Lf invito. All'incirca dall'autunno del 1983- più o meno da quando ha cominciato ad apparire evidente la crisi dei negoziati di Ginevra sugli euromissili - si è fatto sempre più pressante l'invito a immaginare le conseguenze di una possibile guerra nucleare. L'invito viene espresso attraverso libri, film, manifestazioni, semplici conversazioni tra amici, ed è rivolto idealmente a «tutti». Esso acquista una particolare, quasi ineludibile forza persuasiva, dal momento che si accompagna alla raffigurazione, tramite immagini e parole, di un evento apocalittico. L'invito è innanzi tutto invito a non dimenticare tale raffigurazione. Il fantasma assoluto. La guerra nucleare viene cioè mostrata quale eventualità di una catastrofe definitiva, dopo la quale non potrebbe esserci più storia, o addirittura genere umano, o addirittura vita (la Terra trasformata in un sasso che vaga nel cosmo). Si tratta di una prospettiva già da decenni conosciuta, ma solo attraverso l'invito di questi ultimi tempi essa ha assunto la forma di un fantasma assillante, capace di visitare chiunque e ogni giorno. L'ingresso di questo fantasma nell'immaginario quotidiano è già di per sé una ·piccola mutazione antropologica. Di· fronte al fantasma, che appare come avvento di un Nulla pressoché totale, tutto il resto (la Vita; il Mondo) diventa relativo, irrisorio, precario. Una cultura della pace. Ma poiché attraverso questo fantasma la guerra si presenta come pura angoscia senza sbocchi, ecco che la salvaguardia della pace appare di colpo come un valore irrinunciabile e come un desiderio insopprimibile, che si accompagna alla certezza di non volere in alcun modo «quell'altra cosa». La guerra si trasforma così in un tabù: pensare la guerra diventa paradossalmente un modo per cominciare a pensare la pace, e il fantasma assoluto dell'apocalisse nucleare si rivela quindi il primo, arcaico ideogramma di una possibile cultura della pace, quale cultura nuova che non ammette in sé la possibilità della guerra. Di questa cultura della pace sappiamo ancora molto poco: che cosa la distingue dal generico desiderio di pace che sempre ha scandito il susseguirsi delle guerre? La discesa verso il terrore. Leggo in un saggio di J. Steinbruner che la specializzazione e la proliferazione crescenti delle armi nu- . cleari stanno rendendo a poco a poco pensabile e praticabile l'eventualità che il primo ad attaccare risulti anche il vincitore. L'attuale corsa agli armamenti si basa sulla strategia della dissuasione reciproca, legata alla prospettiva che attaccato e attaccante si distruggerebbero a vicenda: l'equilibrio del terrore - instabile risultato ·della continua corsa agli armamenti - dipende dall'idea che non possano esistere vincitori. Ma se la presente accelerazione della corsa facesse di nuovo balenare l'idea (anche incerta) di una vittoria, ecco che l'equilibrio del terrore franerebbe per forza propria verso la muraglia del terrore puro. Mi viene da pensare che la prospettiva di una vitIl giorno prima / 4 Pensa,,Coll~ pace toria al primo attaccante apra uno scenario schizofrenico del tipo: io non voglio affatto attaccare per primo, ma poiché temo che l'altro lo faccia, attaccherò io per primo. Figure del fantasma. Il saggio di Steinbruner ha un taglio decisamente scientifico; ma l'effetto che provoca in me è identico a quello che potrei provare durante la visione di un film apocalittico ed «emotivo» (come The day after): ricevo un'altra volta la visita del fantasma. Questo fantasma è, a guardarlo bene, semplice ed essenziale: appare costituito - per me, ma credo anche per molti altri - da due sole immagini in rapida successione. La prima immagine rappresenta il momento «immediatamente prima»: un tale, intento alle proprie abitudini di sempre, leva il capo e vede davanti a sé l'esplosione: è questo l'ultimo dei momenti della vita così com'era e come non sarà inai più. La seconda immagine mi mostra sempre quel tale che vaga allucinato fra le macerie; sotto questa figura compare una sorta di didascalia dal sapore biblico: «I