Alfabeta - anno VI - n. 65 - ottobre 1984

Q uando si parla di 'pensiero forte' ci si riferisce, per lo più, a un dispositivo concettuale altamente organizzato, a un sapere tutto costruito intorno a rigidi schemi di evidenza. Dio, l'Uno, l'Idea, il fondamento, l'essere, il Tutto. Tra i 'principi primi' e i 'fini ultimi' si delinea il perimetro chiuso della verità nell'economia generale del senso. 'Pensiero forte', dunque, come metafisica. E metafisica in quanto espressione, ormai anacronistica, di un sapere unitario i cui modelli di coerenza appaiono inevitabilmente riduttivi rispetto alla crescente complessità in cui consiste l' 'anarchia' dispersiva del mondo moderno. Un'anarchia, una molteplicità, che non sembrano più lasciarsi ordinare nell'orizzonte unificante di un sistema meramente cono-scitivo. Ma è come dire, allora, che questo sistema non funziona: non comprende, non domina, non può. È come dire che la metafisica (il pensiero forte), piuttosto che produrre la forza come una effettiva realtà - come un potere-, ne coltiva il sogno o l'illusione alimentando sempre e di nuovo l'impotente arroganza del suo desiderio. Sappiamo però che le cose stanno diversamente. Sappiamo soprattutto, grazie a Heidegger, che la metafisica, piuttosto che disgregarsi e dissolversi nella fantasmagoria allucinata dell'immaginazione desiderante, realizza la sua intrinseca volontà di dominio compiendo il proprio destino nello spazio della tecnica moderna, nell'orizzonte, cioè, di quella forma di imposizione che è anche il più ampio, diffuso ed efficace sistema di potere sino ad oggi sperimentato. Ma la tecnica, che pure deriva dalla metafisica in quanto ne rappresenta una estensione e un prodotto, mantiene tuttavia, rispetto a essa, un innegabile vantaggio. Infatti, ciò che è caratteristico e specifico della tecnica (ciò che in ogni caso la differenzia visibilmente rispetto alla metafisica) è la sua inarrestabile e indiscutibile capacità di comprensione di qualsiasi aspetto della vita umana. Spettacolare macchinazione planetaria del dominio pianificato, la tecnica è anche - forse soprattutto - grande 'arte' capace di catturare il dettaglio e di dissolverne la concretezza assumendolo entro ampi schemi di astrazione formale. Essa penetra il frammento allo scopo di distruggerlo, ispeziona l'insignificante per poterlo ricondurre nel codice della razionalità e del senso, progetta e regolamenta - nei particolari più minuti - i comportamenti individuali e collettivi prefigurando scelte, atteggiamenti. e valori in base ai quali l'esistenza privata è per lo più sottratta a se stessa e consegnata alla neutralitàomogenea dell'universale dominio e della pubblica opinione. Nel quadro delle connessioni qui stabilite (fra metafisica e tecnica, fra tecnica e organizzazione dell'esperienza ordinaria) possiamo dunque circoscrivere e definire il luogo specifico al cui interno si afferma la forza reale del pensiero. Sappiamo ora, infatti, che per cogliere l'effettivo prodursi di un simile potere non è indispensabile, in fondo, ispezionare l'universo dei massimi sistemi. Cercheremo allora la 'forza' non tanto e non soltanto nelle grandi cattedrali dello spirito, nei monumenti del L'altro~bUOlidia• q Giorgio Franck passato o nei reperti di una veneranda e memorabile tradizione, ma anche - e anzi soprattutto - proprio là dove noi siamo, nello spazio abituale e consueto della nostra esistenza. Poiché 'pensiero forte', da questo punto di vista, non è nient'altro che vita quotidiana. È proprio in una tale sfera che - come ricorda Pier Aldo Rovatti - «la categoria di universalità continua ad agire» (P.A. Rovatti, «Trasformazioni nel corso dell'esperienza», in Autori vari, Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 