Alfabeta - anno VI - n. 62/63 - lug./ago. 1984

Sulla <<Fe ra>> iSe Charles Segai 11Centro romano di semiotica e il Cidi hanno organizzato a Roma (16-19 febbraio 1984) un convegno sul tema «Mondo classico: percorsi possibili». I coordinatori del convegno, Franca Mariani e Giuseppe Paioni, hanno proposto ai relatori tematiche quali il corpo, la norma e la trasgressione, il sogno, l'eros, lo spazio e il tempo: il senso complessivo dell'iniziativa non è stato quello di produrre un'immagine sistematica delle ricerche attuali sull'antico, ma piuttosto di presentare - a un pubblico tanto numeroso quanto interessato di insegnanti delle scuole medie superiori - uno spaccato stimolante e rappresentativo del «work in progress» nell'ambito della rivisitazione odierna dei saperi e degli immaginari «classici». In questo compito si sono misurati studiosi come Maurizio Bettini, Giulia Detienne Sissa, Vincent Farenga, Bruno Gentili, Gabriele Giannantoni, Andrea Giardina, Christian Jacob, Diego Lanza, Oddone Longo, Domenico Musti, Ezio Pellizer, Giuseppe Pucci, Wolfgang Rosler, Dario Sabbatucci, Charles Segai, Mario Torelli, Mario Vegetti e altri. Riteniamo che l'intervento di Charles Segai sulla Fedra di Seneca sia particolarmente rappresentativo del taglio culturale prevalente nel convegno. Professore alla Brown University di Providence, Segai è autore di due opere fondamentali, rispettivamente su Sofocle (Tragedy and Civilization, Harvard U.P., 1981) e su Euripide (Dionysiac Poetics and Euripides' Bacchae, Princeton U.P., 1982). Certamente il più «europeo» fra i classicisti americani, Segai unisce per certi aspetti il meglio delle due culture: l'attenzione all'antropologia sociale e strutturale da un lato, alla problematica del linguaggio e della testualità dall'altro. di Segai include strumenti culturali come quelli offerti da Barthes, Bloom, Derrida, Lacan, utilizzati sempre con delicatezza e senza sopraffare una nitida lettura del testo antico. Un buon esempio, dunque, di quel rinnovamento degli studi classici che si può annoverare tra le più significative esperienze della cultura contemporanea, come il convegno romano ha contribuito a dimostrare. P er la Fedra di Seneca, come anche per l'Ippolito di Euripide e la Phèdre di Racine, la crisi centrale prende la forma di un attraversamento della barriera fra silenzio e parola. Appena pronunciate, le parole d'amore, di desiderio, cambiano il mondo in cui i personaggi vivono. Né l'amante che confessa il proprio amore né l'amato che riceve questo messaggio possono rimanere come prima. In queste tre opere il punto decisivo della parola è il cuore della rappresentazione drammatica. Tutte e tre convertono lo scambio verbale in situazione teatrale. Il momento stesso della comunicazione diviene spettacolo. Si pensi nel teatro greco al momento del «sentire terribile», il deinon akouein dell'Edipo Re di Sofocle, alla peripeteia, o alla singola sillaba «A», che pronuncia lo straniero /idio - Dioniso travestito - nelle Baccanti di Euripide al momento in cui il re Penteo diviene sottomesso al potere quasi ipnotico del dio1 • II punto di riferimento è in primo luogo l'esperienza di Vernant, ma sullo sfondo - come si legge nel saggio sulla Fedra - l'orizzonte Mario Vegetti idealistica di una irreale età dell'oro, e il linguaggio passionale di Fedra, con le sue immagini di interiorità, di mostruosità, di fuoco, di mare agitato. La città si sposta dal centro _dell'azione, e uno spostamento analogo avviene anche nel linguaggio. Quando si parla di cittadini, per esempio, le parole cives o Athenae sono sempre pronunciate o dalla Nutrice o da Fedra e sempre nei momenti di attacco all'autorità del padre. Fedra parla di «cittadini» al momento della sua momentanea vittoria sopra Ippolito. Accusandolo falsamente davanti a Teseo, indica «l'arrivo dei cittadini» come la causa della sua fuga (civium accursum, 897). Quando