Debole / forte 2 La figur~nco~he salva e he cosa significa pensiero debole? Che cosa spinge uno dei curatori del volume che avanza questa proposta (P.A. Rovatti, in Alfabeto n. 60) a indebolire ulteriormente la definizione riducendola a una metafora, e per di più «alquanto infelice»? D senso della definizione Questa cautela sembra voler mettere al riparo questa filosofia da qualche nuova esperienza che la possa infirmare, o demolire del tutto. E questa nuova esperienza è costituita, a mio giudizio, dalla fine del cosiddetto pensiero negativo, quale ha dominato in Italia negli anni settanta. Già all'inizio del moderno, per tutto l'Ottocento e il Novecento, accanto ai grandi récits del progresso e della crescita, abbiamo avuto l'emergenza di un pensiero, o meglio della coscienza tragica che ogni atto di trasformazione, ogni atto che apre la strada al nuovo necessario, è un atto mortale e mortifero. Il pensiero negativo dell'ultimo decennio ha trasformato questa coscienza tragica io una formidabile certezza: ha prodotto manuali, prontuari, guide turistiche per visitare i luoghi della fine del mondo, per celebrarne la memoria e la nostalgia. Ho l'impressione che la pietas, l'accento sull'apriori della caducità proposti da Vattimo, e l'erosione dell'identità soggettiva proposta da Rovatti come i caratteri distintivi di un pensiero post-metafisico e post-dialettico (ma che non si confonde né con l'ermeneutica né con la dialettica sui generis di un Benjamin) siano una sorta di micrologizzazione del negativo, calato nelle cose e nei gesti, ma non un superamento effettivo di questo stesso pensiero. Infatti, può darsi che i filosofi non abbiano parlato dell'erosione della individualità e dell'identità, ma l'hanno fatto certamente i poeti, dal «vento che ci corrode il volto» di Rilke, ali' «escatologia» quotidiana di Montale (((un fatto / di tutti i giorni. / Si tratta delle briciole che se ne vanno/ senza essere sostituite»). Ma quale debolezza? a) Il pensiero debole non impone un ordine alle cose. Si aggira fra di esse, lasciandole parlare. Che cosa ne dice un pensatore forte come Severino? «Logos ( ... ) è la parola greca che, sin dall'inizio del pensiero filosofico, nomina quel lasciar parlare le cose senza imporre loro un senso esterno, ma lasciando che esse, manifestandosi, si impongano» (La filosofia antica, Milano, Rizzoli, 1984, p. 32). Ma questo non è il pensiero più ;:::; forte, quello del logos, quello che ~ ha depotenziato il mito fino a tra- -~ sformarlo in fabula? Non è detto. ~ Poche pagine più in là Severino è ~ costretto ad affermare che in fondo il logos-acqua di Talete «è una ~ metafora che non riesce a sopporo ~ tare il peso di ciò che essa intende :§ esprimere». Strano logos, questo, ~ che non appena ha affermato di - essere il senso stesso delle cose, il ~ loro essere, è costretto a dichiarar- ~ si metafora che manifesta un'ecce- :: denza indicibile più di quanto non 2 riesca effettivamente a esprimere. l b) Il logos è prepotente, ma non -a lo è l'infinita risalita ermeneutica del senso. Ma non ha detto Plotino che, alla fine, l'interpretazione deve riunire tutti i dati sparsi in un unico senso? Non c'è il rischio altrimenti, come Narciso, di perdersi nelle apparenze ingannevoli fino al vizio di una tracotanza tragica? c) Allora, forse, debole e non prevaricatorio è un pensiero che muove da altre regioni, non filosofiche, per esempio dalla medicina. o dalla pratica del diritto, costituendosi come un sapere indiziario, attento alle tracce, ai segni labili, che a nessun costo ci è permesso di cancellare o offuscare. Ra12presentante di questo sapere è Tucidide. Nel Libro primo delle Guerre del Peloponneso, attraverso una ricostruzione indiziaria, egli ci dimostra che la guerra di Troia è una guerricciola, e che il suo