43). Camminiamo: ma si tratta di un muoversi fatto, sempre o quasi sempre, «di un'unica possibilità di movimento». «Il significato che attribuiamo alle cose» si inscrive nella meccanica bloccata e ripetitiva dell'automatismo. La realtà, tecnicamente ordinata, si semplifica in modo quasi brutale. Nel mondo della precisione sottoposto al dominio spietato della legalità matematica, la complessità dell'esperienza viene ridotta al minimo, sino a toccare quasi il 'grado zero'. «La scena è appiattita». Ed è proprio un simile appiattimento «che tutti condividono, l'attuale figura del 'pensiero forte': in quell'automatismo, nel gesto normale in cui si consuma una potente astrazione, in questo ovvio semplificare le cose, sta il carattere forte del pensiero» (p. 45). È un'omogeneità, una normalità, una banalità, una logica di superficie al cui interno il nostro stesso io si trova collocato; esso assume la forma astratta di un'identità definita per lo più dalla funzione, dal ruolo o dalla forza - davvero costrittiva - dell'abitudine. Dunque un'identità «il cui carattere fittizio, provvisorio e compromissorio salta ormai sempre più agli occhi». Di qui l'esigenza di un mutamento, il bisogno di un'uscita e il conseguente tentativo che a partire da una tale esigenza viene talvolta a prodursi. «Qualcosa che assomiglia a un agire inconscio si mette in moto per cancellare le tracce di un soggetto stereotipato e convenzionale» (p. 48). Non si tratta però di un'estasi, di ciò che «appare come un lampo sulle vie della banalità»; non è il caso, «il grande istante», quel 'miracolo' di cui ad esempio tratta Lukacs in L'anima e le forme. È piuttosto una sperimentazione, un esercizio, un divenire deboli attraverso variazioni, oscillazioni, spostamenti e scarti che si danno per lo più come piccole mosse in un quadro strategico aperto, mobile, differenziato. Piccole mosse e talvolta piccole catastrofi capaci tuttavia di farci nuovamente scoprire la normalità in modo tale da permetterci di produrre esperienza. Il quotidiano, in questa prospettiva, non viene più clamorosamente annullato dal carattere straordinario di un'esperienza-limite; è invece attraversato e ripe(.corso secondo le linee di avvicendamento di un «viaggio controcorrente»; avventura nel corso della quale il soggetto, depotenziandosi e indebolendosi, pone in questione lo schema (il blocco uniforme, la forza unificante) della propria identità irrigidita. Positivamente ciò comporta «una modulazione attiva dell'inquietudine» (p. 51), la quale ci consente di prendere contatto con la realtà e con noi stessi. È un movimento arrischiato e sperimentale orientato, comunque, verso lo sviluppo di un processo di realizzazione. E se invece proprio il quotidiano ( a un differente livello di considerazioni) si presentasse come l'effetto di un'esperienza-limite? (Esperienza della non-esperienza; esperienza che non si produce più come un avvenimento vissuto, che non appare più come qualcosa di attivabile e di assumibile). Esperienza impossibile del quotidiano o impossibilità dell'esperienza quotidiana. Vi è una vita ordinaria legalizzata, regolamentata, funzionalmente produttiva e tecnicamente efficace. Vi è, potremmo dire, una dimensione diurna del quotidiano, quella che abbiamo sino ad ora considerato. Ma vi è forse anche, insieme a essa, una sorta di quotidianità 'notturna' inafferrabile, indefinibile, sfuggente, insignificante. Qualcosa che non è più un 'pensiero forte' perché non è ancora una qualsiasi forma, determinabile e riconoscibile, di pensiero o Il pittore Pàl Sandano di sapere. L'indistinto, l'amorfo, il senza-nome. Un quotidiano illegale, insomma: anarchico. Non già «l'esistenza media, statisticamente constatabile» (M. Blanchot, L'infinito intrattenimento). E