S o che quanto sto per dire rischia di essere frainteso. Ma è un rischio al quale vivendo mi sono abituata, e quindi parlerò. Sono inseguita da tempo da una strana figura, enigmatica e seducente. L'anno scorso in Andalusia, vedendola comparire senza tregua davanti a me, in viaggio da una città all'altra, da Siviglia a Cordova, da Cordova a Granada, cercavo di contenere una sorta di paura. «È solo una coincidenza» mi ripetevo, «sono i luoghi, questi bellissimi luoghi che la fanno comparire». In effetti, c'era stato in quel viaggio qualcosa di magico. Non ero la sola a pensarlo. Lo pensavano anche le altre mie compagne. Molto spesso le gitane ci avevano circondate ridendo per leggerci la mano o venderci qualche garofano. «Un moro te espera arriba, un moro te espera!» mormoravano insinuanti, volendo comunicarci di prepotenza il segreto di quella figura enigmatica, che lì più che altrove mi sembrava presente. E non so perché, io me la immaginavo come una bella pellegrina, bruna, che cammina in fretta, e non vede quasi quello che le sta intorno. Un pensiero fisso, o forse un dispiacere, qualche forma di passione intensa la costringe sempre ad aggirarsi negli stessi posti: dentro di sé. Ha occhiali neri e folti capelli che le nascondono un poco il viso. Un mantello ampio l'avvolge e ne ricopre, insieme a occhiali e capelli, con un certo pudore, il tempo che le è passato sopra, fermandone a una mesta anteriorità l'immagine, sempre nell'atto di imprecare contro ogni trascorrere. Così concentrata in sé, furiosamente china, io l'amo furiosamente, ma non posso parlarle, non posso entrare in comunicazione con lei. Non posso nemmeno toccarla. La seguo e l'accompagno nel viaggio che mi dà l'impressione di un pellegrinaggio. E ora la vedo somigliante a una Muneca, la Macarena che non sono riuscita a vedere a Siviglia, tutta carica di pietre e ori, una bambola divina che non mi parla, distante e inanellata; ora a una regina della notte mediterranea, che ha perduto qualcosa o qualcuno, e furiosamente cerca e si industria, in un lucidissimo delirio, di trovar mezzi e uomini disposti ad aiutarla a riottenere l'unico oggetto che le sta a cuore. Ne conosco e amo la cupa concentrazione, la povertà degli interessi per tutto quanto non sia la sua passione. È forse solo un\dea, certo io lo so, ma la costanza con cui m'insegue, mi commuove. · L'ho persino sognata. Visitavamo . degli scavi in non so quale arena che somigliava a una gabbia zoologica, e lei portava sempre i suoi occhiali scuri, il suo luttuoso mantello, sovranamente sofisticata. Varie volte, sentendo risorgere questo grande amore che le porto, e che certi giorni mi impone ardori che quasi mi spaventano, sono stata tentata di confessarglielo. Ma so che non mi sentirebbe, che la nostra condanna è questa: che io la •ami nella sua concentrazione disperata mentre ci incontriamo fuggevolmente in qualche luogo d'eccezione: i giardini di Granada, le strade di Palermo, la collina di Torino: qui mi si mostra e mi offre la grandezza della sua monomania. Alcune volte l'ho paragonata a Demetra, a qualcuna di quelle figure arcaiche, deputate a vagare per avere perduto il bene prezioso della loro stessa carne, altre volte è solo una donna che esce da una tempestosa relazione coniugale, altre ancora è una grande studiosa, diafana ed evanescente come certe figure di E.A. Poe. Ma sempre, ogni volta che ne rivedo la strana concentrazione che l'accompagna, il fuoco che la consuma dall'interno, io subito, in qualsiasi luogo, la riconosco, in qualsiasi situazione, «è lei! è lei!» mi dico. E non ho ancora detto la cosa più importante. Certe volte ho avuto l'impressione netta di essere arrivata, come aprendo d'improvviso una porta, ho avuto la certezza di trovarmi nella stanza della verità. Come dire altrimenti? Non poche volte mi sono illusa (ricordo che mi accadde leggendo Menzogna e sortilegio, in un modo fortissimo, una delle prime volte) di aver trovato la chiave, di essere io stessa Elisa, la narratrice solitaria di Elsa, la tesoriera selvatica che detiene il segreto di quella figura che da così tanto tempo mi tormenta. Ma l'illusione dura poco, e mi tormenta invece sempre la sua bellezza, perché so che è la sua fine, non il suo trionfo. Ne inseguo l'andatura un po' lenta come quella di un animale ferito, e mi chiedo: «quando potrò parlarle? quando potrò?» E il tempo passa, e non riesco mai. Qualcuno mi ha dato occasioni per farlo. Non lo nego. La vita è piena di strane coin~idenze, che sembrano talvolta elementi per l'architettura di uno strano romanzo giallo. Devo ringraziare (ma so che oggi non potrò più farlo come avrei voluto) Elsa Morante. Grazie a lei mi è sembrato qualche volta di andare avanti