Alfabeta - anno VI - n. 62/63 - lug./ago. 1984

cosa vi potrei udire? Forse una sorta di discorso della natura, fatto però di una parola sola, ripetuta per sempre, variabile soltanto di tono, a seconda delle stagioni e del tempo. Che possa esistere una lingua fatta di una parola sola è un'idea che mi riempie di un'agitazione insondabile; specie di eccitazione senza fine come ascolto della parola senza fine. Racconto selvaggio. C è un racconto di Conrad, Falk, in cui si narra di un capitano che in un lontano porto dell'Oriente decide di sposarsi. Ma questo capitano è un ex cannibale: su un bastimento in avaria nell'Oceano Indiano ha ucciso e mangiato alcuni dei suoi compagni di bordo, per non morire d'inedia. Prima di chiedere la mano alla donna desiderata, sente il bisogno oscuro ma impellente di confessare e raccontare: «(eravamo) andati in deriva a sud, fuori delle rotte conosciute ( ... ) e non tardò molto che il margine della banchisa polare emerse dal mare e chiuse l'orizzonte come una muraglia... » Il racconto avviene in un golfo tropicale, dove «isolotti rocciosi giacevano sul mare come mucchi di ruderi ciclopici su una pianura». Falk ha un sottotitolo: una reminiscenza; fa pensare che il rievocare (cioè il ricordare per raccontare) sia di per se stesso un atto selvaggio, imprevedibile e fascinoso, dato che si trova a mettere insieme il cannibalismo e il matrimonio, la banchisa polare e le isole dei tropici ... Racconto commovente. L'anno scorso sono stato per breve tempo fra gli lban del Sarawak, nel Borneo malese. Gli Iban vivono lungo i fiumi, nelle foreste dell'interno; hanno la radio e la barca a motore. Ma all'ingresso dei loro villaggi si ergono tuttora, confitte nel terreno, le statuette in legno dei loro dèi. Scoprire che gli dèi sono oggi ancora vivi pare incredibile, è già di per sé un vero e proprio trauma, una sorta di commozione insostenibile. Ma ancora più straziante è il rendersi conto che questi dèi sono destinati a scomparire fra breve. Li si pensava già morti, poi si fa appena in tempo a ritrovarli vivi, ma solo per constatare che stanno morendo. Vorrei cogliere le ultime parole di questi dèi morenti, che sopravvivono sull'orlo e be tra politica e guerra •sia sempre esistito un rapporto di sostanziale continuità, e spesso di mutua traducibilità, non è affatto una scoperta moderna; non occorre rifarsi a Clausewitz per riconoscere che «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi», né è necessario condividere la posizione di Cari Schmitt ~ per individuare nella guerra il 1::s «presupposto» o l'«essenza» della .5 ~ politica. Al contrario, la consape- ~ volezza dell'intima connessione, o ~ addirittura dell'indistricabilità fra ..... questi due termini, attraversa le ~ diverse «tradizioni» del pensiero ~ occidentale, ne costituisce, sotto :§ un certo profilo, un denominatore } saliente. Vi è, infatti, nello sforzo di le- :a gittimazione culturale delle attuali ~ iniziative pacifiste, una sorta di rii mozione collettiva, tesa a cancellaS re la persistenza di questa consa- l pevolezza lungo tutta una riflessio- ~ ne che, muovendo dalle origini dell'abisso. Ma per coglierle dovrei convertirmi almeno un po' al paganesimo. Fantastico che forse gli dèi non stanno morendo, e che magari, proprio oggi, potremmo rendere più sopportabile la nostra vita diventando pagani. Il linguaggio degli dèi è misteriosamente semplice: è uno stare lì, confitti nell'argilla del villaggio, in una piccola form;i lignea: un persistere sereni sull'orlo dell'abisso. Riuscire a cogliere questo linguaggio oscuramente facile porta a uno strano rasserenamento, disadorno, emozionato e lieto: è già una piccola conversione al paganesimo: pensare alla morte e subito vedere uno di questi dèi alti un palmo, che con le ginocchia un po' piegate e le manine intrecciate volge tranquillamente le spalle all'abisso... Le meraviglie della vita primitiva. Cos'hanno in comune tutte queste figure disparate che mi si sono fatte innanzi? Sono immagini di situazioni primordiali, di paesaggi barbarici, in cui il grandioso si uni_sceal semplice, il monotono al misterioso, il rozzo al commovente. Aleggia intorno a esse qualcosa come una sacralità arcaica o un'orrida bellezza (la banchisa polare, il Salto Angel sono al tempo stesso spaventevoli e stupendi). L'impressione che deriva dalla contemplazione di tutte queste figure è che nel rudimentale, nel1' «antidiluviano», vi sia un qualche segreto che ci riguarda, che proprio oggi ci sollecita più che mai. Mi viene da pensare che forse la prospettiva della fine della terra riporti alla luce l'atmosfera dei primi tempi, quasi che la preistoria dovesse dirci qualcosa e volesse consegnarci, solo adesso che paventiamo la