Il poeta ~l~,to Viganò Autori vari Il sogno del coreodramma. Salvatore Viganò, poeta muto a c. di Ezio Raimondi Bologna, Il Mulino, 1984 (coli. «Proscenio») pp. 337, lire 25.000 Presentazione del libro Prolusione orale di Aurelio M. Milloss Teatro com. «Romolo Valli» Reggio Emilia, marzo 1984 Il Se Viganò fosse riuscito a '' inventare "l'art d'écrire les gestes et les groupes" si sarebbe a distanza parlato di lui più che di Madame de Stael». Questo appunto di Stendhal motiva almeno da due punti di vista l'importante riscoperta del coreografo Salvatore Viganò (17611821): in quanto tale, e nei metodi di approccio alla sua opera dispersa. Come si sa, la danza non si scrive se non adottando un altro linguaggio, che scrive soprattutto se stesso più che l'oggetto della sua trascrizione. Tuttavia, mantenere intatto un approccio estemporaneo- recensorio, quasi - all'opera viganoviana come se si trattasse di una produzione contemporanea, nel tentativo, scrive Raimondi, «di desumere da un'ermeneutica scritta un'ermeneutica visiva», appare di straordinaria novità specie per la cultura e la storiografia di danza, troppo spesso restie a restituirci l'archeologia dei grandi coreografi del passato. Ed è anche il fascino e il mistero che seducono Stendhal nonostante il rammarico di vedere sfumata, dopo pochi anni dalla prematura scomparsa di Viganò, la sua imprescindibile lezione tersicorea. Stendhal, esule a Milano negli anni trionfali del «coreodramma», è mosso dal piacere di descrivere più che di decodificare l'arte viganoviana, immerso negli entusiasmi di una contemplazione tutta emo~ tiva, in un dramma inedito che lo scuote più delle tragedie di Shakespeare. E a quel dramma o «coreodramma» vorrebbe avvicinarsi, a distanza di tempo, in modo coerente e forse più meditato rispetto alle entusiastiche effusioni contenute nei suoi epistolari dall'Italia («Canova, Rossini et Viganò, voila la gioire de l'Italie actuelle»). Gli autori del Sogno del coreodramma (oltre a Ezio Raimondi, Luciano Bottoni per i rapporti con la cultura europea contemporanea, Rossana Dalmonte sulla mu:. sica, Fabrizio Frasnedi per le intersezioni tra gestualità, mimica e danza, Anna Ottani Cavina sulla pittura e scenografia) esplorano la vasta materia viganoviana con una curiosità tutta calcolata, già erudita, ma poi brillantemente cedono lr) le armi della ricerca minuziosa per ~ far affiorare quel tanto di inespri- .::: ~ mibile, di non univoco, che rende ~ così aperta la chiosa di danza. ~ Basti solo meditare sul titolo -. sfuggente del libro (Sogno) e leg- ~ gere il problematico saggio sul ~ rapporto tra Viganò e le arti visive -~ di Anna Ottani Cavina («l'unicità } ha un senso solo quando si tratta di stabilire dei fatti, non quando è ~ in gioco l'interpretazione; e 'sen- ~ so' non è una tautologia, ma rac- ~ chiude sempre in sé qualcosa di ~ più dell'oggetto concreto dell'e- l nunciazione», da una nota del sag- ~ gio, tratta da C.G. Jung, Lettera a un giovane studioso), per capire che è questa chiosa aperta a emergere in tutte le componenti letterarie, musicali, gestuali e d'immagine del testo. Una chiosa che si dilata fino a toccare i limiti della rinuncia a se stessa, e si restringe di volta in volta nell'accostamento alle fonti più preziose come i Commentarii della Vita e delle Opere Coreodrammatiche di Salvatore Viganò e della Coreografia e de' Corepei, scritti da Carlo Ritorni (1838), biografo di Viganò, come le varie dissertazioni dei romantici lombardi sulla sua missione - davvero tale, considerata la brevità e l'intensità del messaggio contenutovi. noverriano. Una somma di teorie racchiuse innanzi tutto nelle prime famose quindici Lettres sur la danse, del 1760, che non chiariscono soltanto le prerogative del «ballet d'action» ma influenzano tutta la danza del tardo Settecento e quella successiva alla missione viganoviana per circa cento anni (Aurelio Milloss). Noverre aveva assegnato alla danza il compito di esprimere anche le azioni drammatiche senza bisogno del supporto recitativo di attori o cantanti, come era in uso precedentemente. Tuttavia, la tecnica dei suoi balletti rispondeva ancora alle regole della «danse