Quella che talvolta si è voluta definire la «cultura del progetto» è destinata infatti, per la sua stessa natura, a modellarsi specularmente sulla «cultura dell'oggetto», ri- • spetto alla quale essa tenta di porsi in funzione quanto meno orientativa, ma di cui non può fare a meno, per il momento, di subire i contraccolpi. La coscienza infelice dell'odierno design nasce appunto da questa contraddizione irrisolta; e se sarebbe ingiusto addebitarne l'intero fardello a esso, va ascritta a merito suo l'urgenza con la quale ha saputo, partendo dal proprio terreno, richiamare l'attenzione sull'intero problema. Lamentare - o anche semplice~ mente denunciare - il fatto che viviamo in un universo di oggetti senza interrogarci sul loro valore sociale complessivo, serve a poco. D'altra parte, limitarsi a analizzarne le valenze tecnologiche ed economiche - ovvero, in breve, la loro qualità di prodotto industriale - senza chiedersi, come ha sottolineato J. Baudrillard ne Le système des objets (1968), in che modo «gli oggetti siano vissuti, a quali esigenze oltre a quelle di funzionalità rispondano, quali strutture mentali si intersechino con quelle funzionali e le contraddicano, su quale sistema culturale, infra- o transculturale, si fondi il loro vissuto quotidiano», lascerebbe monca qualsiasi rispqsta. La diffusa percezione che ci si trovi dinanzi a un fenomeno penètrabile con strumenti multidisciplinari, la cui gestione culturale non può essere lasciata ai soli designers, ha indotto coloro che si sono avventurati sul terreno della sua sistemazione storica a scegliere punti di vista privilegiati che ne consentissero una serie di scandagli accuratamente delimitati, ma in profondità. L'attenzione all'area socioeconomica italiana è quasi d'obbligo, una volta richiamato il ritardo strutturale con il quale il design, da noi, ha preso forma. Ma indicativo è l'approccio problematico da cui si è voluto prendere le mosse. Se V. Gregotti ha mirato a inserire gli sviluppi del disegno industriale italiano entro una cornice culturale che ne ha reso più consistenti i lineamenti generali, A. Pansera e A. Grassi hanno operato una ristrutturazione interna del campo d'indagine, dislocandone gli esiti maggiori secondo una tipologia d'uso che dà conto dei risultati funzionali, più che delle premesse progettuali di ciascun oggetto; mentre E. Frateili ha tentato, in verità alquanto timidamente, una «storia ideologica» del settore. I veri problemi nascono però proprio a questo punto, e ne è spia la difformità delle date in cui se ne situano gli inizi in Italia. Gregotti avvia il suo discorso dal 1860, data convenzionale che consente di seLettere Solo l'inglese e lo spagnolo Cara Alfabeta, ali'edicola ho appena comperato il n. 59, sono ormai un tuo assiduo lettore da quasi tre anni, e, percorsi alcuni metri sul marciapiede, sono in attesa del passaggio dell'autobus che da casa mi. porterà a piazza San Silvestro, nel cuore di Roma. Intravedo l'autobus in fondo al viale, frattanto scorro rapidamente i titoli del sommario. Poco dopo, guirne l'evoluzione in parallelo col processo postunitario di industrializzazione; Frateili parte dal 1928, anno primo delle riviste La casa bella (poi Casabella) e . Domus; Grassi ;e Pansera muovono dal 1945, giudicando che di design italiano si può propriamente parlare solo dalla VII Triennale (1940) in poi. EJ comune, ovviamente, la consapevolezza dell'esistenza, anche da noi, di un «design prima del design»; ma già la questione cronologica, quantunque variamente argomentata, lascia trapelare l'incertezza se dietro i prodotti emblematicamente proposti all'attenzione si debba tracciare la storia di una professione tecnicamenf'e delineabile e più o meno cosciente di sé, oppure di una committenza sempre più avvertita, o ancora di una richiesta sociale nutrita di istanze antropodiano fatto di affettività, auto'!latismi psicologici, compenetrazione esistenziale con l'universo delle cose, che Proust elegantemente velava sotto la confortevole coltre dell'abitudine-, il quale ne legittima