Alfabeta - anno VI - n. 65 - ottobre 1984

Giornale dei Giornali L'altrafacciadeldollaro L e cifre del «miracolo americano» sono ormai ben note: durante l'amministrazione Reagan, dopo una fase di profonda recessione (secondo alcuni la più grave dopo la Grande Depressione degli anni trenta), l'economia Usa ha registrato un tasso di crescita quasi frenetico, mentre l'inflazione è rimasta a livelli sorprendentemente bassi; la formazione di milioni di posti di lavoro ha riportato la disoccupazione poco al di sopra del 7 per cento, un tasso non del tutto confortevole ma nettamente inferiore a quelli con due cifre in cui continuano a ristagnare le economie europee. La continua ascesa del dollaro sui mercati valutari finisce per riassumere e per simboleggiare, agli occhi dell'opinione pubblica «ingenua», la ritrovata forza dell'economia americana, la riconquista di una posizione di indiscussa leadership. «Ingenua» non significa sbagliata: l'ininterrotta rivalutazione del dollaro rispetto alle altre monete ha probabilmente giocato un ruolo importante nella ripresa dell'economia americana. Al di là dell'immagine superficiale, però, non è un segreto che la natura delle cause e delle conseguenze dell'ascesa del dollaro ha dato luogo a notevoli controversie interpretative. Analizzando più approfonditamente le informazioni apparse sulla stampa, il «miracolo» americano assume aspetti Index-Archivio Critico dell'Informazione. sconcertanti: per alcuni, il rilancio della macchina economica è ancora più ampio, duraturo e penetrante di quanto appaia; per altri, la ripresa è fragile e la stessa ascesa del dollaro è un sintomo di questa fragilità. Verso la metà di settembre, quando il dollaro è salito al di sopra delle 1800 lire (e della soglia dei 3 marchi), tutti i quotidiani italiani hanno pubblicato molti titoli di prima pagina e diversi articoli di commento. Uno di questi è particolarmente interessante, sia per il prestigio dell'autore (l'ex governatore della Banca d'Italia Guido Carli), sia perché l'articolo riassume con chiarezza quella che si potrebbe chiamare l'interpretazioneIndice della comunicazione standard, a livello internazionale, sull'ascesa del dollaro e sulla dinamica dell'economia Usa cui essa è legata (Il caro dollaro e la nostra liretta, in La Repubblica, 11 settembre 1984). Gli elevati cor~i del dollaro sono posti in relazione da Carli con gli alti tassi di interesse praticati negli Usa, che facilitano l'afflusso di capitali dall'estero, consentendo cosi di finanziare senza inflazione l'enorme deficit pubblico e il disavanzo negli scambi commerciali con l'estero (opportunamente Carli ricorda che dal quarto trimestre 1982 la domanda interna americana è cresciuta a un tasso superiore del 2 per cento a quello del reddito nazionale lordo: lo squilibrio è stato colmato attraverso le importazioni). «Una situazione finanziaria nella quale coesistono ampi disavanzi del settore pubblico e della bilancia dei pagamenti, elevati tassi di interesse ed ingenti flussi di capitale - scrive Carli - è sostenibile negli Stati uniti perché questo paese non è tenuto a reagire ai vincoli della bilancia dei pagamenti con la stessa prontezza degli altri paesi. Gli Stati uniti sono il paese che crea la moneta di riserva più diffusa nel mondo e può seguitare ad acquistare all'estero pagando la differenza nella propria moneta. Al fine di renderla più accetta gli Stati uniti conducono politiche con le quali i rendimenti ottenibili ltalianTelevisioNn etwork L a vita, oltre ali'ardua prova quotidiana cui ci sottopone, di sopravvivere nella bagarre capitalista, ci ha offerto qualche soddisfazione: nascere siciliani; conquistare il titolo di capocannoniere nel campionato di serie C di pallanuoto; partecipare ai moti