fine, un lascito sinora tenuto nascosto. Il non ovvio è la preistoria. La metafora della talpa di città mi ha portato all'immagine dell'animale con sentimenti umani e da qui all'idea di una natura selvaggia e bonaria che viene a riemergere proprio nel mondo delle metropoli. Ma questa natura dai tratti un po' umani è la permanenza in noi della nostra preistoria, il nostro continuare a essere ominidi. Riuscire ad avvertire, proprio oggi, a causa del fantasma-Bomba, ma anche nonostante il fantasma-Bomba, la presenza della preistoria, mi sembra un'esperienza capace di aprire un paesaggio inaspettato e lussureggiante nella propria vita trasformata in ovvietà e minacciata di incenerimento. La permanenza o la reminiscenza della preistoria è forse quel non ovvio che può mostrare la vita come un mistero assolutamente da non dimenticare: è il pensiero di ciò che verremmo a perdere contrapposto al fantasma assoluto visto come ciò che potrebbe sopraggiungere. Se questo fantasma è una figura unica, solitaria, non amalgamabile con nulla, la rievocazione della preistoria apre invece a una ridda interminata di figure, immagini, sensazioni; è lo scatenarsi impreveduto, sull'orlo dell'abisso, di una felicità ancora insondata e che ci trattiene da quell'abisso. La prossimità della natura. Perché insomma chiamare in causa la preistoria? Perché il fantasma della fine assoluta porta a far coinciJean-François Bory dere il valore più semplice: quello della sopravvivenza (in buona salute) del corpo - con il valore più complesso: la permanenza del pensiero. Mentre una volta si poteva pensare di morire per far vivere un'idea, oggi questa prospettiva diventa irrisoria, dal momento che con la fine assoluta finirebbero anche tutte le idee. Ma questa ritrovata vicinanza fra pensiero e corpo ci rende appunto più vicini a quell'uomo primitivo che, fra sniffi, palpeggi e bofonchi, meditava Il giorno prima / 5 pensoso in mezzo all'erba. Dopo che noi abbiamo per molto tempo considerato la cultura come separazione dalla natura, ecco che il fantasma della fine, unito alla figura della preistoria permanente, ci porta forse verso una cultura intrisa di natura. In altre parole, è possibile che la cultura della pace sia anche una cultura della natura, cioè una cultura che si rivolge alla natura e che proviene dalla natura. O che si premura di salvaguardare la natura. Pensare la pace non è possibile se non si pensa anche alle meraviglie della natura come un qualcosa che deve a ogni costo essere salvaguardato insieme a noi. Microdistruzioni. Tutte le figure prima descritte sono immagini non solo di preistoria, ma anche di paesaggi naturali. Si tratta di paesaggi remoti, lontani dalle metropoli; tuttavia, in un certo senso, noi apparteniamo oggi più che mai a questi paesaggi (l'ossigeno che respiriamo viene anche dalle foreste del Venezuela); la vivibilità della terra intera dipende dalla loro permanenza. Ma noi sappiamo che già oggi la natura è in via di distruzione, indipendentemente dalla prospettiva dell'apocalisse nucleare. Il fantasma del cataclisma assoluto, in quanto separato da tutto, tende a farci dimenticare che la fine può sopravvenire in seguito a una somma di microdistruzioni. E sono proprio queste miriadi di piccole catastrofi quelle cui ci troviamo oggi di fronte: una deforestazione incontrollata qui, una guerricciola interminabile laggiù, una pioggia acida quassù; forse al fantasma-Bomba sarebbe utile sovrapporre il fantasma dello sgretolamento per assalto di minuscole, sterminate distruzioni. Lo sgretolamento quale sistema bellico di disgregazione continua che attacca al tempo stesso la natura e le popolazioni. Vivere nella pace. Una cultura della pace è più facile che si dispieghi se, accanto al desiderio della Grande Pace, unisce la pluralità dei piaceri della piccola pace. Questa piccola pace è la salvaguardia di tutte le cose desiderabili che ci stanno attorno e che già oggi, prima del cataclisma totale, sono poste sull'orlo dell'abisso dall'accumularsi dei piccoli catacliLagiustificazione 1,wiguerra della filosofia greca, raggiunge e domina la teoria- politica contemporanea pressoché m ogni sua espressione significativa. Ragionando per abbreviazioni, si può anzi fondatamente sostenere che non vi è filone speculativo che abbia avuto una qualche influenza nella storia, nel quale non sia possibile ritrovare il riconoscimento dell'intreccio fra guerra e politica .. Prima ancora di Eraclito (il quale attribuisce· a Polemos i «nomi» - «padre» e «re» - e le funzioni - distinzione fra dei e uomini, fra schiavi e liberi - convenzionalmente assegnati a Zeus), l'importanza del conflitto, come fattore di strutturazione del positivo e come principio di determinazione, appare