Alfabeta - anno VI - n. 62/63 - lug./ago. 1984

L a letteratura non ha un senso. Ne ha cinque, come il corpo animale. La vista. C'è, come si sa, una prima vista, che esplora la superficie del mondo fatta figura, prospettiva, colore, e una seconda vista, che insegue quell'al di là dell'immagine che nessuna geometria raccoglie e nessuna distanza definisce. Ma ogni volta è il limite che fa rimbalzare l'una e l'altra vista verso una sfida: sopportare nello stretto orizzonte della lingua l'esperienza d'una comparazione tra il solco che lampeggia negli occhi chiusi e le cosmografie stellari, tra ciò che mai è stato colpito dalla luce e ciò che mai ha conosciuto il riposo dell'ombra. Se in questa comparazione il vedere s'abbuia e più non ricorre alla lingua, è perché la lingua stessa, col naufragio del senso della vista, fa naufragio. Ma in questa sfida, che traspone le cose viste nello spazio interfore, si dispiega la notte come universo che unisce il visibile e l'invisibile. Nel suo silenzio s'apre il Libro delle Immagini, la luce lunare vela e rivela, insieme, i contorni del mondo, gli oggetti salpano dai loro porti verso metamorfosi avventurose, tra l'ombra e la sua figura s'intrecciano metamorfosi e danze. Allora il soggetto dello sguardo finisce col trovarsi in un teatro in cui s'affollano immagini che cercano un nome, forme che si disfano e ricompongono come nuvole, visioni che, abbandonando l'oblio, chiedono un ritmo e una lingua. La vista della letteratura, sia che si posi su un personaggio o insegua tra l'aprirsi dei cieli il dio del tuono, sia che s'adagi nel locus amoenus o descriva il brulicare delle città, sia che si perda in un labirinto o penetri in quel cerchio dove avvampa il bianco più bianco del bianco, facendosi ebbra di visione, ha all'origine una cecità: necessaria, mitica, assoluta. La cecità di Omero è la condizione della sapienza poetica: vichianamente è il •luogo dove lo sguardo incrociato tra la metafisica e il divino si fa figura umana, passaggio alla lingua del canto. Attraverso questo farsi ciechi al mondo opaco della ripetizione, il vedere, che è nella radice stessa della parola teoria, si trasforma in canto. La vista della letteratura ha incontrato nel suo cammino l'osservare scientifico, la microscopia, la fotografia e tutte le tecniche visive, e ne ha anche dedotto poetiche e programmi, ma è sulla stretti! complicità tra il vedere e la lingua che poggia la sua sopravvivenza. Una complicità che istituisce scarti con una lingua che non contenga il silenzio e il limite e l'indicibile come sua essenza. Appunto al margine. La letteratura ha, da sempre, come suo dizionario, il dizionario visivo della sapientia veterum, i geroglifici, gli emblemi, le insegne: ma traversando l'allegoria medioevale e quella barocca e quella moderna ha, di volta in volta, intrapreso un duello con il significato cui il dizionario rinviava, con il significato che era reciso o cancellato. II fascino della lettera, sia nell'anagramma che nel sogno, ha dichiarato l'appartenenza della letteratura, della sua vista, a un ordine non logico-discorsivo ma notturno, non esauribile nell'interpretazione ma preservato come germe di nuove scritture. L'udito. La scrittura è ascolto Il senso della letteratura / 9 • • • • C1nq"P-,fJens1 che si fa lingua: decifrazione di unafonè. La sua storia va dal canto delle pernici, che Alcmane diceva di tradurre in verso, alle «confuses paroles» del tempio baudelairiano della Natura, dall'odé, che Democrito definiva imitazione del canto dell'usignolo, alla lingua-madre, che Keats diceva d'aver appreso dall'urlo della tigre e dal ruggito del leone. Una pedagogia vocale presiede a ogni mimesi. E per restare negli emblemi, i «bisbigli del bosco» che educarono Hòlderlin al canto, insieme col leopardiano «stormir» e col rilkiano «soffio di nulla», sono le stazioni di una passione poetica, proprio nel tempo dell' «abbandono del poetico». La distanza fra il - vento e la parola degli uomini, tra «il suon di lei» e il frastuono della Shuhei Hosokawa storia, è il segno del romantico ma anche l'abisso in cui il mutismo della natura, la sua tristezza, accedono alla lingua. La musica, che porta l'universo del visibile verso ciò ch'è udibile, la musica che - come scriveva Kierkegaard - «comincia dove finisce la lingua», è, nell'intrico epistemico del sapere letterario, la seduzione che aggioga la parola. Fino a farle