Alfabeta - anno VI - n. 64 - settembre 1984

Debole / forte 4 Levecchie ze L, impressione che il «pensiero debole» non sia una modalità critico-conoscitiva delimitabile con soddisfacente chiarezza, mi pare confermata dal carattere straordinariamente eterogeneo dei contributi che compongono il volume omonimo a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti (Milano, Feltrinelli, 1983). Riprese success.ive •dell'argomento non hanno dissipato questo dubbio. È vero che· il tema stesso sembra proclamare implicitamente il diritto alla propria ambiguità: ma proprio questo rende più giustificato chiedersi se esso abbia, dopo tutto, un senso tale da legittimarne l'uso. Né vale, a mio parere, la decisione di ancorarne il significato a un autore (ad esempio Heidegger) o a una corrente ben definita di pensiero; piuttosto, è giusto riconoscere che la dizione «pensiero debole», nella misura in cui ha un senso, sembra legittimamente applicarsi a un insieme abbastanza disparato di contributi che percorre tutta la storia della cultura europea. Debole, anche nel senso moderno di soft, sembra essere quanto di asistematico, antiperentorio, antiunitario, critico e deliberatamente marginale si propone da sempre all'attenzione come portatore di verità nel nome dello scetticismo circa la possibilità stessa di costituire sistemi di qualsiasi tipo. Beninteso, quèsto tipo di pensiero è debole solo in apparenza: -chi lo propone sostiene,., giustamente, che esso ha di fatto una efficacia, e quindi una forza. Anzi, ciò che si suggerisce è che la sua efficacia risiede esattamente nella sua debolezza: sia in quanto debolezzà finta; sia in quanto debolezza reale, ma tale - come quelle di Pollicino o di Bertoldo - da produrre straordinari effetti scardinanti attraverso una accorta o fortunata mescolanza di rifiuti, sottigliezze e candori. I problemi cominciano a questo punto. Il primo problema riguarda il dubbio sulla effettiva novità e sull'effettivo valore degli aggiornamenti più recenti di questo tipo di tradizione critica. Da Aristofane ai nostri giorni, in Giordano Bruno, in Swift, in Rousseau, nella filosofia di Hume, nei romantici, si esprimono le molte facce di obiezioni critiche e di seduzioni marginalistiche che ritroviamo rielaborate in modi non necessariaGiovanni Jervis può significare due cose: a) un sistema di pensiero di tipo forte, cioè una costruzione di idee con pretesa di universalità e di coerenza - però mi pare che questo modello ideale sia tipico della cultura dello scorso secolo, piuttosto che di quella del nostro; b) un modo di pensare definibile come forte - forte cioè nei suoi aspetti procedurali, più che nei suoi contenuti. Su questo è bene soffermarsi. Il modo di pensare proceduralmente forte viene identificato, dalla Grecia classica in poi, nella potenza l'aspetto storico della sua sistematizzazione cartesiana; come tale è dominante nella cultura media non specialistica, e quindi nelle razionalizzazioni comuni della vita quotidiana di tutti noi. Una parte della cultura filosofica italiana, legata alla tradizione idealistica, ne è ancor oggi molto influenzata. In realtà, si tratta di uno schema che non è più difendibile sul piano • psicologico. La psicologia contemporanea ha ormai accumulato una quantità imponente di dati che concordano nel dimostrare come lare Johnson-Laird (Menta/ Models, 1983), alle rappresentazioni, cioè alla manipolazione e al confronto di immagini mentali. Da Wertheimer, a Vygotsky, a Piaget, all'insieme della cognitive science contemporanea, alcune fra le principali correnti della psicologia convergono nel demolire il modello logocentrico cartesiano. Il linguaggio non serve per pensare, né il denominare è ciò che dà senso agli oggetti; il linguaggio serve per comunicare, e ciò che appare come ragionamento logico- --------------------------------------------- linguistico è solo razionalizzazione socializzabile di processi operativi a struttura fondamentalmente non linguistica. Il pensiero proceduralmente forte è quindi una illusione - quella illusione della ragione, in realtà razionalizzazione a posteriori di eventi mentali disparati, su cui già Hume aveva espresso il proprio giudizio. Ho l'impressione che la riproposta del «pensiero debole» si muova oggi per lo più all'interno di una ideologia obsoleta, che è quella che dà per scontata la prevalenza, nella nostra vita quotidiana, di un pensiero sistematicamente o operativamente «forte», il quale in realtà o non esiste o non è mai esistito. È lecito chiedersi se e in quale misura la riproposizione del ---------------------------------------------- «pensi~ro debole» non sia in realtà Troncone di salmone alla parisienne la battaglia contro un fantasma, mente più acuti né sempre nuovi in autori della nostra epoca. In secondo luogo, è lecito temere che il rinnovato tentativo di identificare un tipo particolare di pensiero come «debole» serva poi di fatto a confermare implicitamente l'esistenza e il peso soverchiante di .un pensiero «forte». Ma un pensiero forte esiste ancora? E, se esiste, è