Sogno del labirinto Sono in un giardino settecentesco. Ci sono siepi di mortella che formano un labirinto. Ci sono anche giochi d'acqua. Le siepi si innalzano man mano che ci si inoltra. I giochi d'acqua scompaiono. Le siepi diventano dei muri alti e spessi coperti di licheni. Poi sono veri e propri corridoi. Devo andare avanti per arrivare in un posto che non so. I muri si stringono. Man mano che ci si inoltra anche il soffitto si abbassa. Un cunicolo infinito, in cui una voce grida dei numeri facendo echi viscidi e sguscianti. Sono impedita nei movimenti, il terrore monta dentro fino a farmi vomitare. Mi sveglio in gabinetto vedendo la mia faccia che mi guarda dallo specchio con gli occhi stravolti. Teresa De Sio· Dal dottori Caterina Galizia Seduta Ho avuto un incubo dei peggiori cui è seguito un attacco di confusione. Racconto al dottor X quel poco che mi ricordo del sogno e questa volta mi soffermo a descrivere la crisi successiva. Ho avuto un attacco di vomito e diarrea. Come mi sono liberata ho visto le pareti girarmi intorno a centrifuga. Mi sono sdraiata per terra per evitare di battere la testa cadendo malamente. Appena sono stata in grado di alzarmi ho preso una quantità di Valium in gocce direttamente sulla lingua. In questi casi non lo prendo in pillola perché ci mette di più a fare effetto. Non lo allungo nell'acqua per evitare di vomitare ancora. Il dottor X è terribilmente ostile. Non mi guarda nemmeno negli occhi mentre parlo. Mi sento ancora male come nel sogno. Lui è fermo: aspetta che faccia le maledette associazioni. Dico subito che il giardino è la terapia, che in passato mi è sembrata un posto fresco e che dava sollievo e che adesso si sta trasformando in un labirinto. Mi chiede perché un labirinto. «Perché io sono costretta a proseguire» dico, «e non so se, quando e come ne uscirò. Per di più mi è impossibile tornare indietro. Mi sono talmente fidata di lei che non ho nemmeno portato un filo». Osserva che si tratta di una visione molto angosciosa della terapia. Mi invita ad un esame di realtà. «La terapia» dice «l'ha anche aiutata in passato a risolvere alcuni problemi». Quasi grido: «Ma eccoli qui: come se niente fosse tornano tali e quali e in più mi ritrovo con addosso questo bisogno che non si può appagare. Tutte queste maledette norme che mi stringono come i muri del labirinto». «Ma quali norme?» chiede il dottor X con voce pacata. «Le norme è lei che le costruisce. In realtà non ci sono norme in psicanalisi». «Ma allora» dico io, «mi spiega perché dobbiamo star qui a parlare uno da una parte e l'altro dall'altra come due animali impagliati invece di andare finalmente fuori a respirare? E perché bisogna darsi del lei quando io do del tu a tutti, anche ai miei capi? E perché lei deve starsene acquattato dietro la sua maledetta scrivania invece di sedersi qui sul divano come succederebbe in qualsiasi conversazione che non fosse questa pagliacciata?» .. Risponde: «Signorina, non credo di averle mai detto che in terapia non ci si può dare del tu». Perdo le forze. Ormai sono al piagnisteo. Dico che quando mi sono accorta del transfert lui mi ha incoraggiata (il «forza signorina» mi rintrona ancora nelle orecchie), sapendo benissimo che non avremmo potuto far niente. Dico che questo tipo di comportamento non è molto dissimile da quello del mio ex capo con la segretaria; solo che lì lui è andato fino in fondo. Incontro finalmente il suo sguardo. Ha l'aria spersa. La voce gli si abbassa. Dice: «Ma se facessimo l'amore lei si troverebbe di fronte in tutta la sua violenza la conflittualità del suo Edipo. Non è me che ama, signorina. Lei fa rivivere in me la figura di suo padre. È questo il transfert, sa? Il desiderio che lei mi porta è solo il desiderio infantile che aveva per lui. Se acconsentissi alle sue richieste agirei contro di lei. Non c'è scelta. È solo prendendo coscienza di Sogno del professore d'inglese Avevo un po' di tempo a disposizione e andavo da un vecchio professore di inglese con laprecisa intenzione di dirgli che non volevo più proseguire le lezioni. Camminavo per un percorso cittadino. Salivo e scendevo dalle scale e passavo sotto il porticato di una casa patrizia fine Ottocento. Per terrac'era un acciottolato molto regolare, a sassi rotondi e grassetti, bagnato di pioggia. Mi dicevo: «Mi spiace non andarci più. Vorrà dire che gli chiederò se possiamo esseresoltanto amici». Intanto arrivavo alla casa. Salivo i cinque scalini dell'ingresso e entravo nell'atrio. Era molto grande, non molto luminoso. I vetri della porta d'ingresso e delle finestre erano alti e rettangolarie avevano degli ornamenti di ferro battuto messi per il lungo. Il pavimento era di màrmo lucido. Al centro iniziava la scala che aveva larghi gradini bassi. Il professore era alla base della scala. Stava scopando con una grossa ramazza di saggina. Mi guardava un po' imbarazzato per essere stato sorpreso in quell'attività. Mi faceva notare che ero in anticipo. Allora