Alfabeta - anno VI - n. 65 - ottobre 1984

I n un mio libro, paragonavo la Terra a un ready-made rotolante nei vuoti spazi siderali, a un oggetto trovato, nel quale finivano per fondersi compiutamente l'avanguardia artistica, la tecnologia e la realtà planetaria. Oggi sono in grado di precisare qual è il ready-made che il nostro pianeta ricalca con esattezza: si tratta di quel barattolo saldato, che racchiude al suo interno qualcosa dal suono irriconoscibile e che Duchamp aveva progettato nei remoti anni venti. In questo ready-made «riservato» vengono a coincidere la Terra diventata un gigantesco utensile con la Terra trasformata in un mass medium, in una gara a premi, cui prendono parte, fra un intervallo e una tregua non rispettata, tutti i suoi abita~ti. C'è l'oggetto d'uso e c'è il frastuono, ma l'oggetto utile e il rumore che produce nascondono pur sempre una punta di mistero. Si tenga tra le mani il barattolo-Terra e lo si scuota a piacimento: la natura del suono che irrita le orecchie pone un'incognita, istituisce un segreto. Nelle stesse pagine, paragonavo la Terra a un Narciso cui sia riuscito l'exploit di specchiare il suo immenso, variegato e sferico volto. In questa condizione di generale rispecchiamento, dove la Terra osserva la Terra, si riflette ventiquattro ore su ventiquattro in sé medesima, si congiungano anche troppe cose. Elenco qui soltanto le più rilevanti: la centralità dello sguardo; la conoscenza - la Terra si conosce o, almeno, si può conoscere-; lo spettacolo- l'immagine tenta nella distrazione di mascherare l'intreccio di cantiere, di deposito e di discarica che ricopre il mondo-; ma anche l'uso, malgrado i più astuti occultamenti, giacché unicamente l'immagine planetaria ci mette a disposizione l'oggetto-Terra nella sua interezza. È ciò che dimostra anche la favola tecnologica di un film come Wargames e la sua molto realistica «sala degli specchi», dove sono gli schermi terminali dei computers a controllare e a condurre la partita mortale del mondo. Prendo ora tra le mani il barattolo contenente qualcosa dal suono sconosciuto oppure mi affaccio sopra uno dei tanti specchi tecno11 fil,o conduttore di questa s_illoge e, con una netta approssimazione, il problema dello statuto di realtà (in taluni casi di verità) dell'arte. Si tratta di un problema che il romanticismo ha lasciato in eredità al nostro secolo (di qui la citazione iniziale da una lettera di i Flaubert). A sua volta, il dibattito -. romantico rispondeva a una do- ] manda precedente, sei-settecenteg sca: a che cosa serve l'arte, una vole ta che si sia sconfitta la mitologia (e :ci la superstizione), e si disponga di t! conoscenze vere e utili offerte dalla ~ scienza? Risalendo ancora indie- <I) .e ~ - (::I tro, troveremmo che il dibattito moderno sul valore di verità o di logici - quei sismografi sensibili a ogni mutamento che sono i caffè si vanno, nella nostra stagione, ricoprendo di specchi-, e pongo la domanda centrale: Qual è il linguaggio che oggi possa sondarlo, percorrerlo, penetrarlo e, magari, sia in grado di decifrare il suono - il senso? - che emette? Quel senso che può nascondersi anche dietro la funzione, lo stato di utensile a cui è scaduta la Terra; ma che può identificarsi pure con la funzione medesima: dacché il pianeta· diventato un attrezzo sembra giocare nei nostri confronti il preciso ruolo di Sfinge. A questo linguaggio ritengo necessario porre una serie di minime condizioni. Innanzi tutto, deve possedere un'energia disgregante, quale un acido o un solvente, capace, prima ancora di percorrerlo, se non proprio di farlo precipitare, di aprire per lo meno delle incrinature, dei vuoti indispensabili dentro la compattezza e la continuità con cui si presenta oggi il globo. La somma di immagine del mondo, di realtà del mondo e di fantasmagoria del mondo, l'unità strettissima insomma di barattolo e di