del 1968; assisterealla ritiratadei nordamericani dal Vietnam; innamorarci della donna sbagliata al momento giusto; e adesso assistere ali' affermazione di un regime di monopolio nel sistema televisivo privato italiano. Soddisfazione questa che siamo lieti di condividere con altri analisti del sistema dell'informazione, che, negli anni settanta, avvertirono la nazione su cosa l'attendeva se si fosse dato credito a chi predicava la «libertà d' antenna» (ad esempio, cfr. D. Natoli, Una lv all'americana nei piani dei monopoli e La truffa delle televisioni private, in L'Unità, gennaio 1972). È, questo tipo di soddisfazione, un po' lamalfiano, tipico delle mamme che dicono «te l'avevo detto io», con tono accorato: desolate per quanto avvenuto, ma soddisfatte della loro saggezza per aver saputo prevedere. Si era in tanti a predicare attenzione, ad avvertire che la rottura del monopolio pubblico avrebbe significato la fine del «pluralismo» e della «libertà d' espressione», per tutti, meno cheper pochissimi. Si diceva che solo un ente che rispondesse al Parlamento poteva salvaguardare il diritto alla comunicazione; in un regime privato esso sarebbe stato sepolto e dimenticato. Si affermava che la concorrenza avrebbe portato alla concentrazione dellaproprietà e ali'appiattimento della programmazione, e che questo avrebbe procurato guasti all'industria cinematografica nazionale. Una intera associazione, l'Arei, ali'alba degli anni settantapromuo-. veva ingegnosi seminari e redigeva esemplari progetti di legge sull'emittenza televisiva. Niente da fare, le ricche e potenti sirene della borghesia «illuminata» d'un tempo obnubilarono le menti d,eifunzionari dei partiti di sinistra. La dirigenza dell'Arei fu dichiarata obsoleta, gli analisti del sistema dell'informazione chiusi in un armadio, le loro parole dimenticate. Così la sinistra che godeva, e gode tuttora, di, un enorme vantaggio nel/'elaborazione e nella conoscenza dei meccanismi del sistema dell'informazionedicitura allora del tutto inusuale ma Index - Archivio Critico dell'Informazione che si ritrova puntualmente in tutti i documenti de~'epoca - si è andata perdendo dietro ai nouveaux philosophes e altri imbéciles prodige suggeriti da mode incontrollate. E dunque, se l'attuale situazione monopolista consegna una eccessiva medaglia d'oro olimpionica ai poveri studiosi, mostra tutta intera la sconfitta delle istituzioni democratiche e consegna miliardi di lire al monopolista. Sconfitti sono i partiti di sinistra che, pur avendo a disposizione il sapere, o hanno optato per il basso profilo, che quando si è ali'opposizione corrisponde all'impotenza, o hanno cambiato bandiera, uscendone sconfitti lo stesso. Poiché non è dato parlare di consorzio se uno soltanto è il proprietario di tutte le aziende consorziate, né la situazione creatasi in Italia somiglia, seppur vagamente, al sistema inglese. Sembra quasi che per costoro sia il possesso del danaro o del potere e non la qualità delle idee a rappresentare il metro con cui valutare le proprie azioni. Ancor più sconfitti dei partiti gli editori. Il presidente della loro federazione sosteneva nel 1976: « Vi sarà una quasi completa identità tra giornali locali e radiotelevisioni locali, per risolvere la galoppante crisi della stampa e per offrire garanzia professionale e morale alla sofferta conquista della liberalizzazione radiotelevisiva». In seguito a tali considerazioni, la Fieg si schierò apertamente e appassionatamente a favore della cosiddetta «liberalizzazione», che ha visto gli editori protagonisti solo di compravendite o di fallimenti: da Tele Alto Milanese (Tam) di Rizzo/i sino a Rete 4 ex Mondadori e soci, attraverso Italia 1 ex Rusconi e la PubliKompass, vittima di una delle operazioni meglio riuscite de~'attuale monopolista, che ne ottenne l'uscita dal mercato. Grazie allaperseguita «liberalizzazione» la Fieg ha da fare i conti con un calo della quota di pubblicità spesa nei quotidiani, passata dal 20. 