Questa rubrica, iniziata in Alfabeta n. 60, ha accoltofinora interventi di C. Formenti e P. Volponi (n.· 60), R. Esposito (n. 61), G. Comolli e U. Curi (n. 62163), R. Gasparotti (n. 64), e «materiali» di G. Procacci, R. Guiducci e M. Spinella. S e è vero che il «piacere» può essere indicato come l'obiettivo determinante ogni momento del nostro agire, e che il maggior «dis-piacere» è per l'uomo quello della morte, risulta senz'altro chiaro il senso della costanza con cui da sempre l'uomo tenta la pace come superamento del rischio mortale della guerra. Ma mai come intorno al Sei-Settecento si è avvertita l'esigenza di fondare nel modo più saldo e nello stesso tempo realistico la scelta di una pacifica con-vivenza che riuscisse a posticipare il più possibile quella morte comunque vissuta come traguardo inevitabile della nostra esistenza. Estremamente indicativa ci sembra, in primo luogo, la posizione di Hobbes. Dato che, se lasciato alla sua più pura naturalità, l'uomo si arroga immediatamente il diritto su tutte le cose, con il conseguente sorgere del conflitto di tutti contro tutti (infatti nessuno, per natura, rinuncia a poter disporre di ogni cosa; e, dato che il tutto di cui ogni uomo vuole poter disporre è lo stesso per tutti, l'unico mezzo per portare a compimento tale istintiva disposizione è l'eliminazione - attraverso la guerra - dell'altro), l'unico modo per rendere possibile una pace duratura è l'istituzione di uno Stato assolutistico in cui il potere del sovrano al di sopra di ambo le parti in lotta abbia diritto e forza sufficienti per costringerle a rispettare il patto convenzionalmente stipulato. Hobbes contra Aristotele, quindi; il filosofo greco, come tutti quelli che l'hanno seguito, sarebbe colpevole, secondo Hobbes, di non essere riuscito a cogliere la vera e originaria essenza della natura umana. Altro che «animale politico»: se per le creature irrazionali del mondo animale l'accordo è naturale, «quello fra gli uomini è solo per patto, cioè artificiale. Quindi non c'è da meravigliarsi se è necessario qualcosa d'altro per rendere il loro accordo costante e durevole; cioè un potere comune che li tenga in soggezione e ordini le loro azioni al vantaggio comune» (Th. Hobbes, Leviatano, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 110-11). L'accordo pacifico è razionale, per Hobbes, proprio per il suo costituirsi come unica e reale possibilità di effettiva autoconservazione: da qui la liceità di qualsiasi mezzo atto a renderlo efficiente. Ma, se l'originario è la guerra, le indicazioni della ragione non •possono esibire altro che una sufficiente utilità o convenienza. La guerra non è male in sé; essa, infatti, è conseguenza dell'istinto naturale N di ognuno a disporre di ogni cosa - c::s è solo per realizzare tale tendenza .s naturale che si tenta di eliminare ~ ~ chi pretenderebbe di ostacolare ta- ~ le conseguimento, cioè per la pro- -. pria autoconservazione, non per ~ una malvagità innata nei confronti ..t:) g dell'altro. e È la stessa prima e fondamenta- !2 le legge di natura come legge della razionalità a disporre che, «quan- ~ do la pace non può essere ottenu- ~ ta, sia permesso di cercare e di ~ usare tutti gli aiuti e i vantaggi delII giorno prima / 7 ilarelacontesa la guerra» (Leviatano, p. 77). Se per Grozio e il giusnaturalismo moderno gli uomini accettano e vogliono il con-vivere pacifico in base a una esigenza della loro «ragione naturale», per Hobbes ciò è tanto poco vero che l'unico criterio effettivamente seguito, quello dell' utilitas, rende «razionale», in certi casi - come affermato nella legge appena citata -, anche un appropriato uso delle tecniche di guerra. La «societas» non è necessaria e nemmeno è l'unica possibilità razionale per l'uomo; essa è semplicemente «conveniente». N ecessaria essa è, invece, per Spinoza. Per lui, «è certo che gli uomini sono tratti dalla natura ad agire concordemente in unità, o per un comune timore o per il desiderio di risarcirsi