d'école», fissata ali'Académie ancora alla verosimiglianza, anche se alla verosimiglianza stilizzata della pittura. I balletti noverriani per tanto non dovevano risultare né dinamici né organici, piuttosto giustapposizioni di frammenti assai diversi tra loro: danze puramente decorative (il vecchio divertissement), pantomime e stilizzazioni di stati d'animo. Tra l'altro, in genere, la danza pura occupava un posto secondario («dans les scènes on marche en mesure à la verité mais sans danser», dice un appunto di Diderot e Grimm riportato nel libro), per lo più in chiusura degli avvenimenti drammatici. S alvatore Viganò superò queste formule elaborando anche il pensiero del maggior teorico antagonista di Noverre, l'italiano Gasparo Angiolini, fautore di una pantomima «misurata sulla musica» per un'azione più scarna e essenziale. Angiolini preannuncia già una pantomima guidata da uno spirito di danza, plasmata in forma coreografica, ma è solo con Viganò che il dramma danzato - sia esso a carattere mitologico, storico o individuale - si trasforma in un'opera unica, organica, dove il ritmo, la velocità di cambiamento, la misura dello spazio, il movimento, so- • no regolati a misura di un «teatro totale» come una Gesamtkunstwerk. È questa totalità d'intervento (Viganò, dice Milloss, è un wagneriano ante litteram), questo pensiero che trasforma il testo in progetto autonomo, questo trascolorare Katalin Ladik e Bob Cobbing 'della parola (pantomima) in poesia corporea (danza), ma anche la ricchezza, la fastosità dei cavalli e degli animali in palcoscenico, delle «apparizioni cosmoramiche», a affascinare il pubblico colto e popolare (come il Giovannin Bongee di Carlo Porta) del tempo. Ai romantici lombardi, in particolare, le opere viganoviane (il Prometeo, la Mirra «più toccante di quella alfieriana») dischiusero la forza del- !' espressione gestuale, gli orizzonti di un linguaggio inedito, potente e S orprendentemente, Viganò non sopravvisse a se stesso. Percorse il cielo della danza europea come una cometa rapidissima. Napoletano, figlio d'arte (la madre è una valente pantomima sorella di Luigi Boccherini, e il padre Onorato è un coreografo), egli raccoglie la lezione familiare, che qualche addentellato doveva ancora avere con la tradizione girovaga degli attori della Commedia dell'arte, cercando soprattutto di avvicinare le esperienze più inedite della coreografia del suo tempo senza pregiudizi rispetto alle ascendenze. Per questo, lo troviamo in Spagna affascinato dalla danza folklorica di quel paese e convinto dell'urgenza di dover esprimere attraverso la danza non solo la purezza di uno stile e l'eleganza dei passi, ma anche i sentimenti e le passioni. Quindi a Parigi, presso il discepolo più importante del massimo teorico della danza francese, Jean George Noverre - quel Dauberval che, nel 1789, aveva firmato il primo balletto borghese che la storia della danza ricordi, La Fil/e mal gardée. Da Dauberval Viganò apprese tutte le coordinate del pensiero Royal de la Danse di Parigi nel 1661. Di qui la contraddizione tra teoria e pratica che si coglie nell'opera noverriana e il tentativo di Viganò non tanto di superare il consolidato spettacolo di danza nella confeziorte, quanto nel suo linguaggio intrinseco. Il coreografo comprese che una tecnica lineare basata sulle componenti meccaniche, in un rapporto di assoluto equilibrio geometrico tra corpo e spazio, non poteva tradurre i turbamenti dell'anima, l'effusione dei sentimenti, la dinamica delle azioni. Anche Noverre non ignorò questo problema oggettivo, ma lo risolse traducendo la successione degli eventi drammatici nell'unico linguaggio gestuale mimetico già depurato, però, della sua forza vitale, di trasformazione del dato reale in arte - cioè in una pantomima statica ispirata alla grande pittura del secolo. Concettualmente, si manifesta nell'opera noverriana non tanto il rifiuto di abbassare la danza a un linguaggio volgarmente realistico «da sordomuti» quanto, piuttosto, un ennesimo riconoscimento del pensiero aristotelico. L'arte espressiva del «ballet d'action» doveva puntare - secondo Noverre - immaginario, libero, ma allo stesso tempo logico perché