vivi invidieranno i morti». Comincia l'era infernale del «dopo-bomba». Un ingombro. Questo fantasma, che dovrebbe invitarmi a pensare la pace e soprattutto a fare qualcosa per essa, è in realtà molto ingombrante. Più che spingermi all'azione sembra volermi paralizzare, occupa tutta la mente e svuota di senso le mie occupazioni di ogni giorno. Riprendo a muovermi solo quando comincio a dimenticarlo un po'. Il fatto è che, in quanto fantasma assoluto, esso mi mostra la guerra quale evento al tempo stesso ineluttabile (cresciuto a dismisura, l'Arsenale scoppierà quasi automaticamente) e separato da tutto (quando c'è la Bomba, non c'è più nient'altro). Questa guerra invincibile e che rende vano il mondo, ricorda un po' la rappresentazione della morte nelle danze macabre del Medioevo. Solo che, essendo opera umana e non divina, la morte nucleare è anche priva di trascendenza o di speranza: il futuro Giudizio Finale non sarà come quello del Medioevo: a essere puniti risulteranno tutti, buoni e cattivi; niente salvezza per nessuno, dice il fantasma. La perdita. Questo fantasma così intrattabile è una sorta di monolito che, quando appare, sembra volere far piazza pulita dell'immaginario: non è amalgamabile con nulla, di fronte a esso il senso brucia, il reale, la vita quotidiana si ripresentano inceneriti ai nostri occhi. Sono colpito dal fatto che il pensare la pace attraverso questo modo di pensare la guerra si basi sulla presentificazione di ciò che potrebbe sopravvenire, mentre il pensare la pace dovrebbe essere innanzi tutto riflessione su ciò che potremmo perdere: pensare cioè a quanto c'è ancora e che però potrebbe andare distrutto col sopravvento della guerra. Ma, nella prospettiva della presentificazione Maurizio Cucchi e Alfredo Giuliani della guerra, lo statuto del deperibile (il valore di ciò che verremmo a perdere) appare tanto ovvio che non vale la pena di soffermarvisi: ciò che perderemmo è questa vita, così com'è, come «semplicemente» ci è data e «comunemente» ci appare. L'ovvio. Ma non è detto che questa ovvietà sia già di per sé un valore talmente palese da non dover riflettere su di esso. In fondo, la proliferazione degli armamenti significa già da sé sola che c'è qualcuno che considera il sistema degli armamenti un valore superiore a quello di questa ovvia vita. Quanto a chi non crede così e vive la propria vita come non ovvia, non può, pensandoci bene, credere nemmeno al fantasma della fine. È infatti dal punto di vista del fantasma che la vita appare come un valore ovvio, su cui non c'è niente di nuovo da dire; così, se mi pongo da questo punto di vista, posso solo pensare alla fine definitiva; ma è troppo poco e troppo angosciante. Insomma, con questo fantasma intrattabile non si può convivere più di tanto; c'è una sola cosa da fare, dunque: non pensarci più di quel tanto, e per il resto continuare così come se non esistesse. È una conseguenza inevitabile; e così infatti facciamo tutti quanti. Pensare la pace attraverso il pensiero della guerra risulta un'impresa che a un certo punto sbocca su una strada difficilmente praticabile; e il pensiero, fattosi angoscia, ammutolisce. La vita. Salvare la vita, la pace, le nostre abitudini: dette così sembrano proprio delle banalità, appelli intrisi di una retorica melensa. Credo che il pensare la pace, cioè il porsi nell'ottica di una possibile cultura della pace, richieda qualche sforzo in più. In fondo la cosiddetta Bomba - figura a metà via fra il nulla metafisico e le divinità terrifiche - si presenta con un fascino sacrale di fronte al quale non è sufficiente contrapporre la semplice figura di «questa vita che ci appartiene». Pensare la pace significa sì tenere conto del fantasma, ma per cominciare poi a riflettere su qualcosa capace di rompere la sua soggezione e procedere al di là di esso. In seguito all'avvento del fantasma, è tutta la «vita» che deve essere ripensata, osservata sotto un'altra luce. Operare dunque un rovesciamento: non pensare più a ciò che potrebbe sopravvenire, ma a ciò che con questo sopravvento