di un comune danno ricevuto» (B. Spinoza, Trattatopolitico, in Il pensiero di B. Spinoza, Torino, Loescher, 1981, p. 229). Spinoza connette cioè il diritto naturale con l'ordine necessario del tutto, con la sostanza divina. Ma la necessità del tutto spinoziano non può non comprendere in sé anche l'irrazionale ostilità tra gli uomini - Spinoza sa benissimo che «gli uomini sono per natura nemici, tanto che mantengono quest'ostilità reciproca anche quando sono riuniti e vincolati da leggi» (Trattato politico, p. 244). Se la necessità totalizzante pre-hegeliana propria del sistema spinoziano vuole essere veramente tale, non può lasciare fuori di sé alcunché. Ecco quindi la contraddizione di chi, per voler fondare la pace e la con-vivenza su una struttura necessitante, è per altro verso costretto ad affermare la necessità di ciò di cui voleva invece scongiurare la possibilità. I conflitti sono pensabili, possibili e realmente esistenti: come tutto ciò che è, perciò, sono assolutamente necessari. E Spinoza, anche dove sostiene che solo nel suo convivere pacificamente con l'altro l'uomo realizza la propria natura (necessaria), mostra l'inconscia tragica accettazione della possibilità della guerra. Egli afferma, infatti, che «l'uomo agisce assolutamente secondo le leggi della sua natura quando vive secondo la guida della Ragione e solo così concorda sempre necessariamente con la natura di un altro uomo» (L'Etica, in Il pensiero di B. Spinoza, p. 100). Laddove il «quando» mostra chiaramente che Spinoza pensa vi possa essere un tempo (quando l'uomo non vive secondo la guida della Ragione) in cui la pacifica con-vivenza viene infranta. Anche Spinoza, quindi, non può che optare per la scappatoia convenzionalistica; infatti, la strada della necessità lo porterebbe ad ammettere addirittura la necessità di ciò di cui, scegliendo tale strada, voleva invece scongiurare il pericolo. Spinoza cioè ritorna al convenzionalismo nel momento in cui afferma che la società è assolutamente necessaria alla vita. Nel suo mostrare che senza cooperazione l'uomo non potrebbe, per mancanza di forza e di tempo, compiere tutte le azioni necessarie alla vita, Spinoza non sembra avvertire che ciò che è necessario alla vita non è necessario tout-court. Ai più sembra conveniente restare in vita e quindi agire di conseguenza: ecco l'unica cosa realmente evidente. Evidenza su cui sembra invece saggiamente fonMassimo Donà darsi Kant, che, cosciente anche lui, come Hobbes, dell'originarietà dello stato di guerra, tenta semplicen:iente di formulare nel modo più razionale possibile le condizioni che l'uomo dovrebbe rispettare per ottenere una pace la più duratura possibile (mai perpetua, perpetua è solo la pace dei cimiteri). Da qui la proposta di una costituzione repubblicana che, sola, garantirebbe la pace proprio per il suo comportare una eguale ripartizione delle calamità della guerra; in quanto tutti ne trarrebbero grave danno, nessuno la vuole. Anche qui, comunque, il pericolo della guerra rimarrebbe sempre incombente e legato alle decisioni del tutto arbitrarie e libere dei singoli. E poi, che forza può avere l'imperativo etico-razionale indicante la barbarie dello stato di natura? Il principio del male è nell'uomo, ci dice Kant, ma la volontà del bene è più forte, anche se assopita. E perché mai dovremmo credergli? D'altra parte, è sempre lo stesso Kant ad affermare, un poco più in là - ci stiamo riferendo allo scritto Per la pace perpetua. Un progetto filosofico - che «il modo con cui gli Stati tutelano il loro diritto non può mai essere, come davanti ad un tribunale esterno, il processo, ma solo la guerra (. .. ) e il trattato di pace può ben porre fine alla guerra attuale, ma non allo stato di guerra ( ... ) il quale nemmeno si può a sua volta definire semplicemente come ingiusto, poiché in esso ognuno è giudice in casa propria» (I. Kant, in Stato di diritto e società civile, Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. 