9 del gennaio-luglio '83 a/16.5 dello stesso periodo di· quest'anno; mentre la quota de{periodici è scesa dal 19.9 al 14.8. Nello stesso periodo i quotidiani hanno avuto duemila pagine di pubblicità in meno, e i periodici tre.mila (fonte Nasa). Hanno subito un grave smacco le organizzazioni extraparlamentari, rappresentate dalla Fred (1976), associazione costretta alla chiusura per mancanza di emittenti da rappresentare. Il libero mercato, consapevolmente scelto dai responsabili di questa organizzazione quale «terreno di lotta», ha soppresso più di 600 emittenti radio/oniche di sinistra, lasciandone in vita una decina. Ma ci si consola; si legge sul Manifesto a proposito de~'attuale assetto del sistema italiano: «Tutto sommato, entro il grande rimescolamento che si viene delineando per la produzione di immagini e di conoscenze, /! Italia si trova in una posizione più vantaggiosa di altri Paesi europei, tuttora ·attardati in una difesa miope di dimensioni e tradizioni nazionaliste» (il Manifesto, 12 settembre 1984). L'Italia è dunque così ali'avanguardia, se-. condo il Manifesto, da poter trascurare di difendere i propri interessi nazionali e operare con tranquillità alla difesa di quelli del più forte. Altrettanto soddisfatti del- /' accordo sono gli industriali che investono in pubblicità. Il presidente della loro associazione (Upa) ha dichiarato, dribblando esperienza e buon senso, che «la nascita di un grosso gruppo che si contrappone alla Rai preannuncia l'inasprirsi di una competizione che andrà a tutto vantaggio degli utenti televisivi e degli utenti pubblicitari». Altri invece hanno «perduto» la loro battaglia. Uno di questi è il direttore dell'Espresso ali'epoca dei fatti. Eugenio Scalfari, l'uomo che aveva preconizzato televisioni e radio per tutti, persino per Pintor, per la cui radio prevedeva venti milioni di ascoltatori (L'Espresso, 21 agosto 1974), si ritrova adesso anch'e~li privo del mezzo elettronico più potente. Può sembrare di infierire il citare qui le centinaia di articoli che seguirono E ora libertà di antenna (23 gennaio 1972) e Libera antenna in libero Stato (13 febbraio 1972), e ci esimiamo; un po' di severità ci sembra invece utile, perché non si ravvisa pentimento, non v'è cenno d'autocritica in questi uomini, .colpevoli d'aver infranto un monopolio pubblico per consentire un monopolio privato. . Questo monopolio ci allontaua dali'Europa (cfr. Tv cavo di N. Garnham, in Alfabeta fl· 64), rendendola terra di sperimentazioni per dottrine economiche estranee, come già il Cile di Pinochet (cfr. A. Matte/art, Multinazionali e comunicazioni di massa, Editori Riuniti). Rattrista poi la rassegnazione del giornalista che scrive a proposito del monopolista privato: «Investe miliardi a decine, a centinaia, con un coraggio che desta ammirato stupore. Da dove vengono quei denari, quel fiume di denari nessuno sa dire con esattezza e neppure con vaga approssimazione» (E. Scalfari, Comincia la carica dei due cavalieri, in La Repubblica, 31 settembre 1984). Ma come, e le indagini così capillari e puntuali su Cefis che cercava di comprare qualche giornale? e quelle su Einaudi e l'Egam? e su Beniamino Finocchiaro, presidente della Rai per troppo breve tempo? Non ci sono più i giornalisti di una volta! Pienamente d'accordo invece sul «è patetico ma anche vagamente disgustòso, registrare le autocritiche degli uomini politici che avrebbero dovuto emanare da anni la legge sulla televisiol}.e ». Ma perché non v'è stata campagna di stampa alcuna per spingere politici e