Il silenzio ell'e reo Emmanuel Lévinas Nomi propri ac. di F.P. Ciglia Casale M., Marietti, 1984 pp. 200, lire 22.000 Edmond Jabès Il libro delle interrogazioni trad. di Chiara Rebellato Reggio E., Elitropia, 1982 («Informa di parole» 6) pp. 193, lire 12.000 AndréNeher L'esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz introd. di Sergio Quinzio trad. di Giuseppe Cestari Casale M., Marietti, 1983 pp. 253,_lire 18.000 Autori vari Le regioni del silenzio a c. di Maria Grazia Ciani Padova, Bloom ed., 1983 pp. 172, lire 15.000 .,ron c'è da stupirsi se la tragedia della Differenza, che il Moderno introduce e rappresenta nel corso del Novecento, trova la sua voce più cor-rispondente nel pensiero ebraico. Infatti, come afferma F.P. Ciglia nel saggio posto a introduzione di Nomi propri di E. Lévinas, vi è una «strettissima correlazione tra ebraismo, poesia e dissoluzione dell'identità» (p. XII). È sufficiente uno sguardo anche frettoloso sulla produzione ebraica del Novecento per rendersi conto che essa è percorsa da una eterna interrogazione: come poter restaurare al di là del «nome perduto», nella «povertà del t~mpo», «nel silenzio o nella menzogna delle istituzioni alienate» (Lévinas, p. XXI), uno spazio che dica il «nome proprio», pur sottraendosi alla oggettivazione del nome, alla sua «iperdeterminazione», che di quella perdita è il fattore decisivo. Uno stesso filo unisce lo «spaesamento» del personaggio kafkiano - perennemente in fuga - alle riflessioni di Benjamin sulla «iperdenominazione come ultimo fondamento linguistico di ogni tristezza e (dal punto di vista della cosa) di ogni ammutolire»; uno stesso filo unisce il tacere dell' «altro» di Wittgenstein (tacere che tuttavia garantisce l'infondatezza di ogni proposlZlone scientifica) alla «traccia» dell'Altro di Lévinas, o alle «interrogazioni» di E. Jabès (interrogazioni sempre risuonanti nel deserto). Questo filo è costituito dal pensiero sul silenzio. Non un silenzio - come si è troppo frettolosamente deciso - contrapposto alle «parole»; bensì traccia, eco, r~iduo di una °' voce che si sottrae alla presenza, i::s nel momento in cui cerca di spezza- ~ ·@> re il cerchio metafisico tra soggetto c:i.. e oggetto, tra Io e mondo. ~ Ritrovare la parola non vuol dire, allora, porsi sul piano della pro-duzione storica di un «nuovo sapere» (pretestuosamente reinventato come polo alternativo di una «ragione classica» non meglio definita), ma su quello dell'inter- ~ mezzo (che Martin Buber chiama ~ Zwischen), del «tra-i-due» che separa l'Io e il Tu, nell'irriducibilità ~ dell'Altro all'Io, fuori dell'oriz- ..-C) zonte che chiude l'uomo nella ~ ~ stretta metafisica dell'ontologia. e ome proveniente da un Libro, il pensiero ebraico non può non riflettere perennemente sul libro. La scrittura, in quanto traccia di ciò che è totalmente Altro, è insieme - e paradossalmente - legame e libertà: la condizione dell'essere e la perpetuazione di un tradimento (una menzogna), perché tramanda (tradisce) il grido originario da cui ha inizio il «viaggio». •«Tu cerchi di liberarti con la Alberto Folin rebbe il modo in cui, a partire da essa, si produce - in 'fui, a partire da essa, è possibile- una desostanziazione dell'essere, un terzo escluso, in cui tra vita e non-vita i confini si dissolvono» (p. 11). È il silenzio di Dio che sembra dunque rendere possibile la libertà, responsabilizzando l'uomo, ma lasciando, dietro a sé, un'eco, una traccia che, se da una parte garantisce il rapporto con il Tu, dall'altra permette al Dire di risplendere Victor Cavallo scrittura. Quale errore! Ogni vocabolo è il velo sollevato di ··un nuovo