Alfabeta - anno VI - n. 64 - settembre 1984

dall'essere il movente - la vertigine che si sarebbe imposta alla mente degli assassini.-, costituiva una trappola, per attirarlo in quel luogo. Lonnrot credeva (come credono molti lettori di Borges) che il labirinto sia un dato, una struttura ontologica e una legge (una rappresentazione necessaria) della mente umana; scopre - ma è troppo tardi - che il labirinto è un prodotto, il risultato di una costruzione in cui uno degli antagonisti attira l'altro, insomma: l'effetto di una strategia. O gni strategia - osserva C. Ancona nell'articolo del1' Enciclopedia Einaudi - è «l'opera di progettazione di un labirinto». Quanto a colui che finisce nella rete dell'avversario, .da stratega-architetto si trasforma in viaggiatore miope. D'altra parte, nessuna situazione strategica è irreversibile, almeno in linea di principio; è impossibile non lasciarsi accecare temporaneamente e periodicamente; ma questa necessità vale anche per l'antagonista, per colui che dispone provvisoriamente di una mappa (relativamente) globale, mentre il viaggiatore miope dispone solo di informazioni locali. Molti dibattiti di oggi riguardano le possibilità di comportamento del viaggiatore miope. 1. Egli può non accorgersi della propria condizione e agire come se avesse una buona conoscenza del territorio, salvo ritrovarsi con un'iP ensiero «debole»: non sembra che i suoi difensori siano molto convinti del termine. P.A. Rovatti parla di «metafora», «stile di pensiero», atteggiamento non esclusivamente conoscitivo ma in certo senso etico (in Alfabeta n. 60). Non ci muoviamo qui nella sfera di quei «rimedi casalinghi», di cui parla Hegel nell'introduzione ai Lineamenti di filosofia del diritto, consistenti nello spostamento di alcune difficoltà della ragione sul piano del sentimento? Con il che non si intende assolutamente svalutare nessi di vita o atteggiamenti etici, al contrario. Si sostiene piuttosto che un approccio del genere richiede ancor più radicalità, ancor minore indebolimento del pensiero. M. Perniola (in Alfabeta n. 58) ha mostrato lucidamente quanto sia riduttivo estrarre la nozione di pensiero debole da Heide_gger,come ciò lo accartocci su un nucleo ermeneutico-esistenziale anteriore alla «svolta». Ancora più facile sarebbe mostrare come l'interpretazione «debole» di Nietzsche risolva unilateralmente le contraddizioni dei suoi ultimi scritti, cancellando la loro inerenza alla storia della metafisica. Se si chiudono gli occhi davanti ai momenti «duri», alla radicalità dei tentativi, si finisce per lasciare in piedi quella che C. Formenti chiama (ancora in Alfabeta n. 58) «immagine metafisica (sia pure 'decostruita') del mondo». Il carattere conciliatorio della quale ha effetti ancora più pericolosi di occultamento. Il peQsiero metafisico ha lungamente corrisp9sto (ma anche anticipato e sopravvissuto) a una famiglia di forme di vita caratterizzate dall'indiscusso successo di pratiche di dominio e in esso si sono dentità lacerata, confusa, con uno stordimento in cui domina la no- . stalgia del globale. È interessante osservare come questo viaggiatore miope - in cui si potrebbero riconoscere molti marxisti - continua a credere che il mondo non sia un labirinto, oppure (se lo è) che sia un labirinto del primo tipo. In tal caso, la sconfitta viene attribuita all'antagonista in sé - che si è rivelato più forte e crudele di quanto si pensava - e non al rapporto tra le diverse strategie. La strategia è una sola, il percorso unico: ma vince il più forte, o forse il «peggiore». 2. Il viaggiatore miope abbrll:ccia una filosofia rizomatica, utilizza solo mappe locali, si muove a tentoni. Egli evita, in questo modo, di concepire progetti irrealizzabili; evita le sconfitte in quanto inibisce le ambizioni che le provocano. Ma il peggior nemico, per il pensatore debole, è se stesso, cioè la tentazione di concepire il rizoma come un albero, un labirinto di terzo tipo come se fosse un labirinto di secondo tipo. Tentazione tanto più grande perché i due labirinti si somigliano in modo sottile. In entrambi i casi manca un antagonista. Né vi sono vere contraddizioni: perché la contraddizione se p allora q e se p allora non q è il caso strategicamente più povero. La vera contraddizione, esistenzialmente e socialmente la più drammatica, è quella tra correlativi. Non quando tutto è possibile (e reversibile!), ma quando poco è possibile si sperimenta la tragicità dell'esistere. 