. Due tipi d!a,i/,omanzo Georges Perec La vita, istruzioni per l'uso trad. di D. Selvatico Estense Milano, Rizzoli, 1984 pp. 575, lire 28.000 Fruttero & Lucentini Il palio delle contrade morte Milano, Mondadori, 1983 pp. 165, lire 12.500 D ue romanzi di largo successo usciti negli ultimi tempi, pur apparentemente lontani tra loro e disparati come non si potrebbe di più, si attestano lungo una difficile ma interessante linea mediana che tenta di trovare il guado tra gli estremi dell' «illeggibilità» di uno sperimentalismo spinto (ingrato, in questi nostri anni di riflusso), e invece la leggibilità facile e corriva cui cede la più parte dei romanzetti in corsa per i vari premi estivi. Si tratta dell'ultimo prodotto (il terzo, per la precisione) della fortunata coppia Fruttero & Lucentini, Il palio delle contrade morte, e della traduzione dell' «opus magnum» di Georges Perec, La vita, istruzioni per l'uso, uscita cinque anni dopo l'edizione in lingua originale e a due anni dalla morte dell'autore. Il successo, la gradevolezza, la scorrevolezza di questi. due testi sono certi, l'abilità dei loro autori pure, e appunto è anche da riconoscere loro l'intento di non disarmare, anzi, di sostenere con costrutti ingegnosi l'apparente leggerezza della facciata. Ma il difficile gioco di equilibrio riesce veramente? O siamo invece in presenza di un compromesso, pur abile e accattivante? La coppia degli scrittori italiani è asimmetrica, in quanto l'uno dei due, Lucentini, esisteva già individualmente, e anzi si era conquistato un posto ben preciso nella letteratura di ricerca. Gli esperti in questa materia non dimenticheranno facilmente i tre racconti di Notizie degli scavi degli anni cinquanta, un esempio tra i migliori di stile basso, ovvero di scrittura' votata a registrare il flusso quotidiano dell'«esserci», la «cura>>esi-·- stenziale, come viene vissuta ora per ora, e con notevole grado di fedeltà mimetica a un linguaggio gestuale, rapido, sgràmmaticato non per declassamento sociale, ma per adesione al criterio del «far presto», dell'inseguire l'urgenza del vivere. Notizie degli scavi era insomma un perfetto esito di epifania joyciana allargata a dismisura, anzi, «normalizzata», fino ad anticipare quella che poi Le Clézio avrebbe chiamato «estasi materialistica». In tal modo Lucentini veniva anche a offrire l'antecedente immediato all'onirismo quotidiano di Sanguineti. Naturalmente, il successo pratico di un simile tipo di prosa era pressoché nullo: musica cacofonica per poche orecchie di raffinati intenditori, capaci di apprezzare i «rumori» disordinati dell'esistenza allo stato puro. Lucentini si è stancato, evidentemente, di essere «povero ma bello», e dopo un lungo periodo di latenza è ricomparso in coppia con Fruttero, con cui del resto aveva già costituito una fervida officina di lavorazioni a carattere artigianale. Di sicuro, nei due «gialli» che hanno scandito l'ascesa della coppia nella borsa valori ( La donna della domenica e A che punto è la notte), Lucentini ci ha messo per parte propria l'impareggiabile disinvoltura nel ricostituire il parlato quotidiano, i suoi tic, la sua naturalezza, la capacità di aderire ai risvolti psicologici e sociali. Con la grande differenza che, nella prima incarnazione, tutto ciò era votato a un fine di inutilità (l'inutilità appunto dell'epifania, che celebra il vissuto in quanto tale), mentre dopo la metamorfosi quella scorrevolezza si presenta in panni utili, deve fornire la liscia, disinvolta normalità contro cui emergeranno con maggior risalto gli eventi drammatici, le morti, le inchieste, le trame oscure. La formula del giallo, infatti, prevede che il lettore venga trasportato «in pantofole» di fronte al fatto abnorme ed eccezionale. Quanto maggiore è l'attrito tra i due livelli, tanto più efficace è il funzionamento della formula. B eninteso, non è certo una novità constatare che una scrittura «epifanica», attenta cioè a conferire rilievo al vissuto in sé e per sé, chiede aiuto alle trame del giallo. Basti pensare al nostro Gadda o, per venire a un coetaneo di Lucentini, al capofila del nouveau roman, Robbe-Grillet. Ma questi ultimi due, tutto sommato, salvano l'anima, in quanto è evidente che nell'attrito chi vince, tutto sommato, è la scrittura, ovvero la trama inutile degli eventi, mentre gli stratagemmi del giallo si adattano a un ruolo di spalla, funzionando come lenti di ingrandimento, come banderilleros (si potrebbe dire) che stuzzicano la reattività del tessuto linguistico, o psicologico-psicanalitico, lasciando però a esso l'ultima parola (l'ultima