pubblica opinione a interessarsi de~'emittenza televisiva? Perché non v'è stata levata di scudi umanitaria su tutti i ricorsi presentati dalle piccole emittenti locali contro il monopolista? Perché non s'è gridato allo scandalo quando un pretore di Roma ha sentenziato, contr,o ogni evidenza e ogni logica economica, che «constatato che sono in attività ben tre reti televisive private è ragionevole ritenere che il pericolo di oligopolio è scongiurato e che pertanto non si sia realizzata la situazione di pericolo paventata dalla Corte costituzionale» (Pret. di Roma, 4 maggio 1982)? La Mondadori ha perduto centinaia di miliardi per aver voluto giocare nel malsano ambiente della deregulation, in assenza di diritto, di norme; non ha mai fatto ricorso alla magistratura per protestare contro la costante violazione del dettato costituzionale in materia di televisioni private. Perché? Sperava di vincere? Forse la chiave sta nell'«ammirato stupore», che porta ali'ottundimento (cfr. F. Alberoni, Innamoramento e amore, Garzanti). L'elenco di chi aveva previsto sciocchezze potrebbe diventar chilometrico, e includerci tranquillamente, ognuno è libero di aggiungere a memoria tutti coloro che gli vengono in mente. Ma, se costoro hanno sbagliato e sono in parte responsabili della situazione attuale, va detto che tutti i partiti di governo hanno voluto questo monopolio. L'hanno voluto andando anche contro i loro stessi interessipiù evidenti. L'ambiente 'deregolato' nel quale si è sviluppato il sistema televisivo italiano non ha confronti al mondo. Il Congresso degli Stati uniti, il paese esportatore della deregulation, ha esaminato nel mese di agosto una proposta della Federai Communication Commission (Fcc) che proponeva l'incremento da 7 a 12 delle emittenti televisive di proprietà di una stessa società, o persona fisica, e l'abolizione di ogni limite a partire dal 1990. L'Appropriation Committee del Senato, che ha maggioranza repubblicana, ha bocciato con 18 voti contro 7 la proposta. La Fcc è stata anche aspramente redarguita da rappresentanti di entrambi ipartiti. Il senatore repubblicano del New Hampshire ha dichiarato: «La Fcc vorrebbe offrire un grande potere politico e massicci guadagni a pochi proprietari, i quali hanno già un enorme peso, come gli americani possono vedere, ascoltare e immaginare». Il senatore democratico del South Caroline ha a sua volta dichiarato: «Il presidente della Fcc è un ideologo che·vorrebbe buttar via tutte le leggi e vendere le onde televisive al miglior offerente» (Business Week, 20 settembre 1984). Al di là delle dichiarazioni di principio, sempre interessanti, vi è uno scontro d'interessi ben preciso. L'incremento del numero di emittenti di proprietà indurrebbe i networks a produrre direttamente films e telefilms, il che metterebbe in crisi l'industria di Hollywood. Anche per questo la proposta della Fcc è stata bloccata. La deregulation è ottima... per la truppa votata a cieca obbedienza. Essa, infatti, presuppone l'inoperosità dei Parlamenti nazionali, o un'attività che si svolga in negativo, consistente nello smantellamento delle poche regole di civiltà prodotte nei secoli precedenti a salvaguardia dello Stato di diritto, di cui prevede lafine o quanto meno l'eclissamento. Ricorda tanto il Far West, la deregulation - mito dal quale i nordamericani non si sono mai liberati. Nel Far West, come saprebbero gli Indiani se esistessero ancora, erano sempre i cattivi a vincere, ad onta delle migliaia di films western a lieto fine. «Dissolvere la Rai-tv in nome della libertà d'antenna ex art. 21 della Costituzione» (cfr. Licio Gel- /i, Piano di rinascita democratica, 1975, punto D, n. 3 - in L'Espresso del 20 maggio 1984).

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