sognare, con la mallarmeana meditazione sulla scrittura, il libro come sinfonia, la poesia come partitura musicale. E l'ispirazione, che, dopo avere avvinto per secoli ogni riflessione sulla poesia, è oggi confinata a sopravvivente testimonianza di un orfismo mitico estraneo alla tecnica e al lavoro linguistico, che cosa è se non il passaggio - segreto, stretto, invisibile - attraverso cui l'ascolto della voce si fa parola, il «risuonare della terra» scrittura, il silenzio ritmo? (Tutto questo, certo, attiene alla poesia, ma non è uno statuto proprio della poesia, può riferirsi alla lingua della letteratura. Del resto, quella che diciamo letteratura non è l'orizzonte che comprende tutti i generi: il fatto che per definirla abbiamo bisogno di sdefinizioni, e di assidue misurazioni con altri saperi fino a dissipare, ogni volta, le sue convenzioni, ci motiva a dire di essa dicendo della poesia). L'odorato. Se la vista e l'udito sono organi propri, materiali, della letteratura, con l'odorato, il gusto, il tatto, si passa a un ordine metaforico. Ma l'astrazione non cancella la corporeità della lingua né attenua la sua analogia coi sensi dell'uomo. L'odorato dispone ogni scrittura verso l'impalpabile che si leva dalle cose, verso l'animazione delle apparenze, verso la rarefazione della lingua. Un itinerario - quello di Baudelaire - va dal profumo al ricordo all'altrove: dall'emisfero della «chevelure» al «reve, plein de voilures et de màtures», dagli angeli che, attratti dallo «charme infernal», odorano i fiori del male alle onde che rotolano immagini del cielo nella «vie antérieure». I profumi- soavi o malsani, esotici o familiari - si levano dagli oggetti senza nome e ad essi tornano riportando un nome. Un nome per il cui ritmo gli oggetti sono salvati dall'equivalenza e dall'uniformità e sono sottratti a quel nominare senza origine e senza fine che è la chiacchiera. Il profumo sospinge l'oblio verso la memoria, guida la rimembranza verso la parola. E tuttavia sospende la cosa come apparenza nel cuore stesso della parola. Complice del sapore, la sua azione è un rinvio all'altrove, è l'iscrizione dell'altrove nel qui e ora: frantumazione del tempo omogeneo, spleen, lotta con i contorni definiti del paesaggio esteriore. L'elemento dell'aria, di cui il profumo è messaggero e figura, entra nella lingua, la costituisce come respiro e dunque come ritmo, la sottopone a un movimento in cui profondità e superficie sono, tutte e due, giocate come apparenza e illusione. Il gusto. In una Sensitiva (analoga alla Logica, analoga a quella Fantastica che Novalis auspicava), il gusto è la sezione propriamente estetica: e così è stato inteso dai classici, fino a Montesquieu, autore della voce «Goiìt» nell' Encyclopédie, fino alla così impetuosamente razionalista e ormai così lontana Critica del gusto di Della Volpe. sovrapposizioni, col sapere. Dalle Nourritures terrestres di Gide alla Leçon di Barthes ha tentato un riscatto della parola dall'asservimento nominalistico e cerebrale. E mal designa questa ricerca la veste fastosa del vitalismo. Perché, anche qui, ancora con Baudelaire si può dire: «Amer savoir, celui qu'on tire du voyage!» Il tatto. La scrittura come chirografia: scrittura con la mano, sulla mano, «linea vitae», come la definiva Isidoro di Siviglia. Da questo destino raccolto in geometria, geroglifico che si nasconde alla decifrazione, muove !'-illusione di comprendere gli eventi e le forme e i nomi del mondo disponendoli nel recinto dei segni, allineandoli sul .bianco della pagina. L'impossibile su cui pensa d'agire lo scrittore non lo porta a disporre dell'irreale, ma di una realtà che si presenta come negazione delle realtà particolari. È a partire dalla loro assenza che lo scrittore compie il primo fecondo inganno: mimesi e parodia della creazione. Scrive Blanchot: «la creazione letteraria ( ... ) nutre l'illusione, quando ritorna su ogni cosa e su ogni essere, di crearli, perché li vede e li nomina a partire dal tutto, a partire dall'assenza di tutto, a partire dal nulla». Ancora, dunque: «Je dis: une fleur!» Questa appropriazione del nulla, questo toccare invece delle cose i nomi delle cose, questo brancolare nel vuoto del senso riconoscendo tuttavia le forme e sognando il levarsi d'una Forma più vera, questo chiamiamo letteratura. Lo stesso avviene di quel sottile e perverso legame dello scrivere con l'agire: alla fine, battuti