordo che la pittura rinnova, restituendo atmosfere simili a quelle respirabili nell'aria spessa delle strade. Ciò è quanto accade, per l'appunto,· nella Stanza allestita alla Biennale, ove Cantafora ha voluto estendere al pubblico la partecipazione al proprio modo di osservare le cose, disponendo emblematicamente due vecchie panchine accanto alle pareti. Sono panchine assai comuni anche se un po' desuete, quali quelle che si possono trovare nei parchi, immagini della solitudine di coloro che di esse usufruiscono, precarie e casuali occasioni di sosta per ogni vagabondaggio. Altrettanto segnate dal tempo sono le «prede» che Cantafora predilige. Ma le sue passeggiate non sono né troppo casuali né trasognate. La memoria ne suggerisce gli itinerari e ne accoglie i ricordi residui che nei dipinti assumono configurazioni precise, per nulla oniriche. In questo senso, i quadri rivelano una originale vena realistica. Certo, non è difficile individuare il debito da essi contratto con la cultura di Novecento, e notare come non di rado vi affiorino sensazioni romantiche accanto a sentimenti intimamente lombardi, milanesi- anche se ciò dicendo si rischia di suggerire un giudizio limitativo come invece non si vorrebbe accadesse. Il fatto è che il «realismo» di Cantafora intreccia due livelli di discorso concernenti, l'uno, i modi della rappresentazione e, l'a~tro, Bruno D'Alfonso la natura delle figure dipinte. La rappresentazione si avvale degli strumenti della comunicazione architettonica - in maniera quasi «progettuale» verrebbe da aggiungere: prospettive, piante, sezioni, sono disegnate con puntualità e precisione, e sanno tener conto del dato costruttivo. Siano questi temi riconducibili a modelli storicamente consolidati oppure a eventi anonimi, il quadro non rinuncia a studiarne la consistenza materica, le valenze luministiche, la complessione tettonica, la logica ingegneresca. Le figure conservate mnemonicamente vengono trattate con la medesima predisposizione, ma per indagarne, ora, le valenze non evidenti o immediat.amente.percepibili. Siano quelle «le case» ove si rinnova rimpossibile nostalgia per l'abitare o le allusioni a pratich del costruire-progettare ormai vuote e abbandonate, in ogni caso le figure ordinano le forme alle quali la pittura si applica con lo spirito dell'osservazione chirurgica. «Le case» che Cantafora ama dipingere non di rado vengono rappresentate quasi fossero destinate a illustrare un trattato osteologico. Colpiscono soprattutto gli interni, con i loro vuoti geometrici, allucinati e bagnati, quasi, dal trasudare di umori non più localizzabili, e le sezioni ove la vena analitica pone a nudo scheletri dalla configurazione razionale ormai muta. Ma tale precisione allude anche a «altro», a qualcosa che è •problematico mostrare, a un dicibile non facilmente comunicabile. Q ueste difficoltà si annodano nel libro Architetture, ove Cantafora ha voluto individuare e allineare, quasi con un'operazione autobiografica, passaggi salienti della sua ricerca. Non sarà difficile trovare nei disegni, oli, incisioni riprodotti nel volume alcune conferme di quanto si è cercato di suggerire sino a questo punto. E non sorprenderà più del dovuto veder proposti, accanto a tali riproduzioni, anche alcuni testi letterari. In qualche caso, quest'ultimi sono solo appunti, ma in altri sono invece brevi racconti. Sempre,. comunque, la scrittura fluisce attraverso la stessa appropriatezza di linguaggio che Cantafora dimostra di possedere velando i colori dei suoi quadri. Scrittura e pittura non intrattengono scambi diretti se non sul piano strettamente formale - né i due livelli di comunicazione intendono commentarsi vicendevolmente. Semmai, essi convivono aprendosi reciprocamente verso situazioni psicologiche, impressioni e ricordi pertinenti al lato oscuro delle figure più caratteristiche che rieme~gono da ogni sforzo di rappresentazione. Le atmosfere rese dalle