nel mio difficilissimo colloquio. Ho rivisto in qualche suo personaggio la mia pellegrina. Subito, trasalendo per la inaspettata coincidenza: «Es un amor de sòtano, es un amor de sòtano» ho sentito che farfugliavo nel mio buffo spagnolo, giacché talvolta mi piace di cimentarmi anche nelle lingue che non conosco, quasi per riprendere fiato nella mia. «Amore da cantina, da sottoscala, da luogo che non vedrà mai la luce» ho avuto anche il tempo di ripetermi, qua11domi sono ripresa. E non è forse questo il mio amore per lei? Come Elisa - la Elisa di Menzogna e sortilegio - non sono io reclusa, e non osservo forse da lontano, a rispettosa distanza, questa donna inquieta e incapace di adattarsi al mondo che potrebbe essere mia madre? Fin dal primo incontro ne ho colto l'idealismo disperato, il suo farneticare mediterraneo, così inadatto all'azione, come per assenza cronica di spazi in cui esercitarsi. Ma che vale questa mia acutezza? Io non ho ancora detto la cosa più terribile. So che per lei io non cesserò mai di essere una bambina. È la mia tristezza. E l'accompagno, ma con la coscienza del mio fragile involucro, l'intelligenza acuta di quello che lei sente, cui non posso mai unire la forza della determinazione adulta, perché lei distraendo appena dal suo pensare cupo lo sguardo, inaspettatamente si volta, e accorgendosi di me ancora al suo fianco, ride, ride quasi con tenerezza. Ma dura poco. «Cosa. fai ancora qui? Cosa stai sognando di compiere? Per me?! Lo faresti per me?!» si informa subito, beffarda. Quando la sento parlare così, aumentano i suoi poteri dentro di me, e come la piccola Elisa di Menzogna e sortilegio, come lei mi sento ancora più piccola e inadeguata a vivere, giacché non accetta che io faccia niente per lei. Non crede, del resto, che io possa farlo. L a mia narrazione, dunque, nata da un ritiro selvatico e un 'incapacità ad azioni e imprese grandi - decretata da lei - può solo essere un elogio di lei. Come in Menzogna e sortilegio non posso che tessere l'elogio di lei, che pure non mi vede e non mi sopporta al suo fianco. E da questa indifferenza, da questa cecità a quanto non sia la sua passione, io scrivo e racconto. E non può trattarsi che di questo: del nostro viaggio. Varie volte ho accennato a una sua apparenza mediterranea, ma le sue apparizioni sono in realtà più complesse. Ed io le annoto tutte: anche questo fa parte dei miei tile la porta d'istinto alla recita come alla sua maschera di salvezza. Certo, mi rendo conto talvolta con meschina paura che la sua eccentricità è grande. Confesso che mi volto, allora, a guardare se i passanti abbiano notato, se qualche sguardo abbia colto il passo di danza che ha voglia di accennare all'uscita da un cinema. La sua eccentricità è grande, e so bene che mio padre mal la sopporta, soprattutto dentro di me. E in quanto a quello che succede fuori, lo vedo arrancare col solito passo da povero diavolo claudicante, la cravatta dal nodo sempre a posto, i suoi eterni schemini scolastici, simili a tante piccole gabbiette di chiarezza, ch'egli semina come altrettanti scongiuri sul suo percorso. L'eccentricità di lei è grande, dicevo. Sì, è vero: io ho una precisa coscienza della sua pericolosa lontananza da ogni centro, e so che prima o poi qualcuno gliela farà pagare. Me ne rendo conto, ma non sempre ho il coraggio di starle accanto. Lorenzo Vitalone e Sahan Dinamian compiti. Mi è apparsa in varie città del Nord. A Milano aveva, ad esempio, un aspetto fragile e minuto, con capelli biondi che stavano inscurendosi prima di passare al bianco. Un paio di pantaloni chiari, da cavallerizza, e una malinconia infinita. Le è sempre difficile adattarsi al mondo, e sia che pensi, sia che fantastichi, io ne colgo sempre la piega un po' amara delle labbra. Quando poi si mette a parlare dei suoi libri, o solo di quello che ha in mente di fare, come la piccola Elisa - tale e quale - io non posso fare altro che ascoltarla. Ma non ci sarà mai un vero incontro fra noi: questa è la mia disperazione. Dovrei essere in grado di fare della magia: perché di poco lei non si accontenta e nemmeno si accorge. Per questo gliene voglio qualche volta, e il mio amore si tinge allora di risentimento. «Come» la interrogo tra me e me,- «come puoi non accorgerti che cerco di fare l'impossibile per te?» E certo non c'è mai risposta. Il nostro è un rapporto difficile, e il fatto che io continui a ricercarla non mi abitua mai a sopportarne le difficoltà. Altre volte ·-mi dico: «Non mi ama. Mi compiange soltanto. Si appassiona ai miei casi come alle stazioni dolorose di qualche Via crucis di periferia». Penso così quando ne considero la tenace capacità di riportare a sé quanto le vado svelando. Penso