decidevo di non chiedergli niente. Era un estraneo con cui era possibile soltanto un rapporto didattico. E un rapporto come quello non mi interessava più. questo che può venirne fuori». Mi sento di nuovo aggredita. Penso che mi racconti un sacco di balle psicologiche perché non ha voglia o non ha il coraggio di scopare. Da un suo gesto (ha chiuso il libro degli appunti), ho capito che vuol chiudere. Malgrado ciò tento disperatamente di non andarmene. Rimango ad aggredire e intanto mi sento una merda. Duro attacco alla terapia e alle sue norme vissute come castranti. Il terapeuta secondo lei è colpevole di averla ingannata e maltrattata. Si evidenziano ancora sensi di colpa. Cerca di protrarre la seduta oltre il termine .. Seduta Mi siedo sul divano. Mi stupisce per un attimo l'immobi-. lità dello studio. Sono tanti anni che lo conosco e non cambia mai niente. Persino i libri negli scaffali sono rimasti sempre nello stesso ordine. Penso che il dottor X dovrebbe almeno decidersi a cambiare la poltroncina. Mi irrita la meccanicità con cui apre il cassetto e toglie il libro degli appunti. «In questi giorni» dico «ho pensato spesso di non venire più». Non mi guarda nemmeno. Con la testa sempre chinata sugli appunti chiede: «Come mai?» Dico che l'ultima volta le sue interpretazioni mi hanno disgustato. Tace e non mi guarda. «È possibile» continuo «che anche i sentimenti più gentili (l'amicizia, l'amore), i più buoni, debbano essere sempre motivati da egoismo, paura e desiderio di sopraffazione? Se davvero lei la pensa così è un mostro. Conosce la favola di Andersen dove c'era un bambino che aveva una scheggia in un occhio? Era la scheggia dello specchio del diavolo. Fino a che l'ha avuta nell'occhio il bambino non vedeva più la mela rossa e rotonda ma solo il verme che l'abitava e nel cuore degli uomini vedeva solo la malvagità. In questi giorni ho pensato spesso a questa storia, sa? E se oggi sono venuta è perché ho deciso che non può essere così. In fondo al cuore io so, lo so, capisce? che lei è una persona buona. In molti casi le sue parole sono arrivate troppo puntuali, troppo rasserenanti per essere frutto di tecnica e non di affetto. Allora l'unica spiegazione possibile è questa: lei segue le terribili norme del suo mestiere. Agisce nel modo più 'funzionale' alla terapia». Improvvisamente penso che se è così non gli rendo certo il lavoro più facile. È proprio in questo momento che mi accorgo di essere infinitamente stanca. Tuttavia continuo: «A questo punto mi chiedo se è giusto mantenere in vita un rapporto così fasullo. La terapia è come una lingua straniera. Non la capisco. Anzi, a proposito di lingua straniera, le racconterò il sogno che ho fatto l'altra notte». Racconto il sogno. Perdiamo un po' di tempo nell'analisi dei particolari della prima parte. Quando arrivo a descrivere il personaggio dico che senz'altro sotto la sua figura si nasconde quella del dottor X. Anche lui parla una lingua incomprensibile e anche lui cerca di insegnarla. Anche con il terapeuta il rapporto didattico si è logorato e la mia aspettativa si rivolge ad un legame più autentico. Ma questo legame tarda a venire e forse è impossibile. Intanto mi ha preso una tristezza mortale. Lo guardo in cerca d'aiuto. Niente. «Lasciarsi andare» dico, «non serve a niente». Riprendiamo le associazioni. Quando arrivo al particolare dello scopare mi accorgo di arrossire. Il dottor X abbandona per un istante l'aria austera e sembra divertito. Mi chiede di associare. L'associazione è immediata. Ho qualche perplessità, poi decido di riferirla. «Ricorda» rispondo «quando sono venuta questa estate e le ho lasciato una lettera?» «Ricordo». Sembra sorpreso. «Lei mi aveva fatto aspettare un po' alla porta ~ io avevo •.sentito la voce di sua moglie. Poi l'ho vista tutto stralunato e con i capelli per aria e aveva molta fretta. Ho pensato che stesse facendo .l'amore». È imbarazzato. Brontola qualcosa come «Ma guarda un po' i pazienti che razza di fantasie certe volte ... » La sua reazione mi fa ritrovare rabbia e forza: «Chissà che fantasia» dico piccata, «come se ci fosse qualcosa di strano se uno dopo tanto che non vede la moglie avesse dei rapporti sessuali. E poi non so se ricorda le parole con cui mi ha salutato. Mi ha detto che aveva dovuto rivestirsi perché stava facendo dei lavori in casa. Anche il professore d'inglese stava facendo un lavoro in casa. Infatti scopava». Adesso tocca al dottor X arrossire. Ha pensato più volte di non venire più. Ha avuto una reazione di disgusto all'ultima seduta per via delle interpretazioni relative al rifiuto del conflitto con l'amica. Poi ha pensato che l'interpretazione rientrasse in una tecnica «funzionale» alla terapia. La terapia è come una lingua straniera. Lasciarsi andare in terapia non serve a nulla. Ho l'impressione che riprenda i tentativi di seduzione. Vorrebbe farsi vedere molto depressa per essere consolata.
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