Alfabeta - anno VI - n. 62/63 - lug./ago. 1984

Debole / forte 3 l'esperienza ll'a Edoardo Greblo Martin Heidegger L'abbandono a c. di Adriano Fabris introd. di Carlo Angelin0 Genova, Il melangolo, 1983 pp. 86, lire 10.000 Autori vari Il pensiero debole a c. di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti Milano, Feltrinelli, 1983 pp. 262, lire 16.000 Italo Calvino Palomar Torino, Einaudi, 1983 pp. 132, lire 12.000 I n tutte le sue differenti tappe storiche, il pensiero dell'Occidente è guidato - secondo Heidegger - dalla volontà di dominare razionalmente il mondo, di sottometterlo ai princìpi, ai fondamenti dell'essere. Questa volontà, che si esprime nella metafisica la quale si manifesta come il processo per cui l'essere scompare a favore degli enti, e che si realizza nel mondo della tecnica dispiegata (intesa come realizzazione coerente del telos iscritto nella metafisica in quanto tale), si conclude mediante la risoluzione delle strutture della realtà nell'organizzazione tecnologica del mondo. Tale forma di pensiero è quella che Heidegger chiama, in L'abbandono, pensiero calcolante - al quale contrappone queJ!o che definisce pensiero meditante e che è contraddistinto da quel particolare atteggiamento che è, appunto, l'abbandono. Il rapporto tra le due modalità di pensiero non è univoco. Perché, da una parte, ci si deve opporre al pensiero calcolante nella misura in cui esso livella l'uomo a ente omogeneo a tutti gli altri enti e che il sapere tecnologico, in quanto coronamento di quello metafisico, riduce perciò a oggetto assoggettabile allo stesso modo in cui lo sono tutti gli altri oggetti. Ma, dall'altra, il pensiero calcolante non si può semplicemente respingere, mettere da parte con un gesto di distacco; con esso ci si deve piuttosto riconciliare, e ciò proprio in quanto lo si destituisce delle sue pretese unilaterali, volte a imporsi come l'unica modalità possibile di approccio al mondo e alla realtà. Il problema diviene allora quello di trovare un compromesso, un punto d'equilibrio. In altre parole: a che cosa ci si deve abbandonare? Non, per Heidegger, all'essere· 'vero' concepito come una struttura stabile in alternativa alla realtà 'falsa', inessenziale e contingente, della tecnica. Ma all'essere inte.so in termini deboli, come tras-missione, invio. E quindi come orizzonte di messaggi, come campo di significati che ci vengono destinati· dal passato. Q uesto è ciò che rende possibile la nostra esperienza, nella quale è ricompresa anchè la necessità del pensiero calcolante, e quindi della tecnica. Per questo motivo la disposizione tee- • nologica non è un elemento accidentale che possa essere respinto çlall'orizzonte vitale degli uomini orientando il pensiero e l'agire alla luce dell'essere come struttura organizzata, e ponendo in ombra l'essere 'apparente' della tecnica. Tra i messaggi che costituiscono l'orizzonte dell'essere e ai quali l'uomo si abbandona, è inclusa anche la tecnica. Essa non è pertanto l'unica via di accesso al mondo vero, ma una fra le tante che informano l'ambito d'esperienza entro il quale gli uomini sono coinvolti e 'gettati'. La tecnica è solo un episodio, anche se quello conclusivo dal punto di vista della metafisica, della storia dell'essere. Se quindi essa è solo uno dei possibili aspetti che può assumere l'atteggiamento degli uomini nei confronti della realtà, è allora solo una delle possibilità che possono indirizzare l'esperienza e non una scelta esclusiva di tutte le altre. L'abbandono comporta ·perciò una disposizione più libera nei confronti della realtà in genere e della realtà tecnologica in particolare, più conciliatoria verso le sollecitazioni anche estetiche (nel duplice senso della parola) che derivano dalla tecnica. L'uomo abbandona quelle funzioni decisionali che abitualmente vengono associate alla tecnica vista come mezzo di dominio nei confronti della natura e della realtà. In questa prospettiva, l'atteggiamento rivendicato dal pensiero debole nei confronti della realtà giunge a declinarsi secondo modalità analoghe a quelle indicate da Heidegger. Il pensiero meditante non aspira all'esclusione del pensiero calcolante dall'orizzonte di significati entro il quale gli uomini conferiscono senso alle motivazioni che attribuiscono al loro agire; mira piuttosto a svuotarlo delle sue pretese di esclusività, della sua vocazione impositiva. In modo analogo, nel saggio di G. Vattimo che costituisce la cornice teorica generale dei contributi riuniti nel volume Il pensiero debole, questo non viene elaborato soltanto come uno sviluppo e uno svolgimento del pensiero della differenza, ma assumendo anche l'eredità della dialettica. Come in Heidegger l'atteggiamento