186-87). Quale più tragica consapevolezza potrebbe essere in uno scritto teso a fondare le possibilità di una pace perpetua? 11 modo più interessante di pensare il problema della guerra, sempre in relazione al periodo da noi preso in considerazione, ci sembra quello di Leibniz. Il problema di questo pensatore è il problema filosofico per eccellenza: la totalità, una totalità che, pur nella manifesta oppositività e tensione antitetica di ogni sua parte nei confronti di ogni altra, non può non essere riportata a un 'unicum', ovvero a quel koinòn che, solamente, rende possibile lo stesso parlare di qualcosa come una «totalità». Tutto ciò che è, m quanto è, non è «assolutamente» opposto al proprio altro, .anch'esso essente; è necessario poter dire, secondo Leibniz, che tutte le realtà sono in accordo tra loro. Il problema politico della pace viene risolto in Leibniz in modo eminentemente filosofico: in questo senso l'esperienza della guerra si risolve in una maschera che va senz'altro letta a partire dall'apertura originaria in cui ogni cosa è in pace secondo quell'armonia prestabilita che fonda inevitabilmente la stessa possibilità dell'ordine contingente e libero tanto caro al nostro pensatore. Leibniz alla stregua di Eraclito, quindi; l'attenzione dei dormienti va perciò rivolta all'armonia nascosta del tutto, in cui Diche coordina e regola i rapporti tra i con-possibili. Ciò che a noi sembra «male» - la guerra - va in realtà ricondotto alla perfezione del progetto divino, che per sua natura non poteva che volgersi al meglio, e quindi si rivela necessariamente come errore della nostra limitata fisicità, an- ....... ch'essa comunque perfetta (se collocata al suo posto all'interno dell'ordine del tutto). Tale errore, per altro, risponde anch'esso, in quanto errore, alla perfezione del progetto divino. Una indicazione sullo specifico strutturarsi dell'armonia dei conpossibili ci è data poi dalla struttura dell'Amore. Se 'amare' è compiacersi della felicità dell'amato come accrescimento della felicità propria, è proprio dell'amore che il raggiungimento del proprio bene non entri in contraddizione con la realizzazione del bene dell'altro; d'altra parte, ogni ente è tale solo in quanto non è il proprio altro ma, proprio per questo, in quanto riconosce, e lascia valere come proprio non, tale altro. Il suo toglimento equivarrebbe infatti al proprio toglimento. Il vero cittadino, dunque, non deve sottostare a questo o a quel sovrano, bensì allo statuto del regno spirituale della grazia (che è. la stessa armonia prestabilita dei con-possibili) - in cui per altro la natura non si annulla ma si perfeziona, cioè trova la propria verità. Ciò che conta è l'armonia universale, non quella politica di questo mondo. Si tratta di andare oltre la maschera di qualsiasi ordinamento politico e sociale che ha in se stesso, nella propria essenza spirituale, la «verità» - una verità che non è sua piuttosto che del proprio opposto, bensì appartiene al tutto in ogni sua singola configurazione. Se «le esperienze dei sensi, infatti, non forniscono verità assolutamente certe né tali da essere esenti da qualsiasi pericolo di illusione» (G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, Roma, Editori Riuniti, 1982, p. 400), Dio solo opera la coordinazione e la connessione delle sostanze in modo tale da togliere originariamente la possibilità della guerra già a livello dei con-possibili, lì dove «l'opposto in accordo e dai discordi bellissima armonia» (Eraclito, framm. 