la Nutrice invoca Atene duecento versiprima (725), prepara la strada alla bugia di Fedra. Il re e padre, Teseo, secondo le fantasie di Fedra, resterà prigioniero sotto terra, nel regno dei morti. Ma questa assenza del re non soltanto libera i desideri di Fedra, ma crea parlare, cupiens aliquid effari) è analoga ali'ambiguità emotiva di Fedra. La frase confonde i due aspetti del suo desiderio, cioè desiderio di parlare apertamente e desiderio di Ippolito. Quando è in grado di esprimere questo desiderio, Fedra deve cominciare con un problema linguistico, cioè deve leyare l'impedimento verbale del nome di madre (6076/2): Phaedra. curae leves Ioquuntur, ingentes stupent. Hippol. committe curas auribus, mater, meis. Phaedra. matris superbum est nomen et nimium potens; nostros humilius nomen affectus decet; me vel sororem, Hippolyte, vel famulam voca, famulamque potius; omne servitium feram. Le ultime parole, omne servitium feram, introducono un altro registro linguistico: non il linguaggio dell'ordine domestico, della matrona di casa, ma il linguaggio dell'elegia, dellapoesia amorosa, delle donne del demi-monde. La confessione d'amore diviene per lei possibile solo attraverso una voluta confusione di parole: nel momento critico mette insieme, entro lo stesso verso, il nome del figlio e il nome del padre: «Hippolyte, sic est: Thesei vultus amo» (646). Ci sono nel suo linguaggio un gioco e una tensione fra contiguità e sostituzione, fra l'asse metonimico e l'asse metaforico, che corrisponde alla tensione o ambiguità del suo stato emotivo. La risposta di Ippolito non è ambigua: egli grida il suo orrore, invoca gli dèi, sguaina la spada, ed è pronto a offrire Fedra a Diana in sacrificio cruento. Ma anche in questo passaggio pieno di azione, c'è una dimensione linguistica: per Ippolito non solo l'atto suggerito da Fedra è mostruoso, ma lo stesso parlare ne contiene l'aspetto mostruoso: O maius ausa matre monstrifera malum, genitrice peior! illa tantum stupro contaminavitz_et tamen tacitum diu crimen biformi partus exhibuit nota, scelusque matris arguit vultu truci ambiguus infans. ille te venter tulit! (688-693) Fedra, nell'atto di portare il suo desiderio dal silenzio alla voce, per Ippolito rassomiglia alla madre Pasifae, che ha dato alla luce il mostruoso segreto del suo delitto sessuale nella forma del Minotauro; e questo parto mostruoso è anche una violenta rottura del silenzio (tacitum diu crimeo, 691/, «un delitto a lungo tenuto in silenzio»). La crisi morale Gianni Toti e psicologica si rivela anche in questo codice metalinguisdco del/'opera. Il discorso stesso è così problemadzzato attraverso le ambiguità create dal desiderio incestuoso di Fedra e 1 diviene una specie di microcosmo, specchio per tutta l'azione. Riguardo a tali momenti del teatro di Racine, Roland Barthes così scrive di questo effetto del parlare, del rivelare un amore nascosto: «La scène érotique est théatre dans le théatre, elle cherche à rendre le moment le plus vivant mais aussi le plus fragile de la lutte, celui où l'ombre va etre pén,ét.rée d' éclat»2 • Racine ha derivato questo effetto soprattutto dal teatro di Seneca. Nella Fedra senechiana, il desiderio dell'eroina:porta nel linguaggio una serie di atteggiamenti contraddittori verso l'autorità patriarcale e verso il personaggio del padre. Il suo desiderio quasi incestuoso per il figlio è una sorta di attacco al potere del padre; ma porta anche un attacco al linguaggio nella sfera del padre. Il linguaggio che appartiene al mondo pubblico dell'azione pubblica, al mondo esteriore della città, è spezzato e diviene ambiguo. Viene meno la comunicazione diretta, chiara, semplice, quale-è necessaria per un'autorità politica. In luogo di essa, abbiamo la lirica in prima persona di Ippolito che apre il dramma, la sua lode anche una specie di antimondo, un regnum dove il potere sta nelle mani non del maturo re ