Alfabeta - anno VI - n. 65 - ottobre 1984

Berio e Maderna si ispirò sempre e unicamente alle esigenze estetiche che di volta in volta insorgevano, soprattutto in relazione alle qualità specifiche dei mezzi impiegati. Il lavoro in quegli studi procede infaticabile, come in gara con il tempo, in realtà competitivo solo con se stesso e con la febbre delle nuove ,possibilità, non senza .risvolti poetici che già emergono in Ritratto di città (1954), nato dalla col\aborazione di Berio e Roberto Leydi e impostato s~ila rappresentazione acustica di una giornata milanese: un testo con sovrapposti rumori e suoni elettronici, il tutto ancora barbaramente ingenuo.· L'emancipazione definitiva da ogni riferimento descrittivo avviene nel 1956, quando in contemporanea sono prodotti i nastri di Mutazioni (Berio) e Notturno (Maderna), seguiti l'anno dopo da Perspectives (Berio) e Syntaxis (Maderna). Nel lavoro parallelo dei due musicisti si riflette il gomito a gomito del tempo passato in studio, la discussione continua e appassionata su ogni frammento sonoro e le soluzioni diverse che di volta in volta ciascuno dà a problemi simili. Ecco allora che Perspectives elabora processi di accelerazione ritmica tirati sino al parossismo, tanto da sconvolgere anche l'identità timbrica del suono, mentre Notturno si riallaccia ancora al divisionismo weberniano, dove il timbro rimane elemento fondamentale di continuità. Q uesta attenzione all'aspetto coloristico del suono costituirà uno dei punti di forza delle sperimentazioni milanesi e proietterà il lavoro di quegli anni verso il futuro, rendendolo attuale all'ascolto ancora oggi, proprio per le sue qualità di suggestione. A questo proposito, Continuo (1958) di Maderna rimane l'opera più interessante fra quelle prodotte nel Centro di Fonologia, appunto per il suo insistere su lunghe sonorità tenute. Qui la qualità del suono elettronico suggerisce l'organizzazione stessa del brano, secondo grandi fasce acustiche generate l'una dall'altra e tutte concorrenti alla connotazione ipnotica dell'opera. Ma già in quell'anno si prepara l'avvento di nuove intersecazioni, di una prospettiva più ricca nell'uso del nastro magnetico: si studia (e si realizza) la possibilità di far interagire la registrazione con il suono tradizionale degli strumenti. Nasce Musica su due dimensioni (titolo quanto mai programmatico) di Maderna, giocato tutto nel rapporto tra flauto e nastro, con largo spazio concesso alle combinazioni aleatorie tra le due «dimensioni» e quindi all'imprevedibilità del risultato finale. Ciò avviene secondo una logica cara a Maderna, che può essere riconfermata dall'esame della sua Serenata per un satellite, dove i punti d'incrocio della partitura (per strumenti classici, senza suono elettronico) diventano altrettanti snodi possibili per ciascun esecutore. Più elaborato e complesso, seppure nella stessa direzione di Musica su due dimensioni, sarà Différences di Berio, composto fra il 1958 e il 1959 per un'esecuzione diretta da Pierre Boulez al Domaine musicale di Parigi. Qui il rapporto fra strumenti (flauto, clarinetto, viola, violoncello, arpa) e nastro è di continua deformazione, attraverso una progressiva e totale modificazione del materiale sonoro originale, in un vero e proprio stravolgimento dei rapporti timbrici. Il terreno è ormai pronto per la creazione forse più significativa di tutto questo arco di anni milanesi: Thema (Omaggio a Joyce) di Berio, scritto nel 1959, un'opera che sicuramente possiamo definire di sintesi fra le varie tendenze elettroniche dell'epoca, italiane, francesi e tedesche. La composizione è basata su un frammento dell'Ulisse di Joyce (l'inizio dell'XI capitolo) interpretato da Cathy Berberian in tre lingue (italiano, francese e inglese) e successivamente mixato, distorto, rielaborato su nastro. A questa lettura sono sovrapposti suoni elettronici, rumori, di volta in volta sommati, frammentati, incrociati con il testo in una poetica orgia, dove suono e rumore si equivalgono, «concreto» ed elettronico vivono tranquille vite integrate. In tutto ciò ebbero non poco peso le ricerche che Umberto Eco andava facen40 in quei tempi sull'onomatopea e sulle qualità fonetiche delle tre lingue impiegate. E siamo così alle soglie del futuro: dietro l'angolo c'è ormai il boom economico, l'accelerazione del processo produttivo, l'esasperazione del rapporto uomo/elettronica. Eppure tutto ciò era già in nuce nel lavoro di Berio e Maderna, nel loro considerare pienamente umano il suono sintetico, nel prolungarsi attraverso manopole e filtri, nell'offrire dignità in Italia a una ricerca che ancora attraversa la nostra contemporaneità. Che oggi si possa considerare tale esperienza con occhi da archeologo non ci impedisce di riconoscere il carattere profetico di quell'operare: l'elettronica, che è oggi nostra legittima sposa, veniva assunta allora come eccitante concubina in un piacere sperimentale che meriterebbe di essere recuperato in questi giorni nostri di routine e prevedibilità. Note •(1) L. Berio, Intervista sulla musica, a cura di Rossana Dalmonte, Bari, Laterza, 1981, p. 133. (2) Atforno a Berio e Maderna altri musicistiruotarono più o meno episodicamente ·fra i macchinari del Centro di Fonologia, tutti comunque debitori ai due maestri di stimoli che rimasero