L'uso corona. La cultura dei grandi pentiti è pluralista, tanto più caleidoscopica quanto più, come oggi avviene, in crisi. Ce n'è d'ogni tipo: tecnologici, troppo umani, talvolta ostili ai «teoremi» per cui sono stati adoperati. E poi: semplici consulenti, puntigliosi sindacalisti della propria corporazione, altezzosi moralisti. Il capostipite, come si sa, è latitante, o, se si preferisce, pensionato. In tanta varietà, tuttavia, restano decisivi alcuni tratti comuni. Il più notevole è che i grandi pentiti esprimono un punto di vista universale, l'unica sintesi ammessa fra storia politica diritto morale. È un mirabile circolo virtuoso: da un lato, l'aver mosso certe accuse specifiche li autorizza a fornire interoperoso». Per bocca dei pentiti, ritrova voce per un momento la totalità. Di conseguenza ogni testimone a discarico, costretto a rimanere nell'ambito angusto delle circostanze di fatto, viene inesorabilmente ridicolizzato. S i potrebbe continuare a lungo. Ma la questione che mette conto affrontare non è quella dei pochi e notissimi «grandi pentiti». Ci fossero stati solo loro, nessuna meraviglia sarebbe consentita. Il punto dolente sono le centinaia e centinaia di pentiti senza qualità, anonimi, che hanno dato al fenomeno l'oggettività e il peso di un comportamento sociale. Se, per dirla provocatoriamente, il pentimento sembra essere ·una componente dell'identità cuitanta: la critica della politica. La radice non sta nelle derive, negli avvitamenti, negli autismi guerreschi. Sarebbe consolante pensarlo: infatti, se si imputa l'asservimento impettito del delatore unicamente al precedente deliquio terrorista, basterà allontanarsi, o essersi tenuti lontani, da quest'ultimo per sbarazzarsi una volta per sempre del primo. Ma non è così. La radice sta, anche se è sgradevole riconoscerlo, nella purezza d'intenti che ha guidato la critica della delega e della rappresentanza, della forma-partito e dei progetti generali, delle identità rigide e della sottomissione del presente al futuro. Quella purezza amorevole ha avuto anche questo esito paradossale, questa filiazione orribile, non già perché fosse tarata tà, vita quotidiana sottratta all'in- •sensatezza, comunicazione ricca. Non durò a lungo. A rompere il plesso che univa socializzazione e politica provvide, fra l'altro, la stessa riconversione produttiva che segnò lo spartiacque degli anni settanta. Da essa emersero, come protagonisti della produzione sociale e delle lotte, nuovi settori di forza lavoro, precari e indigenti quanto si vuole, ma non più esclusi dalla rete dei poteri e dei saperi. Scolarizzati, immessi in flussi comunicativi non marginali, capaci di maneggiare tecnologie, nomadi fra occupazioni diverse, inseriti in comunità concrete, col gusto della minoranza, diffidenti nei confronti di ogni finalismo, attenti solo a dar forma al proprio presente: furono costo11 «pentimento» come fenomeno di massa resta l'enigma di questi anni. Di ogni sbandamento e deriva, e perfino di certe atrocità, si può rendere ragione. E infatti la si è cominciata a rendere. Ma il «pentimento» sembra qualcosa di troppo ovvio o di troppo misterioso per richiedere una specifica disamina. Troppo ovvio, se si pone l'accento sull'interesse privato, cioè gli sconti di pena, che presumibilmente muove i pentiti. Troppo misterioso, se ci si volge aJl'ineffabile travaglio delle coscienze, alle requisitorie e alle arringhe che si susseguono nel foro interiore. L'enigma in questione, quindi, perché protetto da troppe evidenze o perché pudicamente sottratto all'indagine razionale, finisce col restare ai margini di ogni ricostruzione degli anni settanta, come pure delle scorribande teoriche sulla nuova forma del conflitto sociale. """"'=--,,----------------------.,---------, ro a tessere materialmente la critiUna simile omissione a noi pare un errore imperdonabile. Siamo convinti, infatti, che il «pentimento» sia il risvolto- nega_tivo,certo, ma non per questo meno pertinente - di tutte le modificazioni dell'idea