cantore, Omero, non ci dà alcuna conoscenza effettiva, ponendosi nella sfera della meraviglia e dell'incantamento e della menzogna mitica. (E proviamo a scatenare Sherlock Holmes, o un buon freudiano, su qualsiasi pensiero e vedremo ben presto che le labili tracce si legano come gli anelli di una catena d'acciaio che imprigiona e soffoca qualsiasi «criminale»). D'altronde, Sofocle definisce il destino tragico di Edipo - colui che ha vinto la «dura cantatrice» con la forza del suo pensiero che risolve enigmi, e che ha reciso ogni affinità con il pensiero notturno del mito - proprio per la tracotanza, la cieca prepotenza nel suo sapere. d) Che allora il pensiero debole sia rappresentato dalla narrazione di un'esperienza estatica, in cui finalmente, al di là di ogni ordine e codice, viviamo il «vero sentire»? Così per esempio una sera, dal finestrino d'un treno (G. Comolli in li pensiero debole, Milano, Feltrinelli, 1983), emerge la. visione d'un castello. E come la stanza dei risvegli proustiani, che contiene ogni stanza, questo castello contiene quello di Kafka, e poi via via le parole e i racconti di Kafka, e poi ancora le parole sulle parole di Kafka. E i suoi dintorni si popolano di paesaggi, fioriscono delle parole di chi ha parlato di paesaggi ... L'indicibile, che aveva trovato la strada della visione per farsi esperire senza essere violato in un discorso, diventa loquace, ciarliero, tanto da richiedere una bibliografia che alla fine metta un po' di ordine in questo intrico di parole. Un'altra definizione Sento vicine, familiari, le posizioni espresse da Vattimo e Rovatti e dagli autori compresi nella loro antologia. Cerco di capire il senso di questa familiarità e di collocarmi rispetto ad essa. Magari tentando uno spostamento. Valeria Magli e Lou Castel Goethe afferma (La Metamorfosi delle piante, Milano, Guanda, 1984) che sempre cerchiamo di superare lo iato esistente fra idea e esperienza «con la ragione, l'intelletto, la fantasia, l'illusione, e se null'altro ci sorregge, con la follia». È una buona definizione, mi pare, di che cosa significa pensare. D'altronde, che cosa è altrimenti possibile di fronte alla continua metamorfosi che «è un dono solenne, ma al tempo stesso molto pericoloso», m tj;ianto conduce «all'assenza di forme; distrugge il sapere, lo disgrega». Nel mondo come nel pensiero, dice Goethe, non possiamo riconoscere che una oscillazione continua e continuamente operante fra normale e abnorme, una compresenza dunque, nel pensiero, di salute e malattia. Siamo tornati alle mosse iniziali. Di qui si sviluppa il pensiero negativo, il vortice della malattia di Dostoevskij o di Nietzsche, che è inseparabile dalla conoscenza, ma che finisce per risucchiarla nelle sue spire. D'altronde, se riconosciamo l'apriori della caducità, come sfuggire a ciò che Sestov legge in Dostoevskij? Se tutto è destinato a perire, a finire nel nulla, perché non posso affermare con l'uomo del sottosuolo: «Perisca il mondo ma io abbia il mio tè»? E uno spostamento Credo che qui siamo al nodo irrisolto, che preme attraverso le maglie della proposta di Vattimo e Rovatti, ma non emerge mai compiutamente. Il superamento del nichilismo deve essere il superamento del pensiero della caducità. Ma è possibile pensare questo superamento? C'è, all'interno del moderno, un punto di svolta: una tradizione fin qui oscurata e resa indiscernibile dal potere dei grandi racconti progressivi e nichilistici. È l'emergenza del pensiero della trasfigurazione, che ci permette di cogliere il mutamento - di comprenderlo - al di fuori dell'orizzonte mortifero della caducità. E un esempio Rilke è il poeta della caducità e della perdita. È la coscienza del1' «apriori della caducità» che lo induce al silenzio, dopo le poesie dedicate a Narciso: alla visione, al