il senso culturale e ne giustifica la funzione. È proprio nel vivo di questa cruciale confluenza che il design si confronta con le rigidit~ e le lusinghe tecnico-economiche della struttura produttiva. Di che cosa, allora, dovrà darsi la storia? Qui, forse, l'Atlante del design italiano si impone per una maggiore articolazione rappresentativa rispetto alla logica catalogatoria degli altri due libri, grazie ai suoi «itinerari morfologici» (dal muoversi al camminare, all'abitare e così via), i quali lasciano intuire, al di là dell'attenzione per il «pezzo» originario, progenitore illustre di una «maniera», l'impronta di un campo funzionale intelligentemenPremio Viareggio 1984 Antonio Porta INVASIONI Dopo Passi Rassaggi, i nuovi versi che riconfermano •l'intensità di una stagione poetica singolarmente vitale. MONDADORI logiche e culturali in incessante trasformazione. In effetti, una volta che dalle premesse storiografico-critiche interne al fenomeno si passa all'esame degli «oggetti di design», l'osservatore finisce col trovarsi nella stessa condizione di stupita perplessità dell'Alice aggirantesi nell'incantata quotidianità del suo Wonderland. Il paese del design è il paese delle cose; le quali però vi si dispongono concettualmente in un ordine che muta a seconda delle prospettive - il che rende necessario, come per il personaggio di Carroll, adattare di continuo la propria statura ai loro cangianti rapporti. Ogni oggetto d'uso possiede un proprio pulsante spazio vitale, che si dilata e si contrae a seconda della realtà nella quale è inserito. Il suo valore estetico deve perciò trapassare senza posa in quello d'utilizzo - lo screziato tessuto quotiaccomodato sul sedile in formica, alla luce bianca del neon dell'automezzo (sono le 20 circa), ho fatto la mia scelta: apro apag. 26 e attacco la lettura di «Aragon contro Breton» di C. Maubon. La cosa si annuncia interessante e assai gustosa, solo un piccolo fastidio: in testa ali'articolo il secondo titolo del riferimento bibliografico è in lingua francese, nessuna traduzione. - Capirò - mi dico e proseguo. Ma, ahimè, dalla sesta riga della prima colonna vi sono tre righe in francese, ancora. Il fastidio aumenta. Cerco una traduzione in calce, che non c'è. Capisco a malapena. - Peccato! - mi dico. Più avanti la mia resa è incondizionata; mentre l'autobus imbocca corso Trieste alzo gli occhi dalla pagina, dopo un istante ritornano sui caratteri di pag. 26. Non hanno visto male: undici righe di inesorabile e intradotto francese. Il fastidio dite tradotto in linguaggio. Viceversa, la selezione operata da Gregotti mira piuttosto, in virtù della sua insistenza sul momento progettuale, a sottolineare le connotazioni tecnologiche e formali dei prodotti messi in rassegna, abbandonandone però la straripante ricchezza informativa a esili criteri merceologici. Ma in entrambe le opere - oltre che in quella, assai meno corposa, di Frateili - la complessa costellazione di significati che definisce l'oggetto d'uso non pare trovare una globale sistemazione storica; e l'elemento unificante, il solo che consenta di affidarsi a coordinate sicure, resta quello che Miche! Foucault chiamò «la funzione-autore» - vale a dire, nel nostro caso, i tempi e i modi con i quali il progettista ha fornito la risposta giusta a una richiesta sociale anticipata o recepita dall'apparéJ.tOindustriale. venta stizza. Devo rinunciare alla lettura dell'articolo. Ritorno al sommario: pag. 3 «Usare il mito», di M. Cometa, pagina a fronte. A mezzo fiato (il vicino di sedile mi guarda curioso) impreco - Cristo! il tedesco-. Qui, fortunatamente, non intravedo citazioni, ma, data la mia più che insufficiente comprensione della lingua tedesca, anche i pochi e intradotti titoli e terminologie pregiudicano la lettura o perlomeno la limitano. Richiudo con gesto sgarbato il n. 59 di Alfabeta. Anzi, prima di farlo, vado a leggere con attenzione a fondo pag. 2 «Comunicazione ai collaboratori di Alfabeta». Con soddisfazione trovo (cito testualmente): «l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preS