verremmo a perdere. Il bello e l'orrido. Recentemente, nella raccolta di scritti La talpa di città, Oreste del Buono ha narrato l'episodio di un'intervista a Saul Bellow: «A quanto raccontava l'intervistatrice, era arrivata la sera; alle finestre fiammeggiava un tramonto acceso di nuvole cupe e dorate, di colori mai visti e forme sconosciute, un impasto radioso e violento capace di stordire chi lo contemplava per la prima volta ( ... ). Bellow lo indicava ridendo ( ... ): 'Sono esalazioni gassose, accumuli di sostanze industriali (... ) un meraviglioso spettacolo della natura offerto dall'inquinamento ... ' Ecco la frase che mi si è confitta in testa ( ... ) guardare anche la città degradata in cui vivo con occhi diversi ( ... ) intuire il bello anche nell'orrido». Fuori dalla tana. Colui che è capace di questo sguardo è, secondo del Buono, la cosiddetta «talpa di città», nuova creatura dei tempi presenti: è un nativo delle ultime metropoli, purtuttavia più che mai legato alla natura, più che mai animale, talpa appunto: «In città non è come in campagna. Il sostentamento anche i più vecchi, non solo i più giovani, sono costretti a cercarlo all'esterno, in superficie. E, fuori dalla tana, è l'orrore, per prima cosa occorre abituarcisi, cominciare con il non trovarlo tanto orrendo, acquisirne un'altra considerazione, per patire meno l'attrito con il concetto stesso di orrore ... » Ciò che mi sorprende è il fatto che questo sguardo capace di vedere nell'ovvio di tutti i giorni la compresenza di bello e orrido, sia uno sguardo al tempo stesso animale e metropolitano. Che significa questo? L'animale con sentimenti umani. La talpa di città che sa osservare il bello nell'orrido è una metafora dell'uomo come animale dotato di sentimenti umani, piuttosto che di un uomo con sentimenti bestiali; non evoca un grottesco ritorno alle condizioni della natura, ma fa pensare a un permanere nell'uomo di una natura bonaria; o meglio, fa pensare a una bonarietà della natura che si manifesta proprio oggi, che si rende accettabile solo oggi, nell'orrore di un presente prodotto non dalla natura, ma dall'uomo. Questa immagine dell'animale con sentimenti umani possiede un fascino misterioso e particolare: a differenza del fantasma della Bomba, solleva dietro a sé un insieme di figure e ricordi disparati che mi si parano davanti agli occhi. Guardo queste figure ad una ad una, perché mi sembrano tutte immagini della «vita che potremmo perdere», anche se non è la vita di tutti i giorni quella che mi mostrano. In cammino verso l'Asia. Ho letto su una rivista che un milione di anni fa l'Homo erectus, la prima specie di ominidi a vasta diffusione, migrò dall'Africa per diffondersi nell'Asia ancora deserta. Cerco di immaginarmi questa esplorazione dell'Asia da parte delle tribù di ominidi: vedo gli ominidi pensosi, mentre scrutano un paesaggio enorme, fatto di praterie giallastre, con alberi ad ombrello, verdissimi, sparsi qua e là. Penso a tale pensosità primordiale come a un pensiero senza linguaggio, fatto di odori, rumori del vento, luci nell'erba, reduplicati in immagini mentali; ecco l'ominide che, mentre snuffia, borbotta, trangugia, soppesa anche le proprie decisioni sul cammino da intraprendere, ma facendo a meno del linguaggio articolato. Questo pensiero che è già pienamente pensiero, ma non si serve delle parole, mi dà una sorta di vertigine. Che fine ha fatto la pensosità della ~ preistoria? ~ .!:: Il Salto Angel. Nelle foreste del ~ Venezuela, vicino alla Guayaoa, Cl. c'è il Salto Angel: si tratta della ~ cascata più alta del mondo, una -. caduta d'acqua di quasi mille me- ~ tri. Dall'altopiano dell'Auyan Te- O() puì - o Montagna del Diavolo, co- :"§ me vengo a sapere - la cascata èò - ::t precipita lungo una parete di lastre grigie e rossastre; un'enorme nube ~ di schiuma si leva sopra la foresta ~ intorno. Vorrei sentire il rombo ~ della cascata; in questo rombo gli S lndios discernevano probabilmen- ~ te le voci concitate degli dèi. lo ~
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