di là dell'immagine mendace ondeggiante sull'acqua, della «rovina dei massi». Nelle sue lettere egli parla di una pesantezza, del corpo divenuto una trappola che non restituisce più nulla, irrigidito come un astro che abbia perduto anche la memoria della luce e delle antiche eruzioni. Le prime Elegie narrano questo stato: la corrosione del volto, e il «tutto che congiura per tacere di noi». Abbiamo, a un certo punto, uno scarto. «Essere qui è stupendo». Noi possiamo trasformare in cosa anche il dolore. Essere nella trasformazione e agire la trasformazione. E il vergehen (perire) che è all'inizio delle Elegie si trasforma nell'ultimo verso delle stesse in un fallen: nelle cose che cadono sulla terra, presso di noi, accanto a noi. Così è «nel regno permanente della metamorfosi» che possiamo trarre la «figura che salva». «Vuoi la metamorfosi», scrive ancora Rilke nei Sonetti a Orfeo, e in questo volere, lri questa nuova coscienza, anche «il chiaro dissolto Narciso» si salva: i tratti del suo volto trasfigurano in un altro volto, e vivono in esso. Le figure non decadono e muoiono. Esse si trasformano liberando m questa metamorfosi l'immagine che illumina il processo della trasfigurazione. Che illumina la regione dei possibili che proprio questo mutamento dischiude e rende praticabile. Narrazioni Questo processo talvolta può solo essere raccontato, reso visibile attraverso la narrazione. È un tema su cui Rovatti insiste giustamente molto. Il racconto - come già diceva Aristotele - unisce l'eterogeneo, conosce la reversione temporale, il movimento ondoso, la peripezia. Per questo il racconto è il sapere del possibile, «più filosofico» - diceva Aristotele - della narrazione storica degli stati di fatto. E non credo che in questa chiave il «verosimile» aristotelico possa essere letto come una verità minore, bensì come il piano di verità che si produce quando il racconto si interseca con i fatti, le situazioni, i gesti, le traiettorie del pensiero e della vita. Vico, parlando del racconto, parla di vera narratio che si muove mescolando il «divino» ai «trasporti del corpo». Anche la metafora (anche il logos lo è, come abbiamo visto) appartiene a questo sapere: è essa stessa «picciola favola», un piccolo racconto. E una conclusione Proust, Kafka, Rilke. Molti nomi potrebbero essere portati per illustrare questa tradizione, che emerge nel moderno, e che oggi diventa attuale dopo la crisi dei grandi racconti. In realtà non sono nomi di filosofi. Forse la filosofia si è portata su questi margini, per la coscienza della sua qebolezza unita alla consapevolezza che compito principale è forse oggi quello di salvare questi margini, queste aperture, in quanto sono questi margini e questi limiti che permettono che l'illimitato del possibile diventi in qualche modo conoscibile. La definizione di «pensiero debole» non mi pare allora così disprezzabile come appare a Rovatti subito dopo averla proposta. Se con pensiero debole intendiamo appunto non un pensiero contaminato dalla caducità, ma un pensiero disponibile al mutamento e all'impermanenza. In questo, tale pensiero può esprimere anche atti di forza. Scrive Blok in Nemesi, all'inizio: «La vita è senza inizio e senza fine / Tutti ci coglie di sorpresa il Caso. / Su di noi sta un'oscurità invincibile / (... ). Ma a te è concesso con imperturbabile/ misura, misurare ciò che vedi ( ... ) I e tu vedrai com'è stupendo il mondo». E il poema si chiude: «[ nel deserto cittadino] fèrmati per un istante, / e ascolta il silenzio della notte. / Coglierai con l'udito un'altra vita/ che tu durante il giorno non hai colto I( ... ). [Troverai] che il mondo è stupendo, come sempre». Questa rubrica è iniziata in Alfabeta n. 60, con un intervento di P.A. Rovatti.
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