Alfabeta - anno VI - n. 62/63 - lug./ago. 1984

Teatro, - I Sergio Colomba La scena del dispiacere Ravenna, Longo, 1984 pp. 227, lire 20.000 Georges Banu Le théatre, sorties de sécours Paris, Aubier, 1984 pp. 222, ff 72 Bonnie Marranca Theatrewritings New York, Performing Art_s Journal Publications, 1984 pp. 205, $ 8,95 T re critici teatrali dell'ultima generazione e di paesi diversi hanno consegnato alle stampe nello stesso momento dei volumi di riflessioni sul presente e sul futuro del teatro. Diverse sono le esperienze culturali e professionali che fanno da sfondo, ma Sergio Colomba, Georges Banu e Bonnie Marranca hanno cominciato a occuparsi di teatro a cavallo tra il '60 e il '70, in una fase di profondi rinnovamenti, prendendo parte spesso a esaltanti avventure, non solo estetiche, mentre ora devono constatare una caduta di investimenti e di fermenti innovativi, una ghettizzazione dei generi, una divaricazione sempre più netta fra teatro commerciale, assistito e di ricerca, nel quadro di una diminuzione generalizzata del pubblico. Colomba intesta i paragrafi del suo La scena·del dispiacere ai grandi protagonisti del teatro italiano, registi, mattatori o gruppi, salvandone pochissimi. Da Strehler a Zeffirelli a Squarzina a Missiroli a Patroni Griffi a Ronconi, l'autore fa giustizia, non sommaria, di progettualità senza autentico coraggio culturale e svela gli esiti infelici delle operazioni che sono invece generalmente difese dai suoi colleghi. Né si salvano i gruppi: da Nuova Scena alla Compagnia del Collettivo, dal Gruppo della Rocca a Falso Movimento, Colomba denuncia la degenerazione delle promesse iniziali, soprattutto del movimento cooperativo, e lo scivolamento in una nuova mediocrità che potrebbe risospingerli in una sottocultura di provincia, neanche rappresentativa di domande culturali emergenti. Si registra qualche omissione, sia tra i personaggi affermati (Sepe, Parenti, Guicciardini ... ) che tra i nuovi gruppi (Gaia Scienza, Teatro Valdoca, Santagata & Morganti ... ). Ma soprattutto non mancano i soggetti investiti di positiva attenzione e di speranza: da De Berardinis a Castri ai Magazzini Criminali, da Cecchi a Marcucci a Trionfo e Cobelli. Un capitolo importante è dedicato ai tre grandi, Eduardo, Fo e Bene, accomunati dall'essere attori-autori, ovvero ognuno a modo suo esempio di un'operatività che Colomba sembra privilegiare come via d'uscita dall'impasse attuale. Il libro è importante non tanto per la possibile concordanza di giudizi con l'autore, quanto per il sincero disincanto che viene dispiegato e per la capacità di cogliere il nesso tra le politiche e le ideologie da una parte e i risultati culturali dall'altra, mettendo sotto accusa il meccanismo e non soltanto, come di solito avviene, le sue vittime o i suoi complici. Disincantato ma non pessimista, Colomba suggerisce che la fine degli anni ottanta vedrà una specie di resa dei conti: la caduta delle protezioni e degli alibi ideologici, a favore di una dimensione più piccola del teatro nel suo complesso e nettamente differenziante i generi di intrattenimento (sempre più sincroni col modello ·televisivo) e quelli teatrali veri e propri, che sono tutti da reinventare ma per cui esistono già buone lavorazioni. G eorges Banu intende fare i conti col quindicennio trascorso da quando, intellettuale emigrante dalla Romania, è arrivato in Occidente a occuparsi professionalmente di teatro. I saggi che compongono il volume sono aggregati per blocchi tematici. Il teatro occidentale è visto come luogo :disincretismi, a volte vitali e rinnovatori, a volte degenerativi; mentre i teatri dell'Est continuano a essere luoghi di regole mortali e di folgoranti eccezioni, con un pubblico comunque profondamente diverso dal nostro, attento a cogliere nel discorso delle forme tutto ciò che non può essere detto. Questi anni di passaggio sono visti in un teatro di frammenti, ma il processo - dice Banu - è iniziato già nel secolo scorso, quando dominavano visioni totalizzanti dell'arte, e dunque sono molte le avanguardie a cui si può fare riferimento. Anche un nuovo «umanesimo teatrale» non potrà prescindere dall'irriducibile criticismo di Sade, di Artaud, di Biichner, di Genet, e nello stesso tempo terrà conto di alcuni saperi tradizionali, per esempio delle tecniche per fare, per vedere e per farsi vedere dei teatri orientali. In questa prospettiva sono proposti i lavori di Grotowski, di Brook, di Kazuo Oono, come modi di un sincretismo già operante; e si attira l'attenzione su quelle