Il giorno prima / 6 A partir~~noG~p•' Eraclito Questa rubrica, iniziata in Alfabeta n. 60, ha accoltofinora interventi di C. Formenti e P. Volponi (n. 60), R. Esposito (n. 61), G. Comolli e V. Curi (n. 62/63), e «materiali»di G. Procacci, R. Guiducci e M. Spinella. P arlando di pericolo, di guerra, di annientamento, di The . day after, siamo soliti usare delle categorie di linguaggio e di pensiero che non abbiamo certamente inventato noi ora, ma che hanno posto le basi dell'immagine del mondo in cui ci troviamo a vivere. Se oggi, a causa della minaccia atomica, ci sentiamo «duemila anni luce lontano da casa» (come diceva il titolo di una vecchia canzone dei Rolling Stones), il tenerci aperti al senso di ciò che va maturando nel nostro mondo della tecnica, l' «apertura al suo mistero», per dirla con Heidegger, ci possono offrire «la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso» (M. Heidegger, Gelassenheit, 1959; trad. it. L'abbandono, Genova, Il melangolo, 1983, p. 39). Incamminiamoci, allora, a ritroso, verso l'origine delle categorie di guerra e pace nel pensiero greco e innanzi tutto verso l'origine della categoria della guerra - visto che, in fondo, il luogo della pace più lo si cerca più si sottrae alla vista. L'apertura del senso della guerra ci rimanda inevitabilmente a un luogo privilegiato e anche piuttosto usurato del pensiero greco aurorale, / abitato da quell'oscuro personaggio che risponde al nome di Eraclito. Il frammento 53, dedicato a Polemos, dice che: 1. la Guerra è «padre» di tutte le cose, 2. la Guerra regna su tutte le cose, 3. la Guerra ha il potere di «manifestare» tutte le cose come opposti: giorno notte, inverno estate, liberi schiavi, uomini dei, ecc. Sembrerebbe conseguente e ovvio concludere che per Eraclito la guerra è l'originario, l'inoltrepassabile, il destino a cui uomini e dei non possono in nessun modo sottrarsi. Che in tal modo sia stato generalmente interpretato Eraclito, in primo luogo dalla filologia, non sarebbe così grave, se non fosse che, in realtà, così l'uomo occidentale ha sempre pensato e agito. 11 recente documento «Per una cultura politica della pace», sottoscritto assieme all'Istituto Gramsci da numerose personalità di varia estrazione, fa appello alla sinergia dei campi politico e culturale nella direzione della pace. Se l'uomo è stato da sempre definito prima come zoon politikém (Aristotele), poi come animai soN eia/e e infine come animale cultu1::1 raie, il problema - considerato che -5 ora è l'uomo in quanto tale a esse- ~ c:i,. re in pericolo - è quello di elabora- ~ re una cultura politica della pace ..... che non sia né mitica, né sovrastrutturale. Ma proprio qui si cela lo scandalon (nel senso etimologico di impedimento, insidia, ostacolo) che bisogna affrontare. Se, per esempio, l'etologo EiblEibesfeldt (ne ha parlato, in Alfa- ~ beta n. 60, C. Foimenti) afferma g che «la guerra è un risultato dell'e1::1 voluzione culturale», basato sulla stessa evoluzione filogenetica dell'uomo, spostandoci nel campo della politica non· è che il quadro sia più consolante. Il compito della politica è, in primo luogo, quello di «creare l'amicizia», dice Aristotele nel Libro settimo dell'Etica Eudemia. Ma che cos'è l'amicizia? Aristotele se lo chiede e, prima di rispondere, passa in rassegna alcune definizioni del concetto per concludere che le definizioni date sono fra le più disparate e per di più in contrasto l'una con l'altra. Di fronte a chi sostiene che «il simile è amico e l'opposto nemico», c'è subito chi afferma che «gli opposti sono amici». Proprio quest'ultimo sarebbe - a detta di Aristotele - il parere di Eraclito. Se non c'è guerra tra gli opposti, non può esistere nemmeno l'amicizia e dunque, in termini aristotelici, nemmeno la politica. Nessuno stupore, dunque, nel leggere nel Protagora di Platone che l'«arte della guerra» è parte necessaria dell'«arte politica». Eppure, se ci concentriamo un attimo su Eraclito, la questione non è così semplice. È vero che Eraclito afferma nel frammento 8 (riportato da Aristotele nell'Etica Nicomachea): «è necessario che tutte le cose diven- •gano secondo la guerra»·, ma è anche vero che nel 64 lo stesso Eraclito afferma che «Dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame». Dio è l'unità degli opposti. Da una parte, gli opposti sono in guerra incessante l'uno con l'altro; dall'altra, ogni conflitto si placa nell'elemento divino. Come? Eraclito pensa la guerra tra gli opposti, ma parla anche di un loro stare-insieme-divinamente-accordati, parla della loro armonia. Ecco, abbiamo nominato finalmente la parola decisiva. Il termine 'armo-· nia' deriva dal verbo greco harmozo, che significa «connetto; congegno insieme, accordo (riferito agli strumenti musicali)». In Eraclito questa facoltà è assunta come prerogativa divina. Il frammento 54 dice lapidario: «L'armonia nascosta è più forte dell'armonia manifesta». Ci sono due armonie? Il pensiero di Eraclito evoca la • totalità del reale secondo due dimensioni armoniche distinte ma • interrelate, gascuna delle quali accorda gli elementi della realtà secondo un ritmo suo proprio. L'armonia manifesta è quella che mette in scena Polemos. E l'armonia nascosta? .È forse la stessa dimensione divina in çui la guerra si placa nella consonanza degli opposti espressa nel frammento 64? Se l'armonia manifesta è la guerra, .possiamo chiamare eiréne, pace, l'armonia nascosta? Certo è che il ritmo dell'armonia nascosta è più avvincente di quello dell'armonia manifesta,..Sulla scena del mondo quale di fatto appare - ecco l'armonia manifesta - si svolge l'interminabile vicenda dell'alternanza degli opposti, il cui ritmo è quello di Polemos: il giorno lotta con la notte e il prevalere dell'uno comporta il sottrarsi da. parte dell'altro. • Ma la· realtà non si esaurisce q~i. Esiste un orizzonte «nascosto» in cui tra le determinazioni del molteplice regna un'armonia «Buisson» di piccoli gamberi che le fa risuonare insieme senza conflitti e, d'altro canto, senza - questo è importante - cancellarne la differenza. In altri termini, esiste un orizzonte profondo in cui le differenze sono tenute insieme le une alle altre da un nesso che ha tutti i caratteri dell'inscindibilità, da un ritmo che non può essere spezzato; e esiste poi il luogo della manifestazione attuale in cui le differenze contrarie possono apparire solo una per volta, facendo capolino secondo un apparente ordine di guerra. A queste vicende presiede una • dike, una giustizia suprema. In virtù della maggior forza dell'armonia nascosta, il diritto a apparire nella dimensione manifesta non è mai definitivo né assoluto, perché ogni •determinazione . che si impone è destinata a essere estromessa a sua volta a vantaggio del proprio altro, a cui è - sul piano dell'armpnia nascosta - originariamente unita. Considerando la realtà solo dal punto di vista dell'armonia mani- ! esta e prescindendo dalla sua dike, avremmo l'ybris, la prevaricazione, che - per Eraclito - «è necessario estinguere ancor più che il divampare di un incendio» (fr. 43). Ma i mortali - già si lamentava Eraclito - non hanno occhi che per l'armonia nÌanifesta e non vedono altro che un contendersi, il quale astratto, isolato, assume tutti i caratteri dell' Eris distruttiva di cui parla Esiodo. Gli uomini sono come dei ciechi che non si avvedono che «l'armonia nascosta è più forte di quella manifesta». Sarebbe teoreticamente interessante a questo ,punto sottolineare che il legame profondo, garantito dallo stesso Logos,, che. tiene unite le due armonie è tale che l'isolamento, la negazione della loro coappartenenza, è un atopon, che dà origine a un mondo della follia. In che senso, allora,. l'armonia nascosta è «più forte» dell'armonia manifesta? Innanzi tutto, perché nega la stessa possibilità della prevaricazione a cui andrebbe incontro l'armonia manifesta come Polemos qualora fosse isolata dall'armonia nascosta e dal legame (logos) che unisce le due armonie. La presunta potenza dei contrari contendenti è originariamente deposta a partire da quell'orizzonte nascosto che vede ogni imporsi definitivo, ossia ogni prevaricazione, come destinati al necessario toglimento. L'armonia nascosta è più potente