la pace è definita in negativo, per via residuale, come «tempo» nel quale siano sospese, per effetto di un atto stipulativo e perciò revocabile, le «leggi» che governano quella condizione «naturale» dell'uomo, che è il «bel/um omnium contra omnes». Più in generale anche gli sviluppi successivi della ricerca giusnaturalistica conducono a mettere in luce (con Spinoza e Pufendorf, con Locke e Hume) la strutturalità del rapporto fra politica e guerra e la centralità di questo intreccio nel processo storico di costituzione dello Stato moderno. A Ile soglie del pensiero contemporaneo, la concezione idealistica - di Hegel, ma prima ancora di Fichte - della guerra come ideale etico, come «elemento del diritto» e incarnazione dello spirito del popolo, preannuncia, in una certa misura, lo svolgimento a cui questo tema sarà condotto dal pensiero giuridico e filosofico mitteleuropeo a cavallo fra Otto e Novecento; sulla persistenza dell'influenza hegeliana non solo in Clausewitz, ma anche in von Bernhardi, Geffcken, Rossler e Gumplowicz, e successivamente perfino in autori come Proudhon e Durkheim, occorrerebbe condurre ricerche più accurate, dalle quali prevedibilmente emergerebbe, in maniera assai più esplicita e documentata, ciò che qui si può solo indicare per via di enunciazioni, e cioè il carattere per così dire epigonico delle posizioni schmittiane, rispetto a una elaborazione precedente indebitamente trascurata. Relativamente al rapporto politica e guerra, il vero continente tuttora inesplorato è tuttavia costi~ tuito dalla tradizione marxista; l'interpretazione «pacifista», che si vorrebbe ora accreditare, della· cultura che ha ispirato la teoria e la pratica del Movimento operaio,· contrasta apertamente con una pur sommaria ricogmz10ne di quanto, a questo proposito, hanno· scritto i «padri» del socialismo scientifico, e più ancora, al di là . della lettera, con l'intonazione complessiva dell'indagine marxista. Anche prescindendo, a questo proposito, dai riferimenti più ovvi - Lenin e Mao, ad esempio - può apparire perfino sorprendente la sottovalutazione del ruolo concordemente attribuito alla guerra da Marx ed Engels, soprattutto negli scritti coevi alla formulazione della critica dell'economia politica, sia per quanto riguarda la possibilità di assumere l'organizzazione dell'esercito come canone ermeneutico, in sede storica, delle forme dell'organizzazione sociale e produttiva, sia per la connessione, più volte ribadita, fra «guerra mondiale» e «insurrezione della classe operaia». Proprio in questo giornale («Pacifismo e politica», in Alfabeta n. 60), Giuliano Procacci ha fra l'altro opportunamente insistito nel sottolineare la tendenza, diffusa nei partiti operai europei nei primi decenni del Novecento, a porre una stretta connessione fra Weltkriege e Weltrevolution, anche, comprensibilmente, per la suggestione esercitata dal fatto che la prima grande rivoluzione proletaria vittoriosa - quella sovietica, appunto - era venuta montando proprio nel cuore di un conflitto mondiale. Indipendentemente dalle scelte specifiche compiute in occasione di eventi bellici - scelte che non furono, in ogni caso, né sempre né univocamente contrarie alla guerra - resta tuttavia il fatto di gran lunga più importante della sostanziale estraneità del «pacifismo», come visione filosofica generale, e più precisamente come concezione della dinamica sociale, alla teoria politica del Movimento operaio occidentale. Al contrario, come studi recenti dimostrano (A. Straga, «Guerra e forma della politica in Gramsci» e «Il problema della guerra e la strategia della pace in Gramsci», entrambi in corso di pubblicazione, rispettivamente, in Il Centauro e in Criticamarxista), non solo il linguaggio, ma le principali categorie di analisi politica mediante le quali un autore come Gramsci riflette sulla situazione europea a cavallo della prima guerra mondiale, sono dettate dalla lucida consapevolezza della qualità intensivamente politica della guerra e, per converso, del «sostrato militare» che caratterizza «ogni lotta politica». P er quanto cursorio, lacunoso e puramente esemplificativo sia stato l'excursus storico fin qui condotto (per una più ampia analisi, cfr. U. Curi, «Alle origini delle categorie di guerra e pace nel pensiero antico», in Critica marxista, 1984, n. 1-2, e Introduzione a Autori vari, Della guerra, • a cura di U. Curi, Venezia 1982), non sembra possano sussistere dubbi sulla