esperienze teatrali, sia del fronte analitico concettuale occidentale che di quello sintetico intuitivo orientale, già «risolte» e aperte a sviluppi. I gruppi, le creature teatrali del '68, sono letti nella parabola che oggi vede la maggior parte dei sopravvissuti ridotti a essere un semplice aggiornamento (estensione e decentramento) di un teatro piccolo-borghese metropolitano. E s, individuano anche persone e lavorazioni forse poco note (attori, registi, autori e organizzatori e studiosi) che invece hanno saputo raccogliere la parte attuale di quello slancio utopico. Bonnie Marranca raccoglie in volume alcuni dei suoi ultimi saggi, con aggiornamenti e aggiunta di inediti. La prima sezione è dedicata ad alcuni protagonisti della drammaturgia contemporanea: Shepard, Breuer, Handke, e a un ripensamento su Lilian Hellman. Per quanto riguarda una nuova possibilità di scrittura teatrale si indica invece Maria Irene Fornes, che è anche regista dei propri lavori. Anche quello della Fornes è un teatro di personaggi e di frammenti, che si apparenta per atmosfera alle creazioni di Chaikin e della Monk, dove la profondità del discorso è giocata in un'apparenza leggera, semplice, in un affinamento interpretativo. Con la Fornes la tradizione del realismo americano perde la pretesa di rotondità appagante del dramma e si ha - • tt1toe 111ercoa Antonio Attisani piuttosto scrittura tragica, affine casomai alla ricerca di autori europei come il tardo Bond, o Wenzel, Vinaver, Kroetz. Il «teatro delle immagini» degli anni settanta viene ricondotto alla sua misura di genere contingente e rispondente alla personalità dei suoi esponenti di punta: la Monk, i Mabou Mines, il Wooster Group, lo Squat, Wilson, Foreman. Di essi la Marranca segue il percorso evolutivo, e le cadute quando ci sono, ma è attenta a evocare il fondo etico e le tensioni poetiche Juan Hidalgo che il successo rischia di cancellare in una patinatura indistinta. Così questi personaggi, non più modelli del nuovo teatro ma singoli e solitari poeti della scena, ridiventano scrittura di un'epoca di passaggio, e i loro rapporti con gli altri media e le altre arti vengono riletti al di là delle mode. Sia Banu che la Marranca concludono con Cechov. I testi del drammaturgo russo si sono riproposti all'attenzione per le messe in scena recenti di registi come Stein, Strehler, Pintilié, Krejca e Griiber, di cui s'è parlato in tutto il mondo; e altre, meno note ma non meno importanti, come quelle di Cecchi in Italia e dello Squat Theatre in Ungheria e poi nell'esilio americano. Si tratta di un Cechov riscoperto, liberato da un intimismo spesso di maniera, dal «gozzanismo» che esso stesso sembra suggerire. È noto che Cechov avrebbe voluto scrivere delle farse e non approvava completamente la messa in scena stanislavskiana dei suoi testi. L'idea emerge chiaramente dalle lettere, e sono proprio esse il documento privilegiato da Banu e Corrado Costa Marranca. I due critici propongono gli allestimenti più recenti non come un punto d'arrivo, ma come indicazione per una possibile drammaturgia del contemporaneo, per una scrittura d'attori e frammenti di personaggi sganciata da ipoteche ideologiche e mossa piuttosto dall'indagine antropologica di una mutazione affiorante nel comportamento e nel linguaggio. Un Cechov ripensato magari con Gertrude Stein, soprattutto nel caso americano, e che già ispira nuovi approcci stilistici ad autori e registi, ben al di là delle sue opere. Leggiamo per esempio nelle Note agli attori di Shepard: «Invece di pensare a un personaggio 'a tutto tondo' in cui l'attore dovrebbe immergersi, egli dovrebbe considerarsi un tutto in frammenti i cui segnali e parti di personaggio si staccano dal tema centrale. In altre parole, l'attore 9ovrebbe lavorare più in termin( di collage o improvvisazione jazz». La rilettura di Cechov sembra insomma il segno di un affioramento, il punto d'appoggio d'una visione che la Marranca proietta sulla Fornes e su Shepard come sullo stesso Pirandello. I n una situazione talmente fluida, buon senso vorrebbe il limitarsi a una rilevazione dei sintomi, l'astenersi dalle previsioni e dal giudizio. Ma se si intende anche la scrittura sul teatro come un lavoro d'arte, non si può fare a meno di partecipare, di innestare sull'analisi delle tendenze una misura di desiderio e una proiezione di possibilità. I tre autori in questione forse potrebbero sottoscrivere le osservazioni che seguono. Si era registrata ovunque una crescita quantitativa della produzione e del pubblico