proprio al pensiero meditante induce a un abbandono di fronte alla necessità della tecnica (al pensiero calcolante), ma destituendola della sua pretesa di configurarsi come l'unica forma possibile per l'uomo di rapportarsi a sé e alla natura - così la declinazione della differenza in pensiero debole si può pensare «soltanto se si assume anche l'eredità della dialettica» (Il pensiero debole, p. 20). Il pensiero debole si 'abbandona' a un atteggiamento più dolce e rilassato - anche se ciò non implica, come si è visto, il rigetto del pensiero dialettico - e cioè, ad esempio, il rifiuto del progetto, della progettualità. Esso non accede a una nuova sintesi, ma dimette ogni propensione verso un sapere inteso come controllo, come totalizzazione. Per questo si apre all'esperienza, ma non per rinchiuderla entro una maglia logica, quanto per intensificarla e approfondirla, per farsi esso stesso esperienza, atto esistenziale (come nel saggio di G. Como lii intorno al Castello di Kafka). Perciò una maggiore attenzione per la realtà, piuttosto che un atteggiamento volitivo e perentorio. E quindi una maggiore indulgenza per le apparenze, ovvero la pietas per l'essere come traccia, penombra, 'mezza luce'. Che cosa significa l'abbandono nel pensiero debole? In primo luogo l'abbandono del pensiero come edificio logico, quale metodo concepito in vista dell'applicazione di strutture categoriali indipendenti dal contesto e dalla situazione. Inoltre, e come diretta conseguenza, abbandono all'esperienza, alla moltiplicazione di tutti quegli oggetti e di tutti quei fenomeni che riacquistano voce e parola e che si riaffacciano all'orizzonte. Esso implica quindi una perdita e un guadagno al tempo stesso. Il pensiero debole ~ntra in relazione con il pensiero 'torte, con il pensiero della cogenza logica, del rigore deduttivo e del fondamento ultimo, in modo analogo a quello che si instaura tra il pensiero meditante e il pensiero calcolante. Perciò l'esperienza che si esprime attraverso il sapere della contingenza non può rinunciare al globale né imprigion;usi dentro la propria separatezza. Deve piuttosto riconciliarsi (ma non nel senso della mediazione o della conciliazione dialettica) con l'universale. «Il piccolo frammento ci può far entrare in un universo, e forse ci può far scoprire che la grande logica abita questo universo, ne fa parte» (// pensiero debole, p. 50). • A nche il signor Palomar di Calvino si dedica alle trasformazioni che hanno luogo nel corso dell'esperienza. Anch'egli si mette a pensare- non a partire dai principi stabili dell'essere o da evidenze ferme e luminose, ma dal mondo della quotidianità: anch'egli assume come punto di partenza il mondo dell'innanzitutto e per lo più, e cioè l'esperienza della quotidianità. Anch'egli crede di comprendere che è proprio «la diffidenza verso i nostri sensi che ci impedisce di sentirci a nostro agio nell'universo» (Paloma,, p. 40). Perciò sceglie di attenersi rigorosamente a ciò che vede, di applicarsi alle cose così come sono, di conoscere la superficie della realtà e di percorrere in tutta la sua inesauribile ampiezza l'orizzonte entro il quale gli oggetti si moltiplicano di fronte ai suoi occhi. Ciò non è senza conseguenze per la soggettività, ma implica al contrario un rivolgimento paradossale: questa si fa puro sguardo. L'atteggiamento del signor Palomar sembra una sorta di traduzione nel vissuto, di 'applicazione' a un'esistenza, del pensiero debole. Il quale ha del resto costitutivamente un rapporto privilegiato con l'estetica: se il pensare l'essere come traccia non può procedere con gli strumenti logici del rigore formale e della cogenza deduttiva, il medium più adatto è di conseguenza, come afferma Vattimo, «il vecchio strumento eminentemente estetico dell'intuizione». Perciò, e lo sostient Rovatti, alla letteratura viene affidato il compito di esprimere la verità su quell'esperienza che è in questione, che fa problema nel pensiero debole. Se non ci sono condizioni trascendentali dell'esperienza, se la salvezza sta nell'applicarsi alle cose che ci sono e così come sono, la logica che sorregge l'agire del signor Palomar è quella iscritta nella situazione data di volta in volta, immagine di un sapere «instabile e contraddittorio». L'esito di questa scelta è il silenzio. Che non è un vuoto, ma «una disposizione ad ascoltare» (Rovatti). Nel libro di Calvino, tuttavia, è reso esplicito il pericolo che avvolge questa disposizione a cedere alla realtà, a farsi permeare delle cose, a dissolversi nell'esperienza Lafunzioneculturalcelell'Einaucl· Dario P ccini D a quel poco o troppo che questa «funzione», della invenzio- naudi non avremmo conosciuto né una parte considerevole della «fun- riassetta un'opera d'arte, un quasappiamo della attualesitua- ne e concrezione di quella speciale Benjamin né Bachtin né Lukacs, zione» einaudiana nella narrativa. dro, un monumento o unparco nazione della Casa editrice Ei- impresa editoriale,penso si possa e né gran parte dei titoli della felice Ma, con tutto il grande rispettoper turale. naudi, di cui già ora siamo parzial- si debba fare qualcosa, anche se collana dei «Paperbacks», né la il lavoro svolto da quella Casa edi- Nel dire così mi rendo conto che mente privi, si rilevasoltanto che ci pochi sanno che cosa. Ogni lettore prima fase - così stimolante - della trice, possiamo davvero dire che il si potrebbe essere indotti a pensare vorranno grossi capitaliper salvar- interessato alla parola scritta e rivista Strumenti critici, né Panof- ruolo della Casa torinese si sia, a che io mi riferiscaa provvedimenti la dalle dure secche del fallimento stampata, può disegnarea suo mo- sky né Mauss né Braudel, e così causa di quella «falla», tanto smi- ministeriali o governativi o simili. (che ha le sue procedure e i suoi do i contorni di quella straordina- via. Per ragioni ancor più specifi- nuito nei «Coralli»? Direi di no. No, ma sì in qualche modo pubblitempi, entrambi lunghi e costosi), ria e altrimenti inimmaginabile che sento che senza Einaudi, forse, Spostando lievemente i termini del- ci. Siccome ogni lettore interessalo ma poco oggi riusciamo davvero a «funzione», che per tanti anni ha non si sarebbepubblicato tantoAr- la questione, possiamo dire che, alla parola scritta e stampata è in capiresulla sua eventualesopravvi- svolto la Einaudi. Alcuni la ricono- guedas (non dico Cortazar e Var- per quanti sforzi possa fare la grado di designare, mentalmente, venza o sul pericolo dellasu.aeffet- sceranno nei suoi anni pavesiani e gas Uosa perché sono state scelte Mondadori o altra firma (e mi si un comitato scientifico di esperti, .~ fi I ~ tiva estinzione. De1initivamente vittoriniani e poi calviniani; altri, a più aci i). scusi il riferimento che non vuol es- capaci d'interpretare con profonda •.. c:s trascorso il momento della fase seconda dellapropria preferenza o La casualitàdei nomi e degli ac- sere negativo), mai quello spazio competenza e sensibilità le linee di .5 emotiva iniziale, caratterizzata da competenza, nella collana dei costamenti che ho qui abbozzato tipicamente einaudiano riuscirà a quella che ho qui chiamato la «fun- ~ Q., appelli a favore della persona di «Saggi» o nelle collane di storia o sta a indicare la complessità che as- essere colmato. E mai quel ruolo zione» einaudiana, propongo che ~ Giulio Einaudi e da altre calorose di storia dell'arte; altri, nel suo im- segno a quellasempre variata«fun- soddisfatto. quel «bene culturale» vada difeso '"-i ma sterili iniziative (cosa conta or- pegno e nelle sue realizzazioni in zione». Persino nei settori meno Ora, sulla scorta della storia edi- da una sorta di referendumpopola2 mai sapere che una editrice conter- campo politico e di attualitàatten- caratterizzabili - e cito appunto toriale degli ultimi cinquant'anni e re tra i lettori «curiosi»,con il quàl- ~ rà, bene o male, quel nome?), qua- tamente visitata;altri darà un nÒme quello della narrativa contempora- del libro che ne celebracon elegan- si raccomandi o si consigli, istitu- ~ si nulla possono le «menti» dato più o meno managerialea questa o nea, senza dubbio il più sfuggente za e precisione.i fasti, si può tran- zionalmente, all'ente che ne garan- -9 che la parola è passata da qualche a quella tappa della Casa editrice; - si p!fÒtuttavia riconoscere un se- quillamente affermare che la casa tirà la continuazione come indu- } tempo ad argomenti puramente altri ancora a questo o a quel filone gno abbastanza esatto e, nel caso Einaudi è un bene nazionale che stria culturale, anche il prosegui- ~ economici e finanziari. culturalegarantito via via da buoni particolare, ciò che di tale segno si non deve essereperduto. Appartie- mento dentro e non fuori di quel ~ Eppure, credo a tutti stia a cuore consulenti. è via via smarrito ma mai perduto. ne, infatti, ai «beni culturali» del ruolo insostituibile. ~ che si salvi quella che vorrei qui Personalmente, sempre sulla li- Faccio un esempio. Certamente nostro paese e come tale va preser- e chiamare, con un ~ermineunico, la nea dellepreferenze e delle compe- la casa Adelphi (o la Boringhieri, vato: allo stesso modo con cui si ~ funzione Einaudi. E in difesa di lenze, mi sento certo che senza Ei- ma da tutt'altro lato) ha svuotato restaura, si preserva, si difende o si g .__________________________________________________________________________ __.c:s

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