frastuono o di riflesso e di modello planetario, appare tanto indissolubile da indurre allo scoraggiamento e alla rinuncia. Dal punto di vista del solvente, il linguaggio visivo mi sembra incapace di condurre qualsiasi azione efficace. Ai nostri giorni, lo sguardo si presenta logorato in forma grave, dopo lo sforzo compiuto prima nel sostenere il moIl senso della letteratura / 13 demo e poi nel portarlo a compimento, mediante l'imposizione, il trionfo ecumenico dell'immagine. In luogo di distaccarsi e di risaltare sullo sfondo del mondo, non esiste oggi figura eccentrica, graffito selvaggio o colto simulacro che non venga prontamente confuso, appiattito, ingaggiato dentro la persistenza dello spettacolo. La stessa pittura anacronistica, messa in vetrina nell'ultima Biennale, che, nel suo sentimento di nobile disdegno nei confronti del presente, si propone di far proprio il nietzschiano pathos della distanza, dentro il presente finisce invece per precipitare, in fraterna compagnia di qualche «Quo vadis» messo in piedi da una laboriosa coproduzione internazionale. SulLotta greco-romana la tela come sullo schermo la scena mitica e i suoi protagonisti si esibiscono obbligatoriamente 'en travesti'; ed è il lavoro di sartoria, il trucco, la ricostruzione scenografi~ ca a conferire il marchio effimero dell'attualità a ogni composizione anacronistica. Accanto a una notevole forza disgregante, questo linguaggio penso che debba contenere del silenzio, quale revulsivo e antidoto, il silenzio che colloca una pausa, traccia una separazione. Non pretendo affatto il silenzio del deserto che fa tanto rumore nella nostra stagione culturale, e che verosimilmente è ignoto al nomade che abita il pianeta odierno. Penso piuttosto a quel silenzio che annuncia, senza mai consegnarcelo definitivamente, la puntina sul disco che, Il senso della letteratura / Riferimenti avendo terminata la sua corsa, continua a frusciare in tondo. Esperto come sono 'naturalmente' nel campo del rumore, · considero prima di tutto il silenzio, per valori negativi, quale interruzione provvisoria del fragore e poi, positivamente, quale nostalgia, tensione verso, porto da raggiungere e approdo infine raggiunto. Un linguaggio compromesso o che possa tornare a compromettersi col silenzio, lo immagino come un linguaggio circolare che, partito necessariamente dal rumore, al rumore non meno necessariamente ritorni, dopo avere acquistato nel percorso la difficile capacità dell'ascolto. Mi sembra che il Palomar di Calvino si muova in direzione di un silenzio di questo tipo. Lo possiede saldamente, ma in una misura radicale, stratificata e consapevole, l'«anarca» dell'ultimo Jiinger, questa figura silenziosa per eccellenza. Nell' «anarca» il silenzio si è approfondito in· segreto, nel quale conserva occultata, «separata» appunto, la propria identità personale. Uno scacco si delinea in tal modo altamente significativo: nemmeno i tests psicologici cui viene sottoposto, questa arma ovattata e ipocrita dell'odierna oppressione, arrivano a smascherarlo. Accanto all'energia disgregante e al silenzio, penso a un linguaggio che torni a collocare l'uomo, l'autore non meno del fruitore, nella solitudine. Di nuovo non chiedo affatto l'assenza e la vastità del deAlcunecitazioni realtà de~'arte riprende l'essenziale, per esempio, della cosiddetta 'condanna' platonica delle arti del- /' imitazione - e della loro 'apologia' da parte di Aristotele. Non mi pare sorprendente, perciò, che questo interrogativo resti aperto nel nostro secolo, e traspaiaspesso, mi pare, quando ci si chieda quale sia il senso de~'arte e della letteratura. «Quel che mi pare bello, e che vorrei scrivere, è un libro su niente, un libro senza appigli esterni, che si tenesse su da solo per la forza intrinseca dello stile, come la terra si regge in aria senza bisogno di sostegno; un libro quasi senza a