teatrale, nettissima a partire dagli anni sessanta e ancora incontrastata alla fine dei settanta; poi, lentamente e in modo non lineare, la situazione comincia a cambiare. Gli addetti ai lavori non hanno saputo interpretare i sensi molteplici della prima fase e anche ora mostrano un certo smarrimento. In Italia diversi sono i fattori che hanno determinato un aumento della frequenza teatrale nel decennio scorso. Ha giocato dapprima una usura di altri media come il cinema e la tv, che ha favorito soprattutto il teatro più tradizionale, ma molto importanti sono state le conseguenze culturali del '68, favorendo una convocazione a teatro sia per confronto con un messaggio che si poteva elaborare quasi solo in quella forma, sia proprio per una necessità di convenire, magari per rispecchiarsi più che per confrontarsi. Al 1971, poi, data la.costituzione delle Regioni e da lì prende avvio una nuova fase della spesa culturale pubblica. Non solo per l'intervento diretto degli enti locali, ma per un'attenzione crescente degli apparati nei confronti del tempo libero e delle forme di aggregazione, attenzione che si manifesterà in flussi di sovvenzioni caotiche e non rilevate statisticamente, ma comunque di entità tale da rendere il teatro italiano uno dei più propulsivi del mondo, in termini di sviluppo produttivo e anche di articolazione della ricerca. Ancora oggi c'è chi sostiene che la dimensione sociale del teatro dipenda essenzialmente dall'investimento dei suoi protettori istituzionali, e dunque che anche la sua crisi attuale dovrebbe essere superata con una ripresa in tal senso. È vero che talune politiche hanno favorito la crescita del teatro: era il momento in cui si favoleggiava del teatro come «servizio pubblico» o addirittura come ((servizio sociale». Questa ideologia e questa politica hanno trovato un pubblico, ma non hanno creato nuovi spettatori; il successo è stato momentaneo. Così, nelle grandi città prima che altrove, orde di insegnanti ed esponenti dei nuovi ceti medi intellettualizzati hanno battezzato il loro status con una frequentazione teatrale, salvo poi tornare ad altre forme di svago non solo per delusione nei confronti degli spettacoli, quanto per avere assolto una sorta di rito di passaggio. Se la diserzione di pubblico riguardasse solo alcuni generi, magari i più recenti, avrebbe ragione chi reclama una punizione per chi ha osato fare teatro senza adottare gli attributi canonici. Ma la ritirata è generale e le cifre la esprimono solo in parte, non dicendone le diverse ragioni. C'è stata inflazione di teatro, superfetazione della domanda e dell'offerta indotte da motivi contingenti che prescindevano dal merito del nostro nonmedium, soprattutto considerando la sua ristretta specialità culturale e la sua miniaturizzazione nel mutato panorama mediologico. Il teatro più giovane e di ricerca è stato in buona misura fatto e consumato da una nuova specie, da nuovi soggetti sociali che ora in quel protoplasma si sono aggregati in vari nuclei, o dispersi. Il teatro tradizionale ha dapprima usufruito della crisi di altre forme e poi di un'alleanza, linguistica prima che produttiva, con le tv. Ma poi molti neospettatori hanno scoperto il non senso di uscire di casa e pagare una poltrona per vedere attori già videonoti in un'esibizione solo più confusa; quindi viene a cadere la surdimensione del pubblico, l'offerta si rivela in eccesso, la concorrenza si accentua e la selezione non sempre avviene al meglio a causa dei meccanismi protezionistici gestiti dai vertici della burocrazia e della stampa. Resta dunque il lavoro da fare sulla nuova situazione di minorità del teatro e, non secondario, sulla tendenza a una precisazione di diversi generi e funzioni. Se ci fossero in gioco idee e non interessi, sarebbe semplice: basterebbe riconoscere le cose come stanno e misurare su di esse delle politiche di ~ sovvenzione, distribuzione e strut- C3 -5 tura. Non si dovrebbe privilegiare ~ questo o quel genere, pur incenti- ~ vando a una verifica in diverse zo- 00 ne del mercato (poiché il mercato -.. <:) teatrale è particolare: alcuni spet- ;;; tacoli sono fallimentari se non eo riempiono completamente una ~ ·- grande sala, mentre altri hanno cò -2:! senso e successo in una piccola). Ma il gioco degli interessi ritar- ~ da un'apertura del dibattito e del ~ mercato e la categoria tenta di esorcizzare la necessità dolorosa di !::! ~ una ristrutturazione con un implicito ((si salvi chi può». .Q C3

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