neppure ciò che può essere compreso nell'orizzonte di un qualsiasi dominio, impersonale quanto si vuole ma pur sempre storicamente definito. Di questo altro quotidiano Blanchot ha scritto che è «la cosa più difficile da scoprire». Poiché esso, infatti, non è più «né l'uno né l'altro». È come dire che è neutro. Non si manifesta nelle forme del vivere organizzato che mi trascendono e alle quali, in qualche modo, appartengo."' Ma non si dà neppure nell'emergenza di quel variegato 'sentire' che, in qualche modo, appartiene invece a me. Come neutro, come forma radicale ed essenziale dell'anonimato umano, il quotidiano è assenza di soggetto. È cioè, ancora, «né l'uno né l'altro»: né l'identità formale vincolata all'automatismo e inscritta nel tessuto uniforme dell'abitudine, né, d'altra parte, la molteplice, stratificata concretezza del vissuto di esperienza in quanto segno di apertura al possibile. E tuttavia non possiamo con ciò affermare che l'impersonalità opaca del quotidiano costituisca una specifica ed effettiva obiezione rivolta contro l'atteggiamento sperimentale messo in opera nel quadro del 'pensiero debole'. Poiché infatti, se il quotidiano di cui si è detto costituisce una sorta di esperienza-limite, ciò significa .anche che esso non ha mai la capacità 6 il potere di assorbirci e di assoggettarci completamente. Fino a quando noi in quanto tali siamo, rimaniamo sempre anche a una certa distanza da ciò che appare come una pienezza indefinita senza me e senza altri. Siamo attraversati dalla muta anarchia del quotidiano, questo è vero; lo percepiamo confusamente, talvolta, come una pesantezza o come una densità che sembra gravare su ogni nostro più piccolo gesto. Talvolta, per lo più in rari momenti, mentre cresce e si espande attorno a noi e in noi sino a formare una specie di presenza inafferrabile, esso sembra persino suggerirci una strana, sconcertante verità: quella che tocca all'uomo allorché egli è ridotto al grado zero; allorché, privato di· se stesso, diminuito sino al punto di essere sottratto a sé, egli diviene l'innominabile, l'assente, l'inesistente, l'epulso, lo straniero. Tuttavia, colui che ancora ha la capacità di dire 'io', fonda in ogni caso questo suo potere su una separazione, su una decisione, su un distacco: il quotidiano lo riguarda ma non lo comprende, lo inquieta, forse, in virtù della sua forza corrosiva, ma non lo annulla, né lo disfa, né lo dissolve. S ulla base di tali riflessioni, mi sembra ora opportuno riconsiderare quella nozione di debolezza di cui si fa problema in queste pagine. Poiché vi è, nel quotidiano, qualcosa che concerne in modo essenziale una simile dimensione di esperienza. Non si tratta più, però, della debolezza nel suo rapporto al pensiero; è invece il segno di un indebolimento più radicale in quanto sottratto alla sfera del pensabile o comunque estraneo ai suoi consueti strumenti di misura. Debolezza, potremmo dire, di una parola che non si pensa più, che non è più coinvolta nel gioco della produzione e della elaborazione di un senso. Non volere (più) dire nulla: abbandonare, cioè, il campo in cui la parola si mantiene nel luogo dell'intendere. • Oltre il pensiero debole, potremmo ancora dire, vi è forse la debolezza di una parola senza pensiero. Parola insignificante, parola inutile e a suo modo eccessiva. Ma, d'altra parte, non è forse proprio il flusso indistinto del quotidiano ciò che ci permette di ascoltare il suono (o il rumore) di una simile parola? Non è forse nella eterna nullità e nel vuoto della chiacchiera che la parola eccede, almeno in parte, la sfera del 'voler dire'? Considerata secondo questa prospettiva, la chiacchiera non appare più soltanto come il segno inautentico di quell'impersonale 'si dice' analizzato da Heidegger in Essere e tempo. Se, ancora una volta, ci sappiamo collocare a una certa distanza dalla parola quotidiana - se, cioè, sappiamo ascoltarla -, possiamo forse percepire in essa qualcosa che inquieta e che turba. Non si tratta tanto del suo carattere stereotipico e convenzionale, espressione di una superficialità che può produrre, al più, disagio, irritazione o fastidio. Al contrario, ciò che turba o inquieta giunge forse anche ad affascinare. È lo stupore di fronte all'enigma della banalità, quell'autentico stupore metafisico per ciò che è tota!