regolato da una (nuova) composizione coreografica. A Viganò si deve l'uso variato e polifonico del corpo di ballo. Nelle sue azioni - come si desume dalle descrizioni del Ritorni - i danzatori non si esprimevano all'unisono, bensì individualmente, in un gioco concertante che animava la scena «di angolo in angolo». Ormai privi degli ingombranti costumi barocchi, molto spesso vestiti di semplici tunichette (che non mancarono di stupire, di turbare, di sollecitare la fantasia erotica degli spettatori), questi danzatori - tra cui va ricordata almeno la Pallerini, grande interprete drammatica - mutuavano passi e espressioni secondo gli schemi prestabiliti dal coreografo nell'intento di rendere immediatamente leggibili gli intrecci tematici. Per fantasia compositiva, per pregnanza dei temi prescelti (si pensi al mito di Prometeo, ma anche all'allegorico Noce di Benevento, fitto di simbologia, dove il Bene e il Male v~ngono contrapposti in modo scenicamente complesso, senza semplificazioni), per la molteplicità della scrittura corporea, che alterna tutti i possibili dettagli dell'eleganza francese e la ricerca di un'espressività interiore, psicologica e terrigna, l'opera di Viganò si proietta ben oltre il balletto romantico e tardoromantico. Le sue problematiche assomigliano molto al teatro di danza contemporaneo nel suo desiderio di coinvolgere di nuovo lo spettatore nel racconto di temi riconoscibili, trovando la forma adeguata alla loro messa in scena senza dimenticare quei respiri formali, quelle pause astratte, a cui si è dedicata unilateralmente molta coreografia contemporanea. Il senso della riscoperta viganoviana è anche questa particolare forza propositiva, di confronto, con l'immediato presente. Solo come esempio di come non sia possibile avvicinare nuovi soggetti di danza senza rimetter mano all'impostazione tecnica - di quanto sia indispensabile, per uno sguardo totale, la raccolta di materiali gestuali plurimi (si pensi al ballo di sala nel teatrodanza di Pina Bausch) - l'operato di Viganò si rivela di grande novità. Non sfugge al corpo del Sogno del coreodramma l'importanza che Viganò ebbe per il suo tempo. Tanto è vero che i curatori nei diversi e compl~mentari capitoli dell'opera fanno a gara a ricercare citazioni e raffronti. Tutto il nuovo mondo estetico, filosofico e artistico italiano a cavallo tra Sette e Ottocento pare si sia rispecchiato nell'opera viganoviana e viceversa, con il risultato di delineare un mosaico sfaccettato e impressionante per gli stessi curatori che scoprono, montando la ricerca, quanto «la storia del balletto e del mimo è insieme una storia della cultura, un capitolo della psicologia storica, dell'espressione umana». A questa non ovvia scoperta, di cui è prova la mancanza di ricerche illuminanti come questa, avrebbe senz'altro giovato l'apporto di un tecnico della danza. Il testo sembra volontariamente sottrarsi a una verifica specifica, interna, della materia danza - in questo ricadendo contraddittoriamente nell'opposto esatto dell'enunciato riportato sopra. Le storie del balletto e del mimo, infatti, appartengono alla storia della cultura proprio perché hanno tradizioni, regole, percorsi autonomi, non ignorabili. Persiste, crediamo, una congenita diffidenza nei confronti della critica e della storiografia di danza che si fonda, forse, su dati oggettivi ma anche su pregiudizi pericolosi, tanto più se incrinano - come in questo caso - la chiarezza della sezione dedicata al gesto viganoviano e i molti (ambigui o impropri) riferimenti di danza. Salta subito agli occhi la confusione e talvolta la contraddizione •tra capitolo e capitolo sui termini appropriati per distinguere e le varie parti di cui si compone l'opera viganoviana e il suo insieme. La definizione esatta, generale, dovrebbe essere comunque quella di «balli» o «coreodrammi» - come brillantemente suggerì il Ritorni - ovvero coreografie fortemente caratterizzate da un impianto drammaturgico, e narrative. Occorre insistere sul termine 'coreografia' perché infine il lavoro di composizione e di confronto di corpi, spazi, oggetti, musica, svolto da Viga-
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