cura di Maurizio Ferraris soggetto, o il cui soggetto fosse, se possibile, quasi invisibile». Gustave Flaubert, Lettere, Torino, Einaudi, 1949, pp. 82 sg. «L'arte è tutto lo spirito sotto l'aspetto dell'arte (... ). Dunque tutto è arte? Ed ecco sorgere nei soliti critici tremebondi l'atroce sospetto: ma dunque nulla è arte? La conclusione è ( ... ) che tutto è arte in quanto è arte. Se per distinguere l'arte dal resto, si vuole uri, pezzo di realtà spirituale che sia tutta arte e nient'altro che arte, e un altro pezzo che non sia più arte, non abbiamo nessuna difficoltà a dichiarare che una tale distinzione, secondo noi, è impossibile». Giovanni Gentile, La filosofia dell'arte, Milano, Treves, 1931, p. 218 «In definitiva, sia rispetto alla vita concreta e attuale dell'arte, sia rispetto alla riflessione estetica, la svalutazione di un'arte pura o di un suo concetto, determina il bisogno di un richiamo alla vita dell'arte stessa e di un suo concetto per mezzo dell'eteronomia che la arricchisce di motivi e di significati (... ), la svalutazione, invece, di un'arte eteronoma o di un suo concetto determina il bisogno di un nuovo richiamo alla vita per serto e neppure il rifugio del monastero; alla sua origine questo bisogno di solitudine mi appare piut- . tosto come il risultato di un riflesso di difesa. Nel moderno, era sempre questione di un corpo e della sua epidermide troppo esposti ai colpi e urtati dal movimento frettoloso dei passanti; oggi, sono in questione i gangli e i filamenti di un sistema nervoso sottoposti senza tregua al volume dell'informazione totale. Se gli urti della folla ci hanno dato il Baudelaire di Benjamin, l'ingorgo dei messaggi, e la difesa da essi, ci aiutano a definire il profilo dell'autore di oggi. Nel mio breve percorso, teso a rintracciare la direzione possibile del linguaggio e non certo il suo senso, al di là dell'uso di una composta discrezione, mi sono già pronunciato a favore di quel linguaggio antiquato, decisamente sorpassato dalle ondate dell'attualità, che è la parola e la parola scritta. «Il tempo che passa e lo spazio che separa vanno conquistati a partire da quel processo lento, perfino anacronistico, che è la letteratura, poiché soltanto la distanza ci permette di avvicinarci alla realtà», è una giusta affermazione di Botho Strauss. La conquista del «tempo che passa» e dello «spazio che separa», attraverso un indispensabile momento di distanza, deve avvenire nella massima partecipazione consentita; ci si allontana provvisoriamente, non per sottrarci, ma per penetrare e possedere il nostro medesimo prendere parte. Io stesso ho parlato di un silenzio che si distacca dal rumore del mondo, ma che al rumore del mondo fa poi fedelmente ritorno. Il dibattito sul «senso della letteratura», cominciato su Alfabeta n. 57, ha accolto finora interventi di F. Leonetti e Antonio Porta (n. 57), G. Raboni (n. 58), G. Gramigna (n. 59), R. Luperini e R. Cari/i (n. 60), M. Forti (n. 61), A. Prete e N. Tedesco (n. 62163), G. Finzi e F. Muzzioli (n. 64), e, nella serie «Riferimenti», contributi. di G. C. Ferretti, F. Muzzioli, A. Guglie/mi, G. Patrizi, F. Masini, A. Gargani. Con l'intervento di F. Menna (n. 62163), il dibattito si è esteso anche epiù direttamente alla ricerca artistica. mezzo del concetto opposto». Luciano Anceschi, Autonomia ed eteronomia dell'arte (1936), II ed. riveduta, Firenze, Vallecchi, 1959, p. 280 «I termini estetici vengo}!Ousati esattamente allo stesso modo che i· termini etici. Parole dell'estetica come 'bello' e 'repellente' sono impiegate (così come sono impiegati i termini dell'etica) non per stabilire asserti di fatto, bensì e semplicemente per esprimere certi sentimenti e per evocare una certa rispondenza (... ) è per questo che il fine della critica estetica non è tanto porgere conoscenza, quanto

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