11labirint~ dì· terzo tipo è dunque l'inveramento del secondo tipo: l'albero è un rizoma che si ignora. Eco utilizza i concetti di «dizionario» e «enciclopedia» in corrispondenza a questa coppia, cercando di mostrare l'insostenibilità di una concezione dizionaristica. In ciò non si può che concordare. Ma restano dei dubbi sul significato da attribuire all'enciclopedia. Affermando che essa è governata dal principio peirceano della semiosi illimitata, si indica la via di un «irenismo semiotico» incapace di rendere conto dell'esistenza di pratiche significanti che si limitano vicendevolmente. La stereotipia, l'equivoco, il conflitto, sono presenti anche nell'enciclopedia in quantità così massicce da far apparire idealistica la tesi di un rimando illimitato. (Considerazioni analoghe alle nostre sono state rivolte da K.O. Apel e da G. Vattimo contro il principio della «dialogicità illimitata» di H.G. Gadamer). Se l'enciclopedia è costituita in misura determinante da vincoli e da restrizioni, appare molto più labirintico il dizjonario, purché non se ne eia una definizione caricaturale e si prenda in considerazione un suo carattere, trascurato da Eco. Un dizionario non è solo un codice forte, che mira a redigere una lista finita di elementi (non ulteriormente decomponibili) e a Debole / forte 6 studiare le leggi della loro combinatoria. Una sua proprietà fondamentale è l'atomismo. Come si può contrapporre, dunque, l'enciclopedia al dizionario se l'enciclopedia viene pensata peirceanamente o rizomaticamente, cioè atomisticamente? Abolita la grande gerarchia tra unità primitive e unità derivate (ma all'interno della prima classe valgono solo gerarchie locali), ci si trova nell'universo omogeneo di unità nomadi, dove tutte le gerarchie sono locali. Ma resta una somiglianza - l'atomismo - che accomuna il dizionario e l'enciclopedia, e consente di pensare il loro rapporto attraverso la categoria deleuziana del «doppio uso» (come il molare e il molecolare, essi sono «la stessa cosa», ma in due usi diversi). I primi tre tipi di labirinto risul- • tano allora omogenei, sia in quanto affini tra loro sia in quanto all'interno di ciascuno di essi domina un principio di omogeneità. Non scorgiamo né la pluralità dei livelli (o meglio dei registri, in senso lacaniano) né la pluralità degli attori che si è riscontrata nel racconto di Borges. È sempre lo stesso sguardo a osservare il labirinto: cieco, spaventato, o prudente, ma sempre per virtù o demeriti propri e non legati all'attività di un antagonista. Sono labirinti del logos, e non della metis ( evocata in maniera poco pertinente da ·Rosenstiehl). Nell'universo di Borges come in . quello di Poe (pensiamo naturalmente all'interpretazione lacaniana della Lettera rubata) vi è invece spazio per sguardi qualitativamen~ te diversi, e la cui qualità dipende .anche dalle relazioni reciproche. Qui il labirinto si dice in molti modi, ovvero il labirinto di quarto tipo non esclude come inautentici i tipi precedenti, ma li contempla come fasi provvisorie o momenti parziali della propria mobile realtà. Labirintica, anzitutto, è la situazione strategica complessiva perché, se così non fosse, si ammetterebbe la possibilità che un attore domini il gioco standovi «al di so-. pra». Ma questa solidarietà - infida e mai interamente penetrabile - con l'ambiente non impedisce allo stratega di aumentare il proprio grado di conoscenza e di lucidità, e di aumentare nel contempo, se vi riesce, l'opacità dell'avversario. Labirintico è l'effetto rizoma, la sensazione illusoria che tutto sia possibile, mentre l'azione dell'altro sta riducendo