rilevante nel mondo culturale e scientifico di oggi? Si noti qui che «pensiero forte» del linguaggio inteso come Logos. Secondo questa tradizione, il pensiero umano si identifica con il linguaggio, e la sua efficacia sta in quella particolare coerenza inferenziale che è detta ragione. Tale capacità razionale «forte» sarebbe caratteristica naturale e esclusiva • della specie umana: la sola specie dotata di linguaggio, cioè di ragione. Nel mondo occidentale questa ideologia si presenta da tempo nelDebole / forte S l'identificazione logocentrica intuitiva e tradizionale del pensiero con il linguaggio (o magari con una sorta di linguaggio interiore) sia in realtà una particolare autoillusione della coscienza. Il pensiero, perfino nei suoi aspetti più tipicamente razionali, come il sillogismo, è assai meno dipendente di quanto appaia all'introspezione da procedure inferenziali formali; esso è legato invece, come ha dimostrato in particodove curiosamente il tipo di linguaggio e i temi a cui si fa ricorso appartengono non di rado a quell'armamentario idealistico e logocentrico su cui si è fondata per lungo tempo l'illusione di una forza logica sistematica dell'operare mentale umano. Questa rubrica, iniziata in Alfabeta n. 60 con un intervento di P.A. Rovatti, ha accoltofinora interventi di F. Rella e E. Greblo (n. 62/63). Labirintodi quartotipo Autori vari Il pensiero debole a c. di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti Milano, Feltrinelli, 1983 pp. 262, lire 16.000 Pierre Rosenstiehl «Labirinto» in Enciclopedia Einaudi voi. VIII, 1979 Clemente Ancona «Tattica/strategia» in Enciclopedia Einaudi voi. XIII, 1981 Jorge Luis Borges Finzioni trad. di Franco Lucentini Torino, Einaudi, 1978 pp. 149, lire 5400 I n quanto crede (o sente) di conoscere l'archetipo del labirinto, ciascuno di noi prova delusioni diverse quando accosta un suo tipo concreto. Il pensiero debole, per esempio, ritiene embrionali e timidi i labirinti «forti», quelli unicursali e ad albero. Nella classificazioneproposta da U. Eco (con riferimento a P. Rosenstiehl) in uno dei saggi sul Pensiero debole, si definiscono così i labirinti del primo e del secondo tipo: in un caso, come si entra non si può che raggiungere il centro - dunque l'interesse «archetipico» della vicenda non sta nella forma architettonica ma nella presenza di un avversario, e più precisamente di un «mostro»; nell'altro caso, vi è il brivido dello smarrimento (donde l'utilità di un filo d'Arianna), ma il labirinto è tutt'altro che irrisolvibile; importante è non lasciarsi prendere dal panico. Sia che li consideriamo un'immagine del mondo, sia che li consideriamo il «rimosso» di una ragione logocentriea, i primi due tipi appaiono inadeguati. Il vero labirinto - ontologicamente primo e Giovanni Bottiroli oggetto di rimozione - è un terzo tipo, il rizoma. Si tratta di una rete . in cui ogni punto può essere connesso con qualsiasi altro punto. Non valgono distinzioni come interno/esterno (siamo sempre «dentro» di esso); non esiste una mappa globale, se non in senso regolativo e ipotetico, rigorosamente provvisorio; il rizoma è smontaTema per grandi.portate fredde .. bile, reversibile e contraddittorio, l'unica possibilità di vederlo è la cecità, l'unico movimento ammissibile è quello a tentoni. Quest'immagine del labirinto è davvero più soddisfacente delle altre, meno inadeguata al mistero? oppure ne è altrettanto lontana? In questo caso, occorre indicare i motivi della nostra delusione. Proviamo a rileggere un testo di Borges. In La morte e la bussola, il detective Eric Lonnrot, ebraista e bibliofilo, viene colpito dalla simmetria di alcuni omicidi. Il primo avviene nella parte orientale della città, il secondo a ovest, il terzo a nord; essi sono compiuti nel terzo giorno di tre mesi successivi; tre messaggi lasciati dagli assassini dicono, ogni volta, che una «lettera del Nome» è stata articolata. Lonnrot, che è un ammiratore di Auguste Dupin, valuta i metodi della polizia con eguale disprezzo: poiché la prima vittima è un rabbino, autore di libri sulla setta degli Hassidim, egli stùdia la dottrina di questa setta e scopre che costoro cercano il nome segreto di Dio, il Nome Assoluto. Il mistero gli si rivela in un'improvvisa intuizione, completata da un compasso e da una bussola: vi sarà un quarto • omicidio per colmare il tetragramma del Nome, e non potrà che avvenire là dove il vertice di un rombo completa il triangolo equilatero formato dai primi tre luoghi. Rapito in questa intuizione, Lonnrot si dirige a sud, verso la villa labirintica di Triste-le Roy; vi penetra, si smarrisce nei rinvii illimitati della penombra, della solitudine, degli specchi. Improvvisamente, alcuni uomini si gettano su di lui; il detective viene portato in presenza di Red Scharlach, un gangster di cui, tempo prima, aveva fatto arrestare il fratello. Qui apprende che il primo delitto era casuale, che la prima frase era stata già scritta dal rabbino, e che la simmetria dei delitti, lungi

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