e più maestosa esibizione). Nel giallo di consumo, invece, accade esattamente il contrario (come già si accennava sopra): la disinvoltura della chiacchiera quotidiana, col suo grigio torpore, prepara l'entrata in campo del colpo di gong fornito dall'evento clamoroso, simile al mattatore teatrale, che al suo ingresso in scena fa scolorire le comparse, i compriman. Fruttero & Lucentini hanno venduto l'anima al diavolo perché, senza dubbio, poggiano di più su questa seconda formula, o secondo dosaggio: il massimo del piace'- re, il loro lettore lo deve trarre dalla trama, abile, ingegnosa, e dalle sue attese, dallo scioglimento, così verosimile pur nell'imprevedibilità. E allora la «chiacchiera», il vissuto che fa da diluente, da conduttore, assume un compito strumentale, è il mezzo e non il fine. Ma, appunto, si rivela a que- . sto proposito la maestria di Lucentini, perfino eccessiva, perfino sopra tono: c'è in lui troppa perizia nell'aderire al Dasein dei suoi eroi comuni, anche se ormai essa non ha più il coraggio di proporsi come valore autonomo, e quindi cerca di appiattirsi nel ruolo di tessuto portante. Il palio delle contrade morte complica la formula, ma non esce dai suoi rischi ed equivoci. Si torna ad assistere, da un lato, alla solita maestria nel dispiegare una perfetta «chiacchiera» esistenziale che aderisce come un guanto ai vari personaggi e ai loro status sociali, professionali, psichici, e così via. Lorenzo Maggioni e la moglie Valeria, perfetti rappresentanti di una borghesia media fatta di professionisti, con relativi censi e fortune e abitudini e pregiudizi e coscienze laico-disincantate (sono milanesi), vengono posti dal caso in un piacevole attrito con l'insolito mondo di una nobiltà terriera senese, fatta di sregolatezze, snobismi sottili, spesso occulti agli occhi dei più; il tutto avvolto dalla grande «chiacchiera» che emana da un evento pubblico, folcloristico, massificato, reclamizzato, quale appunto il Palio di Siena. Ancora una volta, ammiriamo la maestria del tessitore di questa tappezzeria contesta di piattezze e di banalità. Solo che, ahimè, il tutto è posto in subordine, in attesa che scocchi il fatto, anzi il misfatto, l'omicidio, come vuole la formula. E questo in effetti sopraggiunge, nella persona del fantino Puddu, trovato ammazzato nel parco della fattoria in cui i nostri due coniugi hanno ricevuto una fortunosa accoglienza. Beninteso, attorno a Puddu aveva già fatto a tempo a sedimentarsi un'apprezzabile 'tranche de vie' relativa al mondo delle corse e dei fantini, con le loro volgarità da piccoli Rasputin, pronti a sfruttare il loro alto grado di professionalità. I n questo terzo appuntamento, i due autori hanno tuttavia deciso di passare a un altro 'genere', benché ugualmente clamocitare un tale salto di orbita, in vista di una carta che intendono giocare a sorpresa nel finale. Non si tratterebbe, in sostanza, dell'ibridazione semplice tra una storia normale, prosastica, e una storia fantastica, quasi da romanzo gotico, bensì di un ricorso sistematico al medesimo grado di libertà sconfinata, di salto continuo tra generi diversi, che ci è concessa ogni momento dalle reti televisive, e dal telecomando che realizza praticamente questa possibilità smisurata di mutare registro, di incrociare livelli, stili, filoni. Il ricorso all'alibi del flusso di storie a mosaico offerto dalla televisione è senz'altro opportuno. Siamo forse in presenza del motivo più sostanzioso che legittima l'attuale nostra epoca di ricerche congenitamente «citazioniste»: tutto oggi vive 'alla seconda', come remake, rifacimento, riscrittura, ogni livello è ben presto raggiunto da un indice che ne segnala il grado di distanza da una ormai mitica e irraggiungibile naturalezza o realtà. Il grado zero si allontana, si stinge, sostituito da un bai- . letto di numeri che si accavallano. Ma fino a che punto i nostri due «fabbri» hanno apprestato questa intelligente chiave finale, seminandone i dovuti preannunci nelle pieghe del loro narrare così disinvolto e verosimile? Non si tratta forse di un tentato riscatto finale, dopo aver indulto in eccesso alle parvenze della naturalezza? Le virgolette devono essere conFamiglia roso ed eccezionale, nutrito di suspense: non più il giallo, che come si sa implica uno scioglimento conclusivo nel nome della razionalità e della verosimiglianza, ma il genere fantastico, irreale, metapsichico. Puddu è stato ucciso dai nobili proprietari della fattoria, solidalmente uniti in un crimine sacrale, perché conduca alla vittoria i cavalli delle «contrade morte», soppresse