l'ampiezza degli eventi e preparando per noi una, rete di dispersione. Labirintico è il groviglio che siamo ancora in tempo a risolvere, prima che l'altro sferri il suo attacco o si disponga in modo da precludere ogni risposta positiva. Labirintico, infine, è il percorso obbligato, che non si vorrebbe compiere, poiché la meta verso cui stiamo scivolando si preannuncia tale da sopraffarci. uivOCQg~t1,111inolog saldamente costruite categorie quali soggetto, progetto, finalità, si è consolidato un «senso» della storta variamente inteso. La «forza» di quel pensiero era coerente alle esigenze di ordine e di efficacia di quella forma di vita. Il più radicale vi era di volta in volta il più funzionale. Così l'idealismo platonico delle forme o il rovesciamento nietzschiano del platonismo. Il problema non è oggi «indebolire» quella radicalità, ma pensare radicalmente nel corso della transizione a un'altra forma di vita in cui le vecchie categorie si sono consumate e mantengono soltanto una spettrale pericolosità. Chiamare in causa la flessibilità degli apparati concettuali o evocare l'estensione della nozione di fluttuazione è senza dubbio suggestivo, ma tutto questo ha poco a che fare con un qualsiasi indebolimento, anzi implica l'invenzione di strumenti conoscitivi e operativi Sformato di selvaggina alla Saint-Hubert ben rigidi. Vogliamo ricordare l'esplicito platonismo di Thom? Le strutture possono recuperare tutta la pienezza perduta dal soggetto ... Il processo del pensiero - basti qui rinviare sommariamente all'ultimo Bateson - comprende tanto la tautologia quanto l'innovazione, che è imprevedibile e divergente, tanto la costanza della forma quanto il mutamento casuale che ha successo (e qui Bateson sviluppa ciberneticamente la metafora wittgensteiniana dell'alveo roccioso del fiume e delle sue acque). La fluttuazione, come tutti i grandi processi stocastici, parte da strutture e arriva a strutture. Nella misura in cui si tratta di processi almeno parzialmente agi.ti dagli uomini il problema è quello di modificare le strutture portanti senza smettere di abitare la casa: non è un metodo sicuro, eppure si è sempre fatto così! In certi momenti appare forse ancora più difficile, ma avere fondamenta elastiche (antisismiche, per esempio) non è meno «forte» che averle rigide. Guardiamo più da vicino: presa d'atto della caducità, insistenza sui saperi «locali». Il caduco non è affatto debole, è anzi un'opzione molto forte - pienamente teologica, direi (e lo testimonia poi una bella tradizione che va dalla Cabala a Benjamin). Il rischio è, caso mai, che il caduco faccia da schermo all'eterno, sia il fortissimo, evanescente, della metafisica. O ancora: il dicibile è il locale. Ma cosa gli è complementare? Che l'universale sia indicibile. Non è certo «debole» questo. Personalmente, in questo caso, sarei per un profilo più basso, più secondo - che primo - wittgensteiniano: che cioè il connettivo interlocale sia congetturale. Per essere congetturale un connettivo è forse «debole»? Certo, rispetto ai parametri della causalità e dialettica classiche. Ma, se si considera che questa funzione flessibilmente grammaticale (non ermeneutica) ha il suo fondamento in un modo di vita, che cioè il congetturare, il sovrapporre mappe contigue, indica che gli uomini abitano comunemente il territorio di tutti i saperi locali, possiamo dissipare l'equivoco terminologico. Infatti, nessuna forma di vita (e nessun gioco linguistico a essa connesso) è più o meno forte di altre. I tentativi di cambiare pensiero sono, infine, tentativi di cambiare vita. Quale potenza decisionale vi ~ sia racchiusa è facile intuire. Con- .... cediamo volentieri alle pratiche ~ ~ concrete di pensiero «debole» un E grado non e!iiguo di decisionalità, ~ ben adeguato al conflitto fra para- "' digmi. Ma è proprio la metafora i della «debolezza» che per un verso r:: sa di captatio, per l'altro ostacola il ~ confronto (e)semplificandolo, per g così dire, caratterialmente. 1::s

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