legame», afferma il rabbino Reb Léca nel Libro delle interrogazioni di Jabès; e Sara a Yukel: «Ti ho forse tradito, Yukel? / Ti ho certamente tradito / Il vuoto è il tuo viaggio». , La straordinaria grandezza di Jabès sta ih questo spostamento o assunzioneclell'ebraismo sul piano della «povertà del tempo», in cui il linguaggio, ricondotto alla sua essenzialità di «grido», indica nella traccia d'inchiostro segnata sulla pagina bianca la forma di un silenzio allusivo. /L'analdgia tra il «deserto» di Jabès e il mutismo cui è costretta la natura, pensato da Benjamin, è evidente. Si prenda il saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini: in esso Benjamin, non diversamente che Jabès, riconduce alla nominazione l'origine della tristezza della natura, la quale si rifugia, raccogliendosi, in un impenetrabile silenzio: «Vive, in ogni tristezza, la più profonda tendenza al silenzio, e questo è infinitamente di più che incapacità o malavoglia di comunicare. Ciò che è triste si sente interamente conosciuto dall'inconoscibile. Essere nominato ( ... ) resta •sempre un presagio di tristezza». L'irrappresentabilità di Dio, che è elemento costitutivo della tradizione ebraica, diviene allora - ben oltre l'ebraismo - l'emblema dell'irriducibilità dell'Io-al dominio ',J dell'Essere: punta verso una radicale de-sostanziazione dell'essere, nella sua pura luce: luce simbolica che si sottrae alla delimitazione del Detto. L'«enigma del dire ebraico» sta in questa denucleazione della «solidità profonda che, secondo gliin: segna-menti dell'ontologia occidentale, giace sotto la plasticità delle forme» (Lévinas, p. 12). L'eco, non più e non ancora parola, diviene la metafora privilegiata di questo dire «al confine del silenzio e dell'oblio». Dice Reb Prato nel Libro delle interrogazioni: «Non trascurare l'eco; perché di echi tu vivi». Così, lo spazio bianco che sulla pagina separa una parola dall'altra diviene più importante della parola stessa, in quanto apre un varco oltre ciò che è scritto, per permettere il «colloquio» tra l'Io e il Tu, ambedue com-presi nel sottrarsi di Dio alla presenza: «Il vero dialogo umano, quello delle mani, delle pupille, è un dialogo silenzioso» (Jabès, p. 69). Analogamente, nessuno può abbandonare il Libro, ma vi sono dei silenzi tra le righe (le spaziature) che ce lo fanno credere, e ci indicano un'apertura, una traccia appunto. «Appartiene all'essenza dell'arte il fatto di significare tra le righe - negli intervalli di tempo - nel frattempo - come una traccia che fosse anteriore alla marcia o come un'eco che precedesse il risuonar d'una voce» (Lévinas, p. 9). 11libro di Neher si colloca a pieno diritto in questa tradizione ebraica che cerca il silenzio non oltre il linguaggio, ma, accanto a ogni parola, entro il linguaggio stesso. La visione che ne proviene, come Ciglia afferma a proposito di Lévinas, è di una «non disperante crisi della 'presenza'», in quanto è proprio il silenzio di Dio a consentire la libertà dell'uomo, e agarantire la sua «speranza». Ma questo silenzio - per quanto talvolta, come nel caso di Giobbe, si configuri come complotto tra Dio e Satana - non è mai un silenzio tale da identificarsi con una nientificazione. Infatti, come nota George Steiner in La morte della tragedia (Milano, Garzanti, 1965, p. 7), «quella oscura leggenda [di Giobbe] sta ai limiti del giudaismo e anche qui una mano ortodossa ha imposto i diritti della giustizia contro quelli della tragedia». Il silenzio di Dio, infatti, lascia sempre, come si è visto, un residuo che, se impedisce alla trascendenza di calarsi in un progetto «provvidenzialistico», non