già nella rappresentazione della vicenda cosmica contenuta nel frammento di Anassimandro; ed è ancora Neikos, la contesa, la protagonista principale della visione cosmogonica descritta da Empedocle, che è forse il primo filosofo a intendere l'amore come possibile causa di annullamento delle identità individuali, travolte e riassorbite nella staticità di uno Sfero apeiron, senza confini, e perciò anche privo di determinazione e quindi di vita. Ma è con Platone, in tre luoghi cruciali dei tre dialoghi senza dubbio più rilevanti dal punto di vista della teoria politica, che l'analisi della guerra perde ogni residuo alone mitologico, ogni connotazione metaforica, per diventare invece il nodo intorno al quale si addensano le questioni di maggior rilevanza speculativa. Nel percorso che congiunge il discorso svolto nel Protagora con quello della Repubblica e poi delle Leggi, si assiste a una definizione sempre più rigorosa e articolata del rapporto fra politica e guerra: riconosciuta letteralmente come meros, parte, della politica all'interno del mito del Prometeo reinterpretato nel Protagora, la guerra è all'origine dello Stato e della suddivisione in classi della società nella Repubblica, ed è infine il principio a cui si ispira l'organizzazione della vita pubblica e di quella privata nel dialogo che probabilmente suggella l'ampia produzione platonica. Nel contesto di queste due ultime opere, prende forma altresì, nei termini del rapporto fra polemos e stasis, fra inimicizia con !'«esterno» e discordia «interna», una distinzione che immette, sia pure attraverso una serie di mediazioni, alla nozione agostinianotomista di «guerra giusta» e più in generale alla discussione, sviluppata nell'ambito della Scolastica, intorno al questito «Si bellum sit semper peccatum». Sul problema della giustificazione della guerra, che la filosofia cristiana del Medio Evo elabora in sede teologica -edetica, richiamando al rispetto di alcune condizioni scrupolosamente indicate (l'autorità del principe, una causa giusta, smi. A differenza della grahde pace, per la piccola pace è possibile agire ogni giorno, vale a dire in ogni momento della giornata. Agire, infatti, significa qui la salvaguardia di <;>gnaimbiente particolare che ci circonda e che ci permette di vivere in un modo più o meno, ma pur sempre, desiderabile. Tale salvaguardia di un ambiente desiderabile è certo un'azione ovvia che sempre, ogni giorno, mettiamo in atto. Ma proprio perché ovvia, può anche venire facilmente tralasciata; la cultura della guerra si basa anche su una disponibilità al tralasciare la salvaguardia, o perlomeno al metterla in repentaglio, come se la messa in repentaglio fosse ancora una forma di salvaguardia (attacchiamo per difendere il nostro territorio, e con ciò lo sottoponiamo al rischio della sconfitta e dell'invasione). È questa disponibilità alla messa in repentaglio dell'ambiente ciò che una cultura della pace non può più ammettere. Ma perché la salvaguardia dell'ambiente appaia come un valore irrinunciabile, occorre vedere nell'ambiente (anche urbano, anche minuscolo e orrido) la luce del desiderabile, la grandiosità della natura, insomma una meraviglia della terra. E la meraviglia immediatamente appare se si guarda alla nostra ovvia vita attraverso lo sguardo della preistoria ... Questa rubrica, iniziata in Alfabeta n. 60, ha accoltofinora interventi di C. Formenti e P. Volponi (n. 60), R. Esposito (n. 61), e «materiali» di G. Procacci, R. Guiducci e M. Spinella. Cfr. J. Steinbruner «Lancio di missili nucleari al primo allarme» in Le scienze n. 187, marzo 1984 Oreste del Buono La talpa di città Roma-Napoli, Theoria, 1984 Joseph Conrad Falk: una reminiscenza in Tutti i racconti e i romanzi brevi Milano, Mursia, 1967-1969 la retta intenzione), ritorna anche il giusnaturalismo - da Grozio a Rousseau - ponendo al centro della riflessione la differenza fra diritto interno e diritto internazionale e, con Hobbes, il rapporto fra antropologia e politica. Soprattutto nell'indagine del filosofo inglese, la guerra non è un deplorevole malinteso, né una parentesi transitoria nel corso di eventi altrimenti regolati dalle leggi delle condizioni di pace, ma si dìlata concettualmente fino ad assumere la connotazione di una dimensione stabile nel tempo, di una caratteristica naturale e in una certa misura intrascendibile, intrinsecamente connessa alle «passioni» umane, alla costituzione ontologica degli individui. Come già per Platone, secondo il quale «la pace non è altro che un nome, mentre nella realtà delle cose, per forza di natura, c'è sempre una guerra di tutti gli stati contro tutti gli stati» (Leggi I, 626a), anche per Hobbes

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