di politica intervenute nel corso dell'ultimo decennio. Detto altrimenti, riteniamo che fra il calcolo opportunista e l'intimità del dialogo dell'anima con se stessa vi sia uno spazio vuoto, da riempire con un'articolata riflessione sull'ethos che ha caratterizzato i movimenti di lotta. Solo questo terreno intermedio, su cui poggiare finalmente i piedi, permette, forse, di spiegare e superare. Se invece si tirasse via, assumendo il pentimento come una parentesi terribile ma senza strascichi, ci si comporterebbe da mediocri imbonitori. Crediamo che saprà dire qualcosa di sensato sui modi d'essere dei nuovi movimenti soltanto chi, oltre al resto, si sforzerà di comprendere in radice il pentitismo, e poi di riassorbirlo. Le brevi osservazioni che seguono aspirano unicamente a radicalizzare il problema. Affinché non suoni più pleonastica, ma bruciante e irrinunciabile, la semplice domanda: perché i pentiti? L e alterazioni, che l'uso dei pentiti ha provocato nel processo penale, sono note e ormai ampiamente dibattute, né sta a noi insistervi. Oltretutto, giacché a scrivere sono dei detenuti, parrebbe uno scontato lamento. In- ~endiamoci: non è affatto detto che un lamento scontato non possa essere fondatissimo. Ma, msomma, meglio far conto su una certa divisione dei ruoli: per una volta lasciamo che altri, meno coinvolti, s'indignino e protestino ~ per gli effetti di questa apparec- ~ chiatura bellica, spesso degenerata .s ~ al punto che la parola del pentito, ~ da «mezzo di ricerca della prova», ~ come inizialmente previsto, è di- -. venuta senz'altro «mezzo di prog va» in sé esauriente. ~ Per parte nostra, prim'ancora di :§ iniziare a ragionare sul quesito eti- } co-politico che l'esistenza dei pentiti propone, vorremmo rendere ~ incidentale testimonianza sul loro ~ conto. Delle loro esitazioni e sicus:: rezze, dei loro umori e valori, abg biamo fatto esperienza diretta nelle l Corti d'assise. Possiamo dunque ~ testimoniare sui testimoni della pretazioni definitive del contesto sociale e della globalità dei nessi politico-culturali; dall'altro, la ricostruzione generale, entro cui i singoli fatti sono inseriti come tasselli, certifica in modo inappellabile proprio la veridicità di questi ultimi. C'è una legittimazione reciproca e incessante fra filosofia della storia e resoconti empirici. In un recente dibattimento in Assise, Sandalo ha una frase rivelatrice: «Mi scusi, presidente, ma ora non ricordo con esattezza i miei verbali. Perché, vede, è un po' di tempo che non mi occupo più di politica... » È curioso osservare, dall'interno di una «gabbia», questa immediata fusione di politica e storiografia e diritto: la ripartizione funzionale delle competenze, tante volte invocata contro le spiegazioni difensive degli imputati, viene eccezionalmente sacrificata alla produzione di un 'senso' universale, che solo il pentito può garantire. I grandi pentiti, d'altronde, possono adempiere questa funzione, che li fa più poteìrti degli stessi giudici, perché, avendo in passato commesso crimini gravissimi, si presentano ora come portavoce di alcuni valori morali assoluti. pi questi tempi, se si vuol sentire parlare dell'Uomo e della Vita, bisogna ascoltare un «ravveduto Amelia Rosse/li turale di certi settori giovanili all'inizio degli anni ottanta, non si potrà censirlo sotto la voce «tradimento». Bisognerà piuttosto supporre qualche genere di continuità con i comportamenti passati dei medesimi soggetti. Una prima ipotesi: la delazione è la prosecuzione con altri mezzi di una prassi e di una cultura militariste, attente solo al rapporto di forza e all'efficienza operativa. Forse c'è qualcosa di vero, ma non è spiegazione che possa soddisfare. Perché mai il «combattente», cui sicuramente non sono mancate motivazioni politico-sociali, dovrebbe avere un'originaria vocazione a collaborare? Al più, è ipotizzabile che si «arrenda». Inoltre, in parte notevole, i pentiti piccoli e minimi non provengono da storie di rigida clandestinità, ma sono sbalzati