conferma che esso offre della tesi enunciata in premessa riguardo alla molteplicità delle tradizioni culturali nelle quali la relazione fra politica e guerra è vista come un insieme organico, o come un rapporto dinamico; per contro, occorre altresì aggiungere che non vi è filone speculativo di una qualche rilevanza che abbia proposto o condiviso una Weltanschauung pacifista: ove non se ne parli in termini residuali o in forme puramente ottative, la pace può tutt'al più essere considerata come imperativo etico che colloca l'operare dell'uomo sul piano del dover essere, non certamente come condizione, o obiettivo, interni all'orizzonte più propriamente umano. Proprio per questa appartenenza all'ambito della morale, inoltre, la pace risulta essere estranea al dominio degli avvenimenti politici, la cui «logica» e le cui finalità trovano semmai corrispondenza nelle regole del conflitto bellico, piuttosto che nella dimensione utopica della pace: se politica e guerra tendono tra loro a confondersi o a convertirsi l'una nell'altra, fra pace e politica, alla luce di una plurisecolare e diversificata tradizione filosofica, sembrano sussistere contraddizione e mutua incompatibilità. Tutto ciò dovrebbe chiaramente far risaltare un aspetto, per lo più trascurato o frainteso in tempi recenti: la costruzione di una cultura politica della pace non può che scaturire da una netta e accentuata discontinuità rispetto al passato, da un rapporto apertamente «critico», se non addirittura antagonistico, nei confronti dei modi diversi, ma infine convergenti, nei quali la cultura occidentale ha pensato il problema della pace, e più ancora la relazione fra guerra e politica. L'esistenza di questa discontinuità, se da un lato impedisce di «dedurre» le iniziative politiche di ispirazione pacifista da una preesistente teoria politica capace di legittimarle, d'altro canto impone un più generale sforzo di riformulazione degli stessi termini, e degli strumenti, della lotta politica; si tratterebbe, infatti, di evitare che la diffusa e crescente opposizione verso la guerra si concretizzi anche in un rifiuto della politica, o almeno in una caratterizzazione tendenzialmente sempre più apolitica del movimento per la pace, secondo un orientamento per il quale la condanna della guerra non può che comportare anche una svalorizzazione della politica, in quanto «controfigura» o «continuazione», sia pure «con altri mezzi», della guerra stessa. Maurizio Nannucci e Paolo Malvinni Quanto è accaduto, e tuttora sta accadendo, in quasi tutti i paesi europei, sembra confermare la possibilità che questa ipotesi si dimostri assai verosimile, e •che la crescita dei movimenti pacifisti, e il sopravvento al loro interno di componenti «ecologistiche» in senso lato, si realizzi a scapito di una maturazione politica - di finalità, tecniche e strategie - che sia perlomeno all'altezza della capacità di mobilitazione finora dimodall'opposizione alla «bomba» all'accettazione di zone denuclearizzate, dal pacifismo generalizzato alla giustificazione delle guerre purché regionali e dislocate altrove, lungo una direttrice che tende a connotare in senso esigenziale o emotivo, anziché razionale e politico, la stessa iniziativa pacifista. A i sintomi del processo involutivo che sembra aver precocemente colpito i movimenti per la pace corrisponde, sul piano più strettamente teorico, dell'analisi politica, l'incomprensione. della nuova fase che si è aperta in conseguenza della identificazione della guerra con la guerra nucleare, dell'incommensurabilità materiale e concettuale fra i conflitti finora conosciuti e l'ipotesi di una contesa combattuta con armi atomiche. Una volta che sia iniziata l'«era nucleare», la guerra cessa infatti di funzionare come forma di ogni possibile trasformazione, come senso «forte» della politica; rispetto a questa, la guerra non può più oltre funzionare come «prosecuzione» ma come rottura irreversibile, come punto di non ritorno, oltre il quale i conflitti perdono ogni produttività politica, ogni capacità di rideterminare, in forme nuove, assetti riconoscibili. La minaccia nucleare viene perciò a ribaltare i termini del rapporto «classico» fra politica e guerra, inserendo fra essi una scansione, una rottura di continuità, che inibisce la reversibilità e la traducibilità dell'una nell'altra: dopo la Sybren Po/et strata. Mentre si allarga e si consolida, insomma, il fronte della protesta, per lo più in