rinuncia per questo a «ricompensare Giobbe delle sue sofferenze». Tale silenzio fonda comunque - se~ondo Neher - l'avvenire come «rischio», anche a condizione di confondersi con il silenzio di Auschwitz. Non parlerei quindi, come fa S. Quinzio nell'Introduzione al volume di Neber, di morte di Dio. La morte di Dio, con la concezione del tragico che vi è sottesa, concerne piuttosto il pensiero greco, e e recupera la religione, non in quanto fede, ma in quanto possibilità del terzo escluso. Così Lévinas, proponendo la centralità del-,; l'Etica rispetto alla Metafisica,· può affermare: «La religione - o, più esattamente, l'ebraismo - sa- Jacqueline Cahen e Pasca/e Son appartiene a una tradizione del tutto difforme da quella ebraica. In questa difformità va probabilmente individuata la distanza che separa un filosofo come Heidegger - che alla grecità si richiama esplicitamente - non solo da Lévinas, ma anche da molti pensatori ebrei della Vienna del declino absburgico. In che cosa consiste il silenzio nel mondo greco? Quali sono le sue «regioni»? Ora Le regioni del silenzio, un bel volume curato da Maria Grazia Ciani, ci mette sulla strada per comprenderlo. Non potendo esaminare tutti i saggi che vi appaiono, accenneremo a quello di Paolo Scarpi su «L'eloquenza del silenzio. Aspetti di un potere senza parole». In esso viene delineato «l'alternarsi dialettico di scelta e imposizione nella frequenza dei silenzi», così come si svolge nella mitologia greca, cui corrisponde un alternarsi tra mito e rito. Ai fini del nostro discorso è interessante notare che il silenzio - sia nel caso di una ·affermazione, sia nel caso di un'imposizione (che quindi inaugura lo statuto del «segreto») - si manifesta come sgomento o «paura» di fronte ali' «incommensurabilità della potenza, resa meglio trasparente là dov'essa si qualifica in senso negativo»; mentre «là dove la 'paura' non sussiste sta il riconoscimento dell' 'altro', del suo prestigio». La grècità sembra dunque esprimere un silenzio che sta fuori del discorso, lo precede e lo nega, in quanto legittima un potere divino oscuro e tragico (di cui, ad esempio, i Misteri Eleusini sono la più evidente manifestazione). Si tratta di un potere che garantisce la tragedia perché, a differenza di quel che accade nella tradizione ebraica, qui «la necessità è cieca, e incontrandola l'uomo resterà privo della vista, che ciò accada a Tebe o a Gaza» (G. Steiner, p. 8). Questo non-essere delfà Presenza, che non è eclissi, ma propriamente Assenza, rende possibile --l'appariredel mondo in quanto apparire: per i Greci, come afferma Heidegger, «l'apparire rimane così il tratto fondamentale della presenza di ciò che è presente, in quanto affiorante dal disoccultamento» (M. Heidegger, In cammino verso.-,il linguaggio, Milano, Mursia, 1979, p. 111}. Così, l'autentico parlare di Heidegger è un parlare che proviene dal silenzio: una movenza in cui l'Altro - estremo negativo del colloquio - non è mai l'Autrui (cioè il prossimo), ma piuttosto "l'«avvento dell'esser stato». Laddove l'ebraismo considera il silenzio come frammezzo tr~ l'Io e il Tu, e dunque interno al colloquio, garantito dal sottrarsi di Dio alla parola, o - come .dice Jabès - dal Tutto «perché il Tutto è assenza» (p. 61), per Heidegger il silen- : zio appare come «il costante prelu- •dio all'autentico colloquio .sull'ascolto del linguaggio», nell'ambito del quale «dovrebbe aprirsi e irradiarè la sua luce lo spazio intermi- ' nato in cui emerge nel suo proprio splendore l'essenza del Dire originario» (Heidegger, In cammino, p. 123).
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