- mente insignificante, dal quale Henry J ames - come si dice - era costantemente catturato. La parola di puro intrattenimento, la parola, cioè, che non si trattiene più, ma che va e viene, che fluisce e scorre - sottratta a ogni consistenza, a ogni rigidità, a ogni blocco-, questa parola lasciata e ri-lasciata (smarrita, perduta per sempre, abbandonata, trascurata, dimenticata, inutilizzabile), questa parola che si dice senza che nulla sia veramente detto, ci avvicina - assai più della parola pensante e semanticamente densa - a quello che è probabilmente l'autentico enigma del linguaggio. Essa, infatti, mostra come al fondo di ogni atto di parola vi sia qualcosa che precede l'intendere e il comprendere, il pensare e il conoscere, il capire e il sapere, il volere e il potere. Sarebbe dunque questa una parola debole? Una parola senza potere. Una parola in cui l'assenza del voler-dire si tradurrebbe in un disimpegno rispetto al poter-fare. Eppure proprio Blanchot, sulle tracce del pensiero di Hegel, ci ricorda che l'atto della nominazione - nel linguaggio - costituisce l'espressione più radicale (in quanto più originaria) dell'impiego della forza. Parlare, in questo senso, equivale a uccidere, esercitando una forma arbitraria di violenza dissimulata. Dare nomi alle cose significa sopprimere le cose, vuol dire privarle della loro effettiva esistenza rimettendole al possesso dell'uomo che le annette al campo puramente ideale del proprio dominio. Da questo punto di vista, nel racconto biblico del Genesi, il primo atto di morte realmente consumato non è il fratricidio ma il gesto adamitico della pura nominazione. Linguaggio come violenza, dunque. Ma violenza in quanto imposizione di un nome e attribuzione di un significato. Non è infatti nella parola come parola che si afferma già la libertà incondizionata di una signoria e di un arbitrio. È invece nel voler-dire, nell'intendere, è qui che il parlare si esplicita nell'esercizio di un potere e si consolida nella propria vocazione alla potenza. È qui, è nell'evento originario e supremo della negazione, che si stringe - come direbbe, credo, Agamben - il nodo fra il linguaggio e la morte. Ma d'altra parte - come ho cercato schematicamente di mostrare - al di qua di un simile evento vi è ancora e sempre quella dimensione pre-originaria nella quale il dire appare disgiunto da ogni voler-dire. Una parola assoluta, dunque. Una parola finalmente assolta. Non vi è però nessuna pienezza metafisica, nessuna forza, nessuna luminosa maestà, nessuna gloria, in una tale parola. Se si dà nel linguaggio il luogo in cui il puro dire diviene segno di una relazione senza potere, questo luogo è lo spazio consueto delle nostre parole più ~ povere, più semplici, più nude. c::s .s Parole che non si tengono più: in- ~ consistenti. Parole deboli, parole t::l.. distratte. Parole immemorabili, ~ negligenti, intransitive. Parole ab- ...... bandonate dallo stesso pensiero. Questa rubrica, iniziata in Alfabeta n. 60, con un intervento di P.A. ~ Rovatti, ha accolto finora interventi di F. Re/la e E. Greblo (n. 62/ ~ 63), G. Jervis, G. Bottiroli e A. l Illuminati (n. 64). ~

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