fuori da un passato di movimento, da una dimensione di massa. È difficile pensare, quindi, che essi proseguano, questa volta come agenti attivi dell'ordine costituito, una propensione militarista da soldatini di piombo, che in realtà non è mai stata loro. Se si vuole ricercare qualche nesso fra i pentiti e il loro passato politico, occorrerà andare· più a fondo. A noi pare che il pentitismo diffuso abbia avuto il proprio terreno di coltura in una delle tematiche più ricche e positive degli anni setall'origine, destinata comunque alla catastrofe, ma perché, più determinatamente, non fu abbastanza radicale, restando solo alla superficie dei problemi che pure aveva evocato. La critica della politica fu vissuta come un idillico finis terrae, non come il punto d'avvio di un cammino duro e accidentato, terragno e complesso. In questo senso - per chiarezza: solo in questo senso - essa ha generato un «doppio» agghiacciante, il pentimento. Spiegare questo «doppio» significa ripensare con serietà temi, che sono stati comuni anche a chi nella lotta armata non ci ha messo mai le mani, perfino a settori della sinistra storica. Temi, peraltro, a quel che si capisce da quaggiù, assolutamente essenziali nella vita, catacombale o solatìa poco importa, dei nuovi movimenti di questi anni ottanta. D urante il ciclo di lotta '68- '73, la politica rappresentò la forma di socializzazione e il sistema di valori alternativi alla fabbrica e al lavoro salariato. Ebbe, per così dire, un'indubbia consistenza etica. Avendo smesso il lavoro di essere il terreno naturale della produzione e dell'emancipazione, la poli.ticagarantì lo scheletro di una nuova totalità: fu comunità universale, libera produttivica della politica e del suo connaturato universalismo. Quando si scorge a occhio nudo che la capacità di trasformazione dei movimenti è tanto maggiore, quanto più si ha qualcosa da perdere oltre le famose «catene», allora la politica, come già prima la fabbrica, diviene situazione eticamente inerte. Al centro della propria prassi, allora, non c'è più lo Stato e la questione di una sua gestione alternativa, ma la sperimentazione diretta di nuovi rapporti sociali, l'affermazione in positivo di un'autonoma potenza produttiva, l'interesse a una vita quotidiana non completamente deturpata. Ma fin qui la critica della politica è ancora idillio. Il dramma, quello duro e ancora inconcluso, consiste riei modi in cui essa si dipanò. In breve: la critica della politica si manifestò praticamente come semplificazione estrema della stessa. Nei tardi anni settanta, per un concorso di cause qui nemmeno citabili, non si ebbe l'abbozzo di nuovi modelli di gestione del conflitto, bensì lo scorporo sistematico di quello che fino ad allora era stato il paradigma unitario dell'agire collettivo, e cioè la politica con le sue ragioni universali e i suoi vincoli finalistici. Ogni parte della politica è stata contrapposta alle altre parti, e soprattutto all'interno. Ogni singolo ruolo, o funzione, o comportamento, è divenuto un'identità a sé stante. Lo stesso proliferare dei militarismi all'interno delle lotte può essere inteso, assai spesso, come critica dei progetti globali e delle aspirazioni sintetiche della politica: più che programma a programma, veniva dpposto un immediato modo d'essere alla pretesa di ricomporre e mediare e differire e finalizzare. Ma, ed è questo il punto cruciale, la rivendicazione di una particolarità e di un'immediatezza si esplicitava riproducendo su piccola scala e in modo iperlineare quegli stessi moduli dell'agire politico di cui ci si voleva sbarazzare. Alla fine degli anni settanta, -la critica della politica è stata, poveramente, una politica semplice. Ef qui che_s'innerva il pentitismo. E ancora politica semplice, ad esempio, la spiegazione che della propria scelta ha fornito Savasta, in un'aula di giustizia: «per restituire campo libero alle lotte sociali, io, Savasta, ho deciso di distruggere l'escreI
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