i direbbe che l'ambiguità dell'universo oggettuale sappia comporsi in una fisionomia riconoscibile solo rispecchiandosi nelle fattezze culturali del soggetto progettante, e che la storia del design debba alla fine, più o meno direttamente, coincidere con quella dei designers. Quest'ultima rappresenta senza dubbio uno degli aspetti fondanti di qualunque approccio storico al fenomeno; ma in una materia così ricca di sollecitazioni centrifughe e centripete non appare più privilegiabile degli altri che le si pongono in diretto rapporto: è provvisoriamente accettabile nell'attuale fase pionieristica purché si sia pronti a~ ammettere che l'impaccio storiografico deriva dalla persistente fragilità proprio di quella «cultura del progetto» da cui dovrebbe essere garantita ogni metodologia, e che per il momento non si può procedere se non per successive tabulae empiriche di stampo baconiano. Lucidamente, gli autori qui esaminati hanno tutti lamentato la carenza di più articolati strumenti d'intervento critico e analitico. Ma limitarsi a invocare l'apporto di altre discipline non serve: ciò che andrebbe ipotizzato è piuttosto un campo transdisciplinare nel quale le varie competenze accettino di interagire nel profondo, rischiando di continuo la perdita della propria identità settoriale a vantaggio di una congrua organicità di sintesi. Che la prospettiva di lavoro sia destinata a svilupparsi lungo questa direttrice parrebbe del resto suggerito dall'evolversi stesso della materia. Nella mostra È design (1983), curata da Anty Pansera, è emersa una punta avanzata dell'odierno design, mirante a farsi, in alcuni casi emblematici, progetto globale, in una visione strategica a ragnatela nella quale l'oggetto - spesso neppure di serie - si pone al centro di un reticolo di relazioni coordinate da una figura che ricorda appena quella del tradizionale designer. Per contro, è tuttora vitale la corrente che mira a un recupero dell'attività progettuale in quanto dimensione critica quotidiana, tesa a restituirci, come ha scritto Gilio Dorfles presentando il libro Abitare la città (1983) di Ugo La Pietra, «quella pienezza dell'in.formazione e quella libertà espressiva di cui ognuno dovrebbe essere partecipe». Tra lo zero e l'infinito, nel design, si estende un territorio fecondo e inesplorato; e il modello culturale di cui ci si avvarrà per tracciarne una mappa completa potrebbe costituire un non secondario punto di riferimento anche per discipline di più vetusta tradizione. parazione culturale media e non specialista». Dominiddio! e tale allora sia l'esposizione degli argomenti! o fra la preparazione culturale media dell'individuo rientra la conoscenza di' francese, tedesco, inglese, spagnolo, ecc.? Tra le mie sfortune ebbi purtroppo quella di apprendere inglese e spagnolo soltanto. Mi sembra dunque di vitale necessità la presenza delle traduzioni (seppure tradimenti) di qualsiasi 'fonema' di lingua straniera in quella italiana, o sarò costretto a ripetere spesse volte l'atto di ripiegare Alfabeta sotto il braccio ali'altezza di via Veneto, prima ancora dell'arrivo al capolinea, e per il fastidio del/'occasionale compagno di viaggio sul- /' automezzo imprecarefra me e me del non rispetto della intellezione del lettore. Stefano Benassi Roma, aprile 1984 6 bertanieditore Via S. Salvatore Corte Regia, 4 37121 - Verona - Italia Tel. 045/32686 ERODOTO n. 7/8 problemidi geografia Viaggi e viaggiatori BURATTI-MARENZANA ADORO LA SCUOLA 120 vignettesull'adorabile mucchio ARNALDO EDERLE IL FIORE D'OFELIA E ALTRE TENEREZZE ARNALDO F,Of.RI..F. IL FIORE D"OFELIA f ALTU TE'II N.IU.,J. aocict.idìpocNAbenamcditM mila.no 198-4 TIZIANO MERLIN LA PIASSA con unaconvenazione tra P11lm1td'oro humor comit..·s 811rdi11her11 FerdinandoCamon e RobertoRoversi ~~tl~i LAPIASSA i,,... • ,,, I, l ,. Cn... ~ 11,,r,,.,, A • ~ ROM.VUO ~ B[RTANI EOITOR[ NICOLA MISASI GIOSAFATTE TALLARICO Giosafatte Tallarico DISTRIBUZIONE: RETI REGIONALI 6 bertani editore
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