Alfabeta - anno VI - n. 64 - settembre 1984

Proved'artista Gianni Celati Dagli aeroporti [Alfabeta 64) Da molto tempo ormai non aveva più una lingua propria con cui parlare e scrivere. Un lavoro svolto unicamente con parole tecniche d'una lingua straniera, in un continente dove non era mai riuscito a capire bene cosa gli altri dicessero, aveva creato il paesaggio definitivo del suo volto e la musica lenta della sua vpce. Poiché era rimasto al mondo più a lungo d'una persona che aveva condiviso i suoi viaggi e la sua vita, un giorno s'era deciso a tornare nel proprio continente d'origine, trovandosi a suo agio soprattutto negli aeroporti, dove finalmente gli pareva d'essere in compagnia di altri con le sue stesse mete. Da molti esperti era considerato anche lui un autorevole esperto in qualcosa. Ma aveva spesso desiderato che qualcuno lo retribuisse, non per le formule specialistiche che insegnava ad altri, bensì per il lavoro oscuro e pratico con cui riusciva a tenere in piedi il lungo imbroglio della sua scienza, orientandosi tra fatti che non erano fatti, prove che non erano prove, spiegazioni che spiegavano soltanto se stesse, e facendo quadrare tutto alla fine solo grazie alla precisione dei termini usati. Ne~'altro continente certe volte gli era sorto il desiderio che un bel giorno lo applaudissero per questo e di potersi inchinare al pubblico come un prestigiatore che ha manipolato le apparenze in modo favoloso, e dopo magari cantare una canzone accompagnandosi al pianoforte. Adesso abitava da solo in una vecchia cascina che qualcuno aveva rimodernato prima del suo arrivo. E svegliandosi presto al mattino spesso calcolava lo spazio immenso che aveva attorno, immaginando la distesa piatta delle pianure dove abitava come se la vedesse dall'alto, e ad est la successione di strade e paesini fino alla riva del mare. L'abitudine di correre fuori a guardare il cielo appena sveglio aveva fissato da anni il tono delle sue giornate, e col passare degli anni sempre più presto gli veniva voglia di correre fuori a guardare il cielo e le stelle de~'alba sopra i campi. Svegliarsi così presto non gli sembrava una forma di insonnia senile, ma solo desiderio di guardare quelle stelle prima di iniziare la sua giornata; diceva che gli regolavano il respiro e gli permettevano di dedicarsi ai suoi studi senza sentirli troppo inutili. Col sole alto e la luce che invadeva la casa, ciò che studiava da anni ad un tratto appariva definitivo e scontato, simile a tutti i discorsi definitivi e sistematici che per lui erano soltanto «cattivi esempi». Diceva che, non appena il sole entrava da una finestra, le 'piastrelledel pavimento e le sedie e il tavolo della cucina diventavano nient'altro che «suoi oggetti», e allora tutto appariva scontato e definitivo, insopportabile: insopportabili gli stivali di gomma sotto ilportico, la macchina non sua parcheggiata da anni davanti alla casa, e anche quegli alberi di fronte che restavano immobili- a deriderlo perché lui non era affatto un naturalista (come si dava le arie d'essere) e loro lo sapevano bene. Per questo, appena il sole era alto, doveva uscire di casa e avviarsi in una delle sue camminate da camminatore solitario per le campagne. Ma prima di uscire certi giorni faceva un discorso alle cose, soprattutto alle piastrelle del pavimento in cucina che sembrava fossero lì solo per confermare un'idea che lui aveva di se stesso, quasi che lui fosse il padrone delle cose e le cose fossero ai suoi ordini. Prima di uscire diceva a quelle piastrelle: «Io non sono il vostro padrone, mettetevelo in testa, anche se sono i miei occhi che vi guardano. Ed è inutile che vi presentiate scodinzolando ogni mattina come oggetti familiari, perché le nostre strade sono ben diverse». Quasi fuggendo ali'aria aperta, lungo un argine maestro tra i campi, lasciava dietro di sé quella casa che era diventata il suo ambiente, non fatto di muri e confini ma di immagini che aveva di sé, le quali creavano un alone attorno e l'apparenza d'una vita durevole; allora, andando verso il fiume, il viottolo non asfaltato e poi un terreno aperto, un cimitero di campagna in abbandono erano subito altri luoghi di immagini, la varietà del mondo di fronte a cui aveva sempre voglia di prendere appunti. E lì, in vista d'una autostrada che attraversava quelle terre piatte da orizzonte a orizzonte, ritrovava ogni giorno un terreno argilloso e sconvolto, occupato da popolazioni che i suoi simili chiamavano erbe infestanti, e che per lui erano ormai l'unico