prospettive delle case sgombre che Cantafora ama dipingere fissano una condizione di solitudine che il quadro non può che trattare come vuoto. Sono ambienti ove pare che la vita sia stata strappata, oppure momenti dello spazio urbano che non appartengono più ad al- . cun luogo. Sono edifici di Milano, •Roma, interni di ogni città, vuoti-e desolatamente uguali, seppur disegnati da strutture sempre diverse. Raccontando di ciò che è perduto e dipingendo, Cantafora tratteggia una sorta di fenomenologia dell'assenza sostitutiva dell'usuale sociologia dell'abitare. Condensandosi intorno al fantasma residuale dell'abitazione, la figura dipinta mostra l'irreversibilità della solitudine urbana. Casa e città dialogano e si configurano come luoghi che si appartengono, solo in quanto nature indifferenziate, poiché espressioni coincidenti della medesima sradicatezza. Cantafora interroga ostinatamente questa coincidenza. Sia che sfogli le memorie di un «viaggio», o narri un pomeriggio solitario, oppure un ricordo di infanzia, in ogni modo, così facendo, egli interroga luoghi che sa esausti ma ai quali deve continuamente tornare. Scuotendo le maschere e studiando gli scheletri che proteggono il vuoto di ogni costruzione, finisce per imprestare al silenzio le pro- .prie parole e allo spazio geometrie e colori dolenti. Ridare ordine alle cose ponendo domande: la melanconia che si avverte nei «racconti» di Cantafora nasce dal sapere clte proprio l'apparenza di quell'ordine- che è !;apparenza stessa della prospettiva - rivela la stanchezza delle cose. Ma solo affondando nell'inutilità e inevitabilità dell'interrogare, lo spessore del silenzio che occupa lo spazio moderno può venir misurato. Ciascuna rappresentazione finisce così per essere la misurazione di una distanza, un ritorno al nulla. Le figure di questi quadri parlano di lontananza e assenze: i muri sono sordi, madidi di sudori estivi e di umidità stagnante, come gli ambienti scuri delle case ove le esperienze dormono sepolte. Non per nulla l'attenzione di Cantafora viene attirata, non meno che dal vuoto delle abitazioni, dai segni lasciati dalle istituzioni costitutive l'ossatura della città storica. Ospedali, carceri, monasteri, chiese, lazzaretti, cimiteri - luoghi di dolore collettivo, perché la città è in sé sofferenza, ma anche costruzioni per un ordinamento comune del dolore. Ora, anche queste emblematiche immagini dell'eterotopia urbana non sono più luoghi. Anche alla sofferenza non sono più destinati spazi comuni, e non rimane che la privata solitudine della casa. Cantafora ne descrive il corpo disfatto, mostrandone i resti quasi fossero lische affilate. Le sue prospettive e i suoi «progetti» paiono voler cogliere l'imminenza o il compiersi di un simile crollo, aggirandosi tra quanto fisicamente sopravvive di antichi organismi aggrediti da una malattia incontrollabile. I suoi racconti e i suoi dipinti derivano da tutto ciò una vena espressionista, nel senso che gli scritti di Gottfried Benn possono illustrare. Non rimangono che rari momenti felici capaci di insinuarsi in questo minuzioso lavoro analitico. Ma sono legati, quegli attimi, a si- ·tuazioni irripetibili e a sensazioni incomunicabili. Come quando, attraversando una città e scrutandola con una partecipazione che ricorda quella di Savinio, vengono scoperti colori, suoni, odori capaci di riaprire lontani ricordi. Ma allorché la memoria - e la prospettiva, ora si può aggiungere - pone ordine tra quelle sensazioni, all'esperienza non rimane che rinchiudersi nella propria solitudine. Al di là- o meglio: alla fine - di questo ripiegare, si delinea allora una figura definitiva, ove anche parole e colori affondano. Una figura della quale Cantafora presagisce l'incombenzl},ma della quale già conosce la materica consistenza e il cromatismo: è quel «muro nero» di cui parla in un racconto delle sue Architetture.
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