così, ma questo non m'impedisce di cercarla. Io che non mi trucco amo la sua immensa passione per il trucco, per il travestimento. Un gioco sotA volte penso, se tento di difendermi: «Le manca in fondo la risata allegra!» Mi sembra, allora, di leggerle negli occhi per la prima volta una consapevolezza così spietata dei rapporti di forza che indietreggio di paura e cerco di scoprirle in volto i più brutti difetti, a mia ingenua difesa. Nel frattempo, mio padre, cui nulla sfugge di tutto ciò, cerca di approfittare dei quadratini vuoti che ogni volta lasciano i miei incontri mancati con lei. Ultimamente, ha messo in atto strata- . gemmi ch'egli crede sottili, ma che prima o poi saranno la tomba di quella gloria, cui egli tiene più che a ogni altra cosa al mondo. Parla di lei in modo indegno. Cerca di costruire davanti al mondo un'immagine di sé che le si opponga, come tante piccole e buffe istantanee color seppia, che fa sc1lttare, non appena può, a ogni angolo di strada. «Vedete come sono io? Vedete come sono?» ed esibisce sconciamente come una tessera la sua arzilla vecchiaia. Dalla meticolosa litania risulterebbe una sua puntuale e ordinata grafomania da otto ore al giorno, che invece lei non ha mai conosciuta. Inoltre, lui ha sempre amato la realtà, e lei non l'ha mai amata. Lui sì, e lei no. Lui sì, e lei no. Mio padre si scava la fossa con le sue stesse mani. Ama così tanto il reale che prima o poi ci cascherà dentro. Sento che è giunto ora il momento di dirvi qualcosa che non ho ancora detto a nessuno. Indubitabili indizi mi fanno capire che lei si è uccisa. Si è uccisa qualche tempo fa, forse quando si è resa conto di non poter più andare dignitosamente avanti. Del resto, già a Siviglia, durante il mio viaggio dello scorso anno, c'era stato un terribile gesto premonitore. Una donna si era buttata dalla Giralda, da uno dei balconcini merlettati di questa torre. E non riesco più a dimenticare la voce sconvolta di un uomo, casuale spettatore, che scuotendo la testa diceva, in un caffè: «Una mujer che se tira, no es lo mismo. No quiero verta de esta manera!» Mio padre, invece, nella sua dissennatezza, continua ad accanirsi su di una larva: quella stessa larva che insegue me sotto apparenze seducenti, ossessiona mio padre e la sua meticolosa vecchiaia, sotto le apparenze di un'antica nemica da distruggere. Io non gli dico niente, perché lui non potrebbe capire. Lo lascio imbeversi dei suoi squadrati pensierini sull'ottimismo che gli compete come al piccolo victor hugo del XX secolo. Di che dovrebbe lamentarsi se tutto gli va bene? M a, per fortuna, indubitabili indizi mi fanno capire che lei si è già sottratta. La vedo scendere e risalire dall'Ottocento come da un grande viale alberato. Boul. Saint-Germain. Boul. Saint-Miche! com'era un tempo. Discende e risale, ora dall'uno ora dall'altro viale, e io sono consapevole che da lì provengono i suoi sacri furori, lo sguardo fosco, il disprezzo per la cosa, sissignori, per la cosa così com'è. Ci furono speranze che andarono deluse e si vide qualcosa che non si pqté avverare. È questa l'eroica debolezza che me la rende così cara. La vedo scendere e risalire dall'Ottocento, dicevo, come da un grande viale alberato, ma anche, secondo i giorni, come da una madre scomoda. Mi pesa allora la sua inattualità, il suo abbigliamento sempre lievemente fuori moda. Mi pesa il mantello troppo ampio, la maniera in cui oggi ha pettinati i capelli, la stessa montatura degli occhiali scuri, che indietreggiano verso un'altra epoca. Da quell'epoca a oggi la vedo, a poco a poco, duramente individuarsi nella solitudine di una grande città. Il rischio riappare davanti a noi com'era apparso all'inizio di questa confessione: senza che nessuno lo chiamasse. Ma non è la caccia grossa nella giungla africana, né la lotta col toro: nessun artificioso sostituto di grandi e pericolose imprese. Nella metropoli che è la nostra può anche essere soltanto il terribile innocuo lampione che illumina il portone di casa, e che va riaffrontato ogni sera. Confesso che mi è riapparsa l'altro giorno mentre mio padre blaterava come al solito attraverso le pagine di non so quale giornale. Io, subito, l'ho riconosciuta. Ecome avrei potuto non riconoscere la spropositata differenza tra il grande coraggio con cui ha affrontato la morte e la facilità con cui si perde subito se la chiave stenta a entrare nella toppa di casa? «È lei, è lei!» mi sono detta, «la mia cara, la mia grande disadatta!» Non c'è niente da fare, ormai lo so: come la piccola Elisa di Menzogna e sortilegio, aspetterò pazientemente ogni suo ritorno nei modi e nei tempi e nei luoghi che le piacerà di scegliere.
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