Alfabeta - anno VI - n. 62/63 - lug./ago. 1984

•contingente, a frantumare il vissuto in momenti d'essere, e che tende a rimanere io ombra nel pensiero dell'abbandono e nel pensiero debole. E cioè il rischio dello sprofondamento nell'afasia, nel mutismo, nel nulla. In altre parole: se non è praticabile un'esperienza come vita che fluisce continua, se è tramontata la possibilità di dare unità e continuità all'esistenza, se appare impratie <<gran Riceviamo dalla direzione editoriale Einaudi il seguente intervento. u Alfabeta n. 60 (maggio 1984) ben tre articoli affrontano, sotto scorci diversi e con diverse motivazioni, la crisi della Casa editrice Einaudi. Senza entrare nel merito di ciò che scrivono F. Leonetti e G. Sassi, pensiamo che qualche precisazione possa essere utile a proposito di quello che scrive Omar Calabrese. La pubblicazione del volume Dal Medioevo al Quattrocento, che completa la Storia dell'arte italiana Einaudi, e di Produzione e consumo, secondo volume della Letteratura italiana Einaudi, gli offrono il destro di parlare in generale delle «grandi opere» da noi edite. Fatti ampi riconoscimenti al valore dei due volumi, che raccolgono «materiali quasi sempre pregevolissimi», Calabrese conclude però in modo perentorio con la condanna di queste imprese. Le motivazioni sono piuttosto sorprendenti: queste «grandi opere» sono «di tendenza», perciò non sono «utilitarie», e invece esercitano «un dominio sul mercato (... ) da parte di gruppi su altri gruppi», che non troverebbero più spazio per esprimersi. meno riuscita: meritava forse di essere discussa per quello che è. D'altra parte, il problema delle «grandi opere» non può restare circoscritto alla nostra attività editoriale, se quello che si intende stabilire è un principio di comportamento. E poiché non sospettiamo Calabrese di ambire a un costituendo ministero della Cultura, dotato di decisionismo dittatoriale, c'è solo da pensare che egli suggerisca agli editori una sorta di gentlemen agreement perché in futuro si guardino dal lanciarsi in simili imprese. O meglio, facciano pure: fabbrichino grandi manuali, compilino dizionari enciclopedici, confezionino insomma «grandi opere», a patto che queste siano rispettose di una loro «stratificata definizione» che le vorrebbe asettiche, onnicomprensive ed eclettiche, per salvare quella che viene detta una tradizione «istituzionalizzata» da «due secoli di editoria». cabile un sistema puro e continuo dell'esperienza (come credeva ancora il giovane Benjamin), è allora forse inevitabile confrontarsi con lo «spezzettamento» dell'esistenza. Possiamo quindi parlare di «microfisica della normalità» come di ciò che trasforma i parametri temporali: i tempi della comprensione «sono altri, non lineari, non singolari, non omogenei, eppure sensati, gli unici a esserlo, si potrebbe dire» (Rovatti, Il pensiero debole, pp. 35-36). i opere>E>inau - I possano modificarsi (in che modo, però, non viene detto), egli lo accetta; che quei «generi» abbiano corrisposto a visioni del mondo particolari e dunque siano state anch'esse «di tendenza», non pare invece sospettarlo. Eppure basta riprendere in mano la Storia d' Italia scritta da una società di professori per rendersi conto che anche quella «grande opera» di carattere manualistico e sistematico comportava degli esclusi e rispondeva a un progetto animato da una ben definita tendenza, solo che si abbia qualche dimestichezza con la cultura italiana di quegli anni e non si presti ciecamente fede al mito positivistico dell'oggettività della scienza. Del resto, Calabrese stesso, discutendo la nostra Storia dell'arte, afferma che «ormai la 'storia dell'arte' ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere una disciplina che 'descrive' uno sviluppo lineare e continuo di teorie e oggetti univo- «sparire dalla circolazione, in un tempo inferiore a quello che occorre per leggerlo», il libro di «media economicità», abbia operato così distruttivamente da far perdere di vista la massa cospicua di volumi che trattano di quei problemi di metodo. In ogni modo, siamo pronti a fare ammenda onorevole e a procurare a Calabrese gli strumenti bibliografici essenziali, a