nel corso dei secoli da altre più fortunate e potenti. I nostri due sorvolano sulla circostanza che allora, per coerenza con un simile disegno, si dovrebbe arguire che anche i nobili campagnoli siano degli estinti di lusso. Non è ben chiaro, cioè, dove si interrompa la sequenza dei dati offerti come reali, e incominci la dimensione irreale (qualche indicatore grammaticale, sintattico, lessicale, dovrebbe pur essere collocato, a segnare il cambio di livello). Ma forse Fruttero & Lucentini si concedono il diritto di non espiitestuali, interposte man mano che si avanza. Altrimenti, se emanate a posteriori, non possono più dirottare la scrittura, rialzarla ad altri livelli. A differenza di quanto avviene nelle storie edificanti (per chi ci crede), nella realtà testuale un pentimento tardo non riesce più a salvare l'anima. M olto diversi, in apparenza, gli ingredienti su cui poggia il romanzo-fiume di Perec; eppure, non è impossibile dimostrare un conguaglio finale, anche nei rischi, con l'opera dei nostri due autori. In primo piano, Perec esibisce una «commedia umana» balzacchiana in miniatura. Gliene fornisce il pretesto l'esame sistematico dello 'spaccato' di un edificio parigino, sito in un quartiere residenziale di tranquilla borghesia (il n. 11 di rue Simon-Crubeiller, presso il Pare Monceau). Di capitolo in capitolo, il narratore risale il caseggiato dalle cantine all'atrio alle scale ai piani nobili ai solai dove sta_nnole stanze per la servitù; e, come se non bastasse l'intrico di storie che già così ne risulta, egli si riserva il diritto di andare un po' indietro sul filo degli anni e di infilare nel suo erbario le storie di chi in quelle stanze era vissuto prima degli attuali inquilini. Del resto, anche le vicende di questi vengono narrate a tratti alterni, come si addice a ogni. epica corale di destini intrecciati, paralleli, interferenti. Abbiamo insomma un perfetto campionario di casi e di esistenze umane, assoggettate ai colpi del caso, della fortuna, dell'imprevisto; ai morsi delle passioni, alla ricompensa delle virtù, alla punizione dei vizi, o viceversa. Ma benin., teso Perec sa quanto l'ideale balzacchiano sia oggi improponibile, o proponibile solo se provvisto di indici che lo allontanino vertiginosamente da ogni presunzione di realtà. Il buon narratore oggettivo dei tempi antichi credeva di essere al servizio della Natura, o del Destino, o della Provvidenza, o della Società - di qualche forza primaria capace di determinare le esistenze dei singoli, o le differenze di classe, o di comportamento psichico. Perec si muove nell'ambito della tradizione di narrativa sperimentale forse più sofisticata che esista nel mondo, come quella francese; tra i suoi maestri spiccano Raymond Roussel e Raymond Queneau, e assieme a quest'ultimo i vari insegnamenti connessi all'Ouvroir de Littérature Potentielle (Oulipo). Il risultato è allora che in luogo di quelle forze naturali primarie, deterministe, nel suo universo si inserisce il gioco dei dadi, il caso, l'artificio. Ognuna delle storie, dei feuilletons che si ordiscono attorno agli inquilini di rue Simon-Crubeiller, nasce come per scommessa, c'è un perfido burattinaio che non si preoccupa affatto di inseguire cause, di rappresentare coscienziosamente verità, o solo probabilità statistiche. Del resto, Perec non ha mai fatto mistero di amare intensamente l'enigmistica, i cruciverba, gli scacchi. E dunque la consistente e poderosa realtà ottocentesca di specie balzacchiana è rifatta ad arte, per irrisione, ad opera di un cattivo demiurgo che non vuole costruire, ma piuttosto decostruire, azzerare: porre con una mano, ma con l'altra sottrarre, cancellare. Assume quindi un ruolo eponimo, o di mise en abfme, la storia centrale, tra le infinite che si sno- ·dano sotto il tetto dell'edificio: quella del ricco Bartlebooth, degno emulo degli eccentrici eroi di Verne o di Roussel, che decide di votare la sua esistenza all'inutilità, a un tortuoso e difficile esercizio capace di distruggersi man mano che avanza. Appresa la laboriosa 'O arte dell'acquarello (pur non aven- ~ do alcuna dote naturale che ve lo •5 ~ spingeva), Bartlebooth parte per ~ un periplo del mondo, trascinan- ~ dosi dietro l'immancabile figura di -. uno scudiero (Smautf). ~ Per vent'anni eseguirà cinque- g cento vedute di porti, una ogni e quindici giorni, che invierà di voi- !2 ta in volta a un corrispondente, s:! Gaspard Winkler, abile artigiano ~ compilatore di puzzles. I successivi l vent'anni di vita saranno dedicati a ~
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