perché mostra l'impotenza della presunta potenza dell'armonia manifesta. Quella che allora sembra una guerra spietata solo per chi si ferma astrattamente al piano manifesto isolato, assume tutt'altro volto se ricondotta al ritmo di quell'armonia nascosta che è condizione necessaria dell'apparire di tutto ciò che appare. Qual è questo volto inedito? Il gioco. Ippolito ci ha tramandato un frammento di Eraclito (il 52) che paragona Aion, il tempo o la vita stessa, a «un fanciullo che gioca». Nel gioco, che non è pura casualità, ma ha tutti i caratteri della necessità - il mondo, per Eraclito, è «fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne . secondo misure» (fr. 30), anche se poi «il più bel cosmo» non è nient'altro che «un mucchio di rifiuti gettati a caso» (fr. 124) - viene meno ogni prevaricazione, ogni volontà: l'apparenza viene compresa come apparenza e insieme come espressione dell'armonia nascosta. Per giocare, però, e per capire di che gioco si tratta, bisogna esse- .re ben desti: chi dorme non può giocare. Nel frammento 89 Eraclito afferma perentoriamente che «I desti hanno un mondo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si ritira in. un proprio mondo pri- · vato». Ciò che vedono i dormienti - incalza il frammento 75 - è morte, e i dormienti sono coloro che hanno occhi solo per l'armonia mani-· festa e non si lasciano andare al gioco. Sulla base di questa persuasione isolante hanno costruito con la loro prassi un mondo «privato» , in cui domina la guerra: il mondo in cui oggi noi tutti viviamo. E raclito ci ha lasciato un'enorme provocazione, che c'invita a mettere in discussione l'intera direzione del nostro pensiero, che è essenzialmente un pensiero della guerra. L'Occidente ha molto spesso desiderato la pace, ma non ha parlato che di guerra e la stessa politica attuale di buona parte del movimento pa- • cifista internazionale non riesce a andare al di là dell'invocazione o dell'atteggiamento fideistico. «Fides est argumentum non apparenti um» scrive san Paolo, e in effetti, nel corso della storia del pensiero e della cultura occidentale, la pace è sempre stata un non apparens. Il nostro pensiero, in maniera fedele alle proprie origini, è un pensiero della differenza e, aggiungerei, un pensiero _d_ella differenza concepita come opposizione di contrarietà. Esso,ruota attorno al problema del rapporto identità-differenza. «En panta einai», dice Eraclito, ma che significa ciò veramente, ossia dal punto • di vista del!' alétheia? La guerra sembra essere implicata necessariamente, tanto considerando il lato delle differenze, quanto il lato dell'identità. Le differenze, in quanto ordinate secondo rapporti di opposizione, pare debbano entrare necessariamente in conflitto l'una con l'altra; d'altro canto l'identità, se concepita come soppressione dell'altro da parte dell'identico, è necessariamente prevaricazione ma, qualora fosse anche intesa come unificazione delle differenze nella salvaguardia del loro differire, riuscirebbe a essere una reale pacificazione? Bisogna forse pensare oltre le differenze e insieme oltre la stessa identità? Eraclito ci suggerisce un'altra risposta ancora insondata, un'altra possibilità del tutto dimenticata e per molti versi carica a sua volta di difficoltà (per esempio, perché le differenze sono intese anche da Eraclito solo come contrari?). Questa risposta è: far risuonare le differenze come tali nell'intreccio dei differenti ritmi dell'armonia nascosta e dell'armonia manifesta, tenendo presente che l'armonia nascosta è «più forte» dell'armonia manifesta. Certo è che, nel corso della sua storia ormai millenaria, la filosofia occidentale non è ancora riuscita a costruire un autentico pensiero della pace. Il presente scritto è un estratto della conferenza-seminario pronunciata il 22 febbraio 1984 a Venezia-Mestre, a inaugurazione del ciclo «Per una riflessione filosofica sul problema della pace», . organizzato dall'Istituto Gramsci Veneta aderendo ali'appello contenuto nel documento « Per una cultura politica della pace».
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