importanti nelle loro esperienze future. Tra gli stranieri, sono da ricordare i nomi· di Henry Pousseur (Scambi), André Boucourechliev (Texte {) e John Cage (Fontana Mix). Negli italiani troviamo, quasi al completo, la (ex) giovane scuola e, quindi, Paolo Reno- .sto (Love's body, Praeludium e Omaggio a William Blake), Aldo Clementi ( Collage n. 3), Niccolò Castiglioni ( Divertimento), Roman Vlad, Valentino Bucchi e Luigi Nono (Fabbrica illuminata, Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz, A fl.oresta è jovem e cheja de vida, Contrappunto dialettico alla mente). Come dimenticare, poi, l'apporto indispensabile di Marino Zuccheri, tecnico del suono impareggiabile per professionismo e passione? Unospettacoloa Gibellina Jean-Jacques Lebel Rovine, nient'altro che rovine. Brandelli di muri crollati, balconi diroccati, arbusti all'interno dei ruderi. Immagini di una società ridotta al nulla o quasi. Questo «quasi» è lo spazio tragico per eccellenza. I corpi sventrati, i pezzi di cadaveri sono stati tolti, ma è proprio qui che il 15 gennaio 1968 un terremoto ha schiacciato centinaia di vittime sulla pietra e sul cemento. Le rovine, loro, sono intatte, protette dall'irreale conservatore di questo museo de~'orrore. Un nuovo villaggio, per accogliere i superstiti, è stato costruito a qualche chilometro di distanza - progettato da alcuni fra i migliori architetti e i migliori scultori italiani - esempio davvero straordinario della parte migliore della Sicilia. Sul luogo stesso del disastro, là dove i loro parenti sono stati schiacciati e sepolti, gli abitanti di Gibellina sono diventati, sedici anni più tardi, attori - o, meglio, comparse - di una tragedia diversa dalla loro, quella di Eschilo, l'Orestea, riscritta in siciliano da Emilio Isgrò. Tentativo assurdo di riattualizzare e riscrivere un disastro, di decensurare e trasformare se non in museo almeno in opera d'arte e in scenografia abitata questo villaggio cancellato daUa carta geografica. Come guardare queste rovine moderne di cemento quali rovine di templi antichi propizi alla rappresentazione del mito? Come rirappresentare la disgrazia che ha colpito, che colpisce i siciliani? Come mescolare due tragedie, quella dei superstiti e quella degli eroi della mitologia greca? Comparse, ancora e sempre, questi contadini muti e immobili ascoltano i discorsi folli di desiderio e di morte di Oreste, di Clitennestra, di Cassandra, di Elettra, di Agamennone. Tentativo per altro riuscito, come per sbaglio. I processi di devastazione si sovrappongono gli uni agli altri. La decomposizione della Grecia di ieri e della Sicilia di oggi - posseduta dai delitti -, il marcio del Sud che Isgrò ha intercalato nell'Orestea - la prima delle tragedie classiche -, gli amori distruttivi degli eroi e delle eroine, i soli dotati di parola - tutti questi flussi e tutte queste epoche costituiscono una sorta di collage quasi intelligibile e svelano un'immagine multipla, polisemica, del disastro. I superstiti del terremoto assistono, dunque, a un remake immaginario - ma più vero del vero - della loro propria storia attraversata dalla guerra dei sessi, l'incesto, l'isteria, la lotta per il potere, i disastri dell'imperialismo militare, culturale, economico, l'ineluttabile declino delle civiltà e degli esseri e, infine, il «soffio pitico» della letteratura e del teatro. Le apparizioni più sconvolgenti, nella notte siciliana, sono state quelle di Clitennestra, di Agamennone, di Egisto e di Cassandra emergenti da quattro grandi sculture dorate allestite da Arnaldo Pomodoro e portate a spalla dai superstiti robotizzati. Forse la regia, di Filippo Crivelli, poteva trarre ancora di più partito dal contrasto fra la magnifica scenografia-scultura di Pomodoro e le rovine reali del villaggio. Dal punto di vista del movimento e dell'intensità drammatica, i personaggi femminili hanno dominato - per la potenza mortifera del loro desiderio - i personaggi maschili, come se la rappresentazione teatrale, sebbene ibrida e affrettata e a volte sontuosa, non potesse cancellare in fin dei conti il testo di Eschilo. La voce più notturna e più straziante è stata quella della «cantastorie» siciliana Rosa Balistreri, che aveva il compito di commentare lo svolgimento e la giustapposizione dei tragici avvenimenti. Francesca Benedetti recitava una Clitennestra in preda a un solo demone, come istericamente divorata dalla passione delittuosa. Anna Nogara inventava una Cassandra velata, dal linguaggio schizoide - come si conviene a una Pizia ispirata da Magritte (L'Histoire centrale, 1928) - e una Elettra posseduta, lontana dal mondo tranne quando la madre l'aggredisce sessualmente in un criminale corpo a corpo. Loredana Martinez era un terribile angelo giustiziere. Mariano Rigillo (Oreste) e Eros Pagni (Agamennone e Pilade), a volte eccellenti e a volte mediocri, soffrivano anche loro di una certa assenza di globalità della regia. Si ridiscende da Gibellina a Palermo e si ricasca nel disastro quotidiano della Sicilia. Il testo visionario dell'Orestea esce vittorioso sulla «mise à mort de l'amour» nella «casa in odio agli dei... macello d'uomini, truogolo di sangue». L'Orestea di Gibellina di Emilio Isgrò regia di Filippo Crivelli (Gibellina, luglio 1984)

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