18 (8), in I Pre-Socratici, Torino, Einaudi, 1980, p. 179). La guerra, comunque, appare; non è vera, ma appare. Leibniz, insomma, deve contrapporre un mondo in cui soggiorna la guerra tra gli opposti a un altro (nascosto) in cui regnerebbe invece la loro pacifica convivenza. Ma cos'è la guerra se non lo stesso necessario modo d'essere dell'opposizione così come essa è pensata dal pensiero occidentale? Se la guerra implica una situazione conflittuale in cui ognuno dei contendenti può vedere assicurata la propria sopravvivenza solo a condizione della soppressione degli altri, guerra è ciò che accade nel mondo dovunque due o più diversi si contendano il predominio di un determinato ambito dell'esistente. Il fatto che due cose siano l'una opposta all'altra implica di necessità che lì dove sussiste l'una 'manchi' l'altra - altra che può riaffermare il proprio predominio (in un secondo tempo) solo a patto di scardinare il potere acquisito dalla prima. Il tavolo che ora è rosso non può essere nello stesso tempo bianco, anche se potrà diventarlo in seguito. U dove il tavolo è rosso, l'attributo del bianco ha perso la disputa (come l'hànno persa il verde, il nero, il giallo... ), e l'unico vincitore è appunto il rosso. La guerra è lo stesso contendere dei contendenti e ha sempre un suo vincitore. La guerra, cioè, viene sospesa solo nel momento in cm appare il vincitore; ma ben presto egli, per riconfermarsi dominatore, sarà costretto a ripristinare lo stato di guerra con cui, solamente, riuscirà a difendersi dagli attacchi dei nuovi avversari (vedi Kant). Opposizione, quindi, come fondamento e senso ultimo della guerra, comunque la si voglia pensare (come guerra convenzionale, nucleare, psicologica, verbale ... ). Guerra come essenziale e unico modo di relazionarsi da parte degli opposti - anche qualora essa dovesse realizzarsi come semplice attesa dell'apparire del vincitore, che non potrebbe comunque risolversi indipendentemente dall'annullamento del vinto. Perciò la leibniziana contrapposizione di armonia (pace) nascosta e guerra manifesta è essa stessa un'inconsapevole riformulazione dell'originarietà e intrascendibilità della «guerra». Pace e guerra sono in Leibniz esse stesse in guerra, per il loro semplice differenziarsi e opporsi l'una all'altra. L'essere dell'una è inevitabilmente il non-essere (lì dove è l'una) dell'altra: rapporto di esclusione, questo, che è ancora più chiaramente rapporto di guerra in quanto viene pensata poi l'esistenza di qualcosa come un «divenire». Si prendano queste due determinazioni: un bicchiere e la sensazione del freddo. Lì dove appare un bicchiere può apparire anche il freddo in quanto i punti di vista all'interno dei quali avvengono tali attestazioni sono assolutamente diversi. Rimanendo tutto perfettamente immobile all'interno del proprio punto di vista, la pur inevitabile oppositività tra le deterrninazioni non sembrerebbe cioè dover necessariamente implicare un rapporto di guerra. Ma - ed ecco l'opposizione come guerra - il fatto è che per tutti noi le cose mutano in continuazione; ogni cosa viene tolta di mezzo da quella successiva, da ciò che essa non era, dal proprio «non» - non necessariamente dal proprio contrario, bensì da qualsiasi suo contraddittorio. Anzi, con il sopraggiungere anche di una sola nuova determinazione, cambiano tutte le determinazioni (all'interno dei loro punti di vista) precedenti, per il nuovo legame (con il sopraggiungente) di cui tutte sono partecipi. Guerra di tutte le precedenti determinazioni contro le nuove: guerra permanente, quindi. Ecco il fondamento dell'inevitabilità con cui tutti i filosofi qui considerati hanno inconsapevolmente radicalizzato l'assoluta impotenza nei confronti del tragico abitare la «contesa» da parte dell'uomo. Come tutto l'Occidente, anch'essi, in quanto pensatori dell'opposizione e del divenire (inteso pure come semplice passaggio non annientante da una situazione a un'altra), non possono mascherare il loro costituirsi come radicali pensatori della «guerra». Ma sono l'opposizione e il divenire le ultime sponde per il «pensiero»? Questo scritto è un estratto della conferenza-seminario pronunciata il 22 febbraio 1984 a Venezia-Mestre, in occasione del ciclo «Per una riflessione filosofica sul problema della pace», organizzato dall'Istituto Gramsci Veneto aderendo ali'appello contenuto nel documento « Per una cultura politica della pace».
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