possibile argomento di studio: la gramigna, la paperella, lo stoppione, il centonchio comune, l'erba cali che viene dalle steppe, sparse in zone separate su quel terreno che somigliava a una brughiera, assieme a cartoni da imballaggio, frammenti di mattoni, re~ • siduati metallici, lattine e scarpe vecchie. Quelle erbe secondo lui non si presentavano scodinzolando ai suoi occhi. Si imponevano alla sua attenzione come un altro mondo, del quale aveva scoperto l'esistenza nei suoi viaggi, notando come si installassero nei terreni sconvolti di tutto il pianeta allo stesso modo: il loro spazio d'immagini dure e ardite, in posti dove il suolo e l'aria erano sempre più acidi, e tutte le altre cose «oggetti» di qualcuno. Diceva che da quando l'avevano operato al naso, per togliergli un polipo, aveva perso l'olfatto ed era diventato più razionale; era diventato anche un po' sordo, e anche questo aveva contribuito a renderlo più razionale. Forse solo perdendo alcune forme di sensibilità si diventa più razionali, diceva. Per esempio solo adesso che era senza olfatto aveva cominciato a pensare agli odori delle stagioni, a credere di ricordarli da una stagione ali'altra, e ad immaginarli come un buon orientamento nel mondo, migliore della bussola. Diceva che non era mai stato capace di vedere niente dentro di sé come fuori di sé. Troppo nervoso per tutta la sua gioventù e l'età matura, voglia continua di passare ad altro senza riconoscere i propri limiti. A vèva vissuto per più di vent'anni tra Stati Uniti e Canada senza imparare mai un «Chaufroix» di fagiani accento preciso in inglese, e senza imparare bene quella lingua; gli accenti gli piacevano perché lo facevano sorridere, ma dal suo accento chiunque avrebbe capito che lui era un uomo senza nessun luogo d'appartenenza nel mondo. Era sempre incantato dalle stelle. Nelle stelle lontane c'era per lui una costanza e insieme un'incostanza che superavano ogni nostro pensiero. Tutti i nomi dati dagli uomini alle cose, ai luoghi, alle erbe, ai modi di vivere e sentire, tutto ciò che per lui rappresentava la Triste Storia, triste con la ti maiuscola e storia con la esse maiuscola, erano nient'altro che una piccolissima incostanza. E ridicoli i piccoli falsari come lui, falsari scientifici «moderni», che cercavano una piccola costanza immaginaria attraverso l'astrazione dei nomi dati alle cose: i nomi «nuovi», i nomi «tecnici», i nomi dei luoghi che tutti citano come se fossero qualcosa di preciso, gli aggettivi, gli avverbi. Solo i verbi gli sembravano abbastanza rigorosi, anche pensando alle stelle. Da quando era un po' sordo il sistema dei nomi dati alle cose a lui appariva una grande farneticazione astratta, come i principi della sua scienza, come l'astrazione del Dio unico planetario, come l'astrazione del denaro. Invece gli accenti e le intonazioni nel parlare che sentiva nei bar e negozi erano adesso per lui un richiamo: un canto delle situazioni, mutevole secondo le ore e i luoghi e le persone. Nei bar parlava di rado perché non poteva partecipare a quel canto, non aveva più una lingua propria con cui parlare e doveva affidarsi alla farneticazione dei nomi. Tuttavia, quando rispondeva a una domanda, era grato che gliela avessero fatta perché gli veniva da sorridere ascoltando le proprie strane risposte. Qualunque cosa affermiamo, diceva, è solo pura immaginazione. Spesso al mattino, pisciando contro quegli alberi davanti alla casa e rispondendo così alla loro perpetua derisione, credeva d'essere rimasto al mondo troppo a lungo. Nelle sue camminate da camminatore solitario riconosceva una ad una quelle erbe infestanti che crescono nei terreni acidi, e capiva che loro possono resistere all'immensa umiliazione dei terreni, dell'aria, delle cose: erano un altro mondo da cui si sentiva escluso. E certe volte, in un punto sopraelevato di quelle terre piatte, riusciva quasi a immaginare d'essere ai confini del pianeta e di avviarsi verso un momento in cui l'esperienza si sarebbe fatta silenziosa. Diceva che, lasciando l'altro continente, s'era sentito a casa sua soprattutto negli aeroporti. Vedendo attraverso un vetro gli altripasseggeri avviarsi in fila su una pista verso un aereo; ogni volta gli era parso fossero sfollati che si decidevano ad affrontare il viaggio solo perché da quest'altra parte del vetro non restava loro più niente da fare o da dire, come a lui, e come lui già sottomessi al loro destino di viaggiatorio turisti perpetui.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==