forme antimilitariste e non-violente, tende invece ad attenuarsi la consapevolezza della qualità e dello spessore politico dei problemi con i quali occorrerebbe misurarsi allo scopo di salvaguardare la pace; sempre più si assiste a una sorta di riduzione minimalistica degli obiettivi della lotta: dalla conquista della pace alla rassegnazione della «non guerra», guerra nucleare, mai più politica. L'eventualità di una resa dei conti con armi atomiche interrompe la regolarità del ciclo politico, introducendo una discontinuità capace di disporre fra loro in maniera antagonistica, anziché lineare e omogenea, politica e guerra. Non solo: se con l'inizio dell'età atomica è la guerra ciò che «mette in forma» la politica, nel senso che essa funziona come fattore di stabilizzazione, tesa a preservare l'immodificabilità delle regole del gioco e a congelare gli equilibri di forze esistenti; se la guerra - o anche solo la «minaccia» di guerra - agisce oggi come freno nei confronti di ogni possibile trasformazione, e dunque come blocco della dimensione politica, è perlomeno possibile pensare che la pace possa diventare, in una prospettiva culturale avvertita della complessità delle questioni in campo, uno strumento di «sfondamento» della forma attuale del politico, un mezzo capace di rimettere in movimento una situazione altrimenti inchiodata dal concorso contraddittorio dell'ipoteca nucleare e della remissività «pacifista». Si delineano così almeno le condizioni per invertire la tendenza alla depoliticizzazione della lotta per la pace e per attribuire a essa, al contrario, una valenza dichiaratamente politica, in larga misura coincidente con la capacità di saldare insieme impegno per la pace e tensione verso la trasformazione, innovazione culturale e dinamismo politico, rinunciando definitivamente all'ingannevole prospettiva di poter salvaguardare la pace attraverso la pura e semplice conservazione degli ordini e degli equilibri esistenti. Evidentemente, una pace così intesa non ha nulla a che vedere con la soggezione passiva alle regole di «polizia internazionale» imposte dai «signori della guerra», né può essere coerentemente perseguita attraverso una sorta di autoriduzione delle proprie capacità . di agire come soggetti politici; ancor meno, essa può essere verosimilmente conseguita deprimendo, o annullando, il conflitto, inteso come immissario diretto della «trasgressione» alla guerra. Al contrario, un'effettiva rottura della linearità del ciclo politica-guerra, il recupero di un'accezione intensivamente politica di pace, e la possibilità che essa funzioni come tramite attraverso il quale riaprire un processo complessivo di mutamento, sono interamente affidati alla possibilità di riabilitare la produttività politica dei conflitti, sul piano interno e su quello internazionale, sottraendoli al depotenziamento implicito nell'identificazione esclusiva con la dimensione democratico-parlamentare, e alla mera «rappresentazione» insita, ad esempio, nella supina subalternità atlantica di un paese come il nostro. Anziché «sublimare» il conflitto nella vacua formalità del sistema rappresentativo, o peggio ancora rimuoverlo per la sospetta parentela con la guerra che esso sembra avere, si tratterebbe di riuscire a governarlo, a prevederlo, a indirizzarlo, lavorando in modo da scindere - valorizzandole - le virtualità politicamente produttive in esso contenute dai possibili effetti distruttivi a cui potrebbe condurre lo sviluppo totalmente incontrollato della dinamica conflittuale. Subito dopo aver distinto tra polemos e stasis, Platone racconta che vi erano tre giudici, incaricati di dirimere una violenta controversia tra fratelli, alcuni dei quali disonesti, altri giusti: il primo di essi eliminò i disonesti e ordinò che i migliori si reggessero da soli; ~ il secondo diede il potere ai più ~ valenti e, pur lasciandoli in vita, -~ costrinse i peggiori a obbedire; il ~ terzo giudice fu capace di «racco- co gliere una famiglia rotta dalla discordia e, senza uccidere nessuno, diede leggi per essi e così mise pace per il tempo futuro»: ottimo sarà, dunque, quel giudice-legislatore il quale non eliminerà l'antagonismo, né ridurrà coercitivamente :a la conflittualità sociale, ma tende- ~ rà piuttosto a regolarla. «E le leggi i che egli diede loro - conclude Pia- S tone - avevano un fine contrario ;g_ alla guerra» (Legg{ I, 628a). ~
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