i sentieri Eberhard Blum Ma, prima d'ogni declinazione estetica (dalla formazione al rapporto con la tradizione, dall'esercizio alla imitazione), esiste, del gusto, una decifrazione corporale immediata: il sapore come irruzione creaturale nella lingua, difesa dall'astrazione, aderenza del nome alla cosa, dell'esperienza alla parola. Delibare «le vin de la vie», per quanto la vita possa essere «amère au capiteuse». Contaminazione ed ebbrezza, incorporamento e memoria fatta corpo, ricordo fatto saliva. Passaggio della memoria involontaria, il sapore ha intrapreso il gioco di scarti, di opposizioni, di sui quali la parola pretende alla modificazione dei rapporti tra gli uomini, ritroviamo, ancora, il libro, o un altro libro nato dal primo libro, e sempre al di qua del Libro. Eppure, proprio nella segretezza dei passaggi che fanno la parola complice dell'azione sta la sopravvivenza della letteratura. Ogni enfatizzazione di quei passaggi conduce all'asservimento della parola, ma ogni cancellazione di quei passaggi conduce a una sacralizzazione della parola (le arcadie hanno fatto di quel sacro un gioco, e i vari sacerdozi delle lettere ne hanno fatto uno sterile culto). II «tatto» della letteratura è la sua discrezione nell'interrogarsi sul perché del mondo: distanziandosi da ogni- mondana rappresentazione dell'Essere, ma anche camminando su una superficie in cui l'abisso non è risolto e neppure nascosto, una superficie sulla quale le parole sono le scaglie che riflettono una luce senza sorgente, e la loro danza ha l'ironia del soffio di vento che scompiglia le pagine del libro. Postille 1. Cercavo di dare un ordine, e .qualche sostegno di citazioni, ad alcuni. appunti che su un mio quaderno corteggiavano, e cancellavano, la nozione di letteratura. Ora m'accorgo che la forma elencativa (sensi dell'uomo) ha trascinato i pensieri verso una riflessione sulla poesia (ma è poi vero che dicendo della poesia si dice della letteratura?) e, in particolare, su quella poesia che con maggior frequenza mi trovo a interrogare, la poesia della cosiddetta tradizione romantica e la poesia simbolista. Rileggendo, devo rimpiangere d'avere smarrito un vecchio quaderno dove, ragazzo, sul finire degli anni cinquanta, annotavo pensieri attorno alla domanda «Che cos'è la letteratura?» (tra Lukacs e Sartre)? Questa discussione sul senso della letteratura fa riandare a quelle lontane stagioni. 2. La sopravvivenza della letteratura passa attraverso le istituzioni che la preservano, trasmettono, valorizzano, disciplinano, dissipano. Ma sia nell'accademia che nel mercato, sia nella spettacolarizzazione che nel solitario esercizio d'indagine critica, il corpo della letteratura - corpo tatuato con i segni dell'epoca, delle sue utopie e delle sue ossessioni - richiede, ogni volta, una ridefinizione dei suoi statuti ma, nel contempo, denuncia l'impotenza di ogni st 9tuto a disciplinarla. Oggi più che mai il suo corpo è esposto. Ma, nel mezzo della sua dissipazione o ricomposizione ad opera di memorizzatori elettronici, ricompare il discorso sull'ispirazione. Nel momento della perdita di potere del libro, si fa insistente la meditazione sul libro. Quando la parola sperimenta il massimo di contaminazione tra generi, il massimo di assordamento babelico e di equivalenza con l'universo delle immagini artificiali, si ha uno strenuo e diffuso esercizio della poesia. Nel momento 'della riduzione del sapere letterario a sistema offerto alla formalizzazione, si apre, a ventaglio, la non-indifferenza dei nomi propri, e quell'essere-per-l'altro che è l'atto critico cerca il dire che precede il detto, la parola destituita di senso perché oltre il senso. Se un compito c'è, ancora, per la critica, è quello di leggere le metamorfosi del corpo della letteratura, disponendosi anch'essa, con i propri cinque sensi, verso un rapporto mimetico, dunque esegetico, con i testi. Se, in queste condizioni, la critica rinuncia alle sue funzioni cosiddette civili, a farsi garante della valorizzazione, a disciplinare la borsa-valori, a dividersi per schieramenti metodologici, perché allarmarsi? Chi può sopportare l'inerzia e la prosopopea e il gelo di quella che già il vecchio De Sanctis chiamava «critica a priori» o anche «critica dei professori»? Chi può sopportare il preteso disincanto di una critica che non sia, anche, scrittura?

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