cominciare dal saggio di Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, che gli spiegherà perché la Storia di Asor Rosa si è «complicata di una 'geografia'». Quanto poi a quella sorta di legge di Gresham, per cui fare «grandi opere» rallenterebbe «ancora di più la già lenta produzione di cultura», non ci sembra davvero che in questi ultimi dieci anni l'editoria italiana abbia prodotto meno o gli studiosi italiani abbiano dato prova di minor laboriosità. Per quel che riguarda l'Einaudi, possiamo solo assicurare che nessun titolo di orizzonti, si operasse a beneficio generale del pubblico. Le nostre «grandi opere» saranno forse «di tendenza», ma certo non sono il prodotto di chiesuole, di consorterie, di angusti orti elitari. Ma vorremmo anche sapere che cosa significherebbe poi questa «tendenza»: a cominciare dall'archetipo, la Storia d'Italia, chi saprà spiegarci quale univoca «tendenza» unisce Braudel e Venturi, Sereni, Jones e Gambi, Ragionieri, Galasso, Castronovo e Carlo Ginzburg? Pensiamo invece di avere offerto, in un disegno generale di vasto interesse oggettivo, i risultati più nuovi del lavoro storiografico in termini largamente accessibili. E questo in anni in cui, da tante parti, ci si stracciava le vesti per la dequalificazione della scuola italiana, il basso livello dei nostri studi, la perdita di conoscenze specifiche. L'editore, facendosi in tal modo committente, si è forse sostituito a istituzioni che, per varie ragioni, non erano sempre in grado di assolvere la loro funzione di organizzazione della cultura. Ma questo sarebbe un demerito? Siamo convinti che essere riusci· ti a diffondere opere di quel livello a decine di migliaia di copie sia in buona parte dovuto al fatto che il pubblico ha capito lo stretto nesso esistente fra quelle «grandi opere» e un catalogo che da cinquant'anni a questa parte ha in qualche misura contribuito alla cultura italiana. E crediamo che anche queste nostre iniziative abbiano dato a essa un apporto positivo se, pur avvalendosi del concorso di studiosi stranieri, sono rimaste iniziative peculiari e originali, che hanno mostrato, contro tanto pessimismo provinciale, l'alto potenziale intellettuale del nostro paese, capace di confrontarsi a pieno titolo con la grande cultura internazionale. Francamente ci saremmo aspettati da parte di chi, come Calabrese, è pur responsabile in proprio di altre «grandi opere», una critica che muovesse da criteri più pragmatici e meno ispirati a ragioni ideologiche. Certo, è giusto formulare un giudizio generale sull'editoria, le sue funzioni, i suoi destini, ma non sarebbe stato superfluo qualche chiarimento sull'asserita impossibilità di utilizzare praticamente questi strumenti culturali; tanto più che un'ormai lunga esperienza ci ha mostrato che il mondo della scuola, e non solo l'u- , niversità, ha saputo largamente fruire, fin dalla Storia d'Italia Einaudi, di queste nostre pubblicazioni. Cesare Viviani, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Giovanni Raboni, Antonio Porta E poiché pensiamo che le nostre «grandi opere» nascano da un humus che Giulio Einaudi cominciò a costruire mezzo secolo fa, delle due l'una: o queste «grandi opere», nel ripensare quell'esperienza cinquantennale, hanno fallito, ma allora c'era una debolezza originaria che condanna anche il nostro catalogo e la sua presunzione di dare origine a queste mostruosità, o, se così non fosse - e questo anche nell'ambito utilitario, operativo - , forse sono le meccaniche di lettura di Omar Calabrese che richiedono qualche ripensamento. Per attenerci al caso della Storia dell'arte italiana, non crediamo che l'accostamento di ampi saggi di profilo temporale, geografico o produttivo a studi di minuto riscontro su gruppi di opere o su trame iconografiche lasci adito a equivoci su quello che è stato il nostro proposito: che non era evidentemente di collezionare scritti di varia umanità, risparmiando sul numero delle copertine, bensì di mostrare la necessità di leggere a più piani, con verifiche sul campo e raffronti testuali, le grandi problematiche e i temi di storia universale. L'operazione sarà più o All'amico einaudiano Accetto completamente la legittimità della diversa opinione degli amici della direzione editoriale Einaudi. Ribadisco, però, il mio diverso parere, suffragato dal fatto che le loro controdeduzioni riguardo al mio pezzo non sono del tutto esatte. O per lo meno non lo sono rispetto al mio pensiero (sono disposto in questo caso a critiche sulla sua chiarezza). Primo: non ho detto che tutte le «grandi opere» einaudiane siano frammentarie e di tendenza. Lo ho È vero: in principio ci fu un errore. L' Encyclopédie di Diderot e D' Alembert, riconosce Calabrese, aveva già quei difetti. Se n'erano accorti anche i reverendi padri del Journal de Trévoux quando, nel recensire quella «grande opera», l'accusarono appunto di essere poco «utilitaria». Come si fa, in un'enciclopedia degna di questo nome, a dedicare poche righe alle Alpi e tanto spazio agli ebrei? Poi, per fortuna, ci si corresse: nei due secoli successivi le «grandi opere» sarebbero diventate - sostiene Calabrese - ciò che egli propugna. Che «generi istituzionalizzati» sostenuto per la Storia dell'arte italiana e per la Storia della letteratura, indicando nella non-linearità della prima una contraddizione con l'aspetto commerciale delle «grandi opere», e nella tendenzialità della seconda un fattore di disturbo per il suo carattere enciclopedico. Ribadisco, come gli amici einaudiani hanno per altro rilevato, che questi due caratterinon inficiano la qualità delle opere medesime. Mi si fa rilevare che anche io sono curatore di «grandi opere» frammentarie e di tendenza (accencamente definiti». E allora, perché la nostra opera non dovrebbe riflettere «esigenze e funzioni determinate dalla società stessa, dalla sua organizzazione della cultura», requisito primario riconosciuto da Calabrese per le «grandi opere»? Ed esiste oggi una disciplina storica, o anche solo una sua qualche diramazione o sezione, che si prefigga di descrivere «uno sviluppo lineare e continuo» ecc. ecc.? Non possiamo credere che il malthusianesimo editoriale deplorato da Calabrese, per cui le «grandi opere» avrebbero fatto no all'Italia Moderna dell'Electa). Vero: ma l'Electa non ha lanciato direttamente sul mercato i quattro volumi dell'opera suddetta; prima ne sta curando una edizione sponsorizzata da una grande banca nazionale. Secondo: accetto pienamente l'idea che i generi dei libri possano e debbano essere cambiati se si fa opera di cultura; accetto un po' meno quella di arrischiare il mutamento senza aver analizzato fino in fondo la natura economica dei generi esistenti. valore è stato in qualche modo sacrificato (con ritardi nella pubblicazione, senza nemmeno pensare a mancato accoglimento di libri per questo motivo) all'edizione di «grandi opere». Tutto ciò può aver provocato forse intasamento nel mercato, e sarà da vedere il da farsi: ma intasamento non è frutto di sottoproduzione. Noi ci siamo mossi nella convinzione che la cultura alimenta la cultura, che promuovendo pubblicazioni non di scienza precotta e predigerita in compilazioni cosiddette divulgative, ma ispirate a pluralità di fini, di esperienze, di Terzo: ho sostenuto che le «grandi opere» hanno rallentato la produzione di titoli individuali della Casa editrice, e che hanno contribuito allasaturazione finanziaria dei budget dei librai, producendo effetti collateralinegativi sull'intero assettoproduttivo delle Case editrici, soprattutto piccole. Mi si dice che non è vero. Ne prendo atto, ma continuo a pensarla come prima, tanto più che non mi si portano prove in contrariò. Detto tutto ciò, voglio aggiungere una postilla, perché non si frainCarlo Carena Paolo Fossati Corrado Vivanti tenda (come però credo che non facciano gli amici einaudiani) il tono del mio articolo, purtroppo un po' apodittico a causa della brevità dello spazio. Non ho nessuna intenzione di fare il grillo parlante sull'Einaudi. Il fatto è che le sue drammatiche vicende colpiscono molto duramente il sentimento e la ragione di chi in quella Casa editrice ha visto un punto di riferimento culturale per tanti e tanti anni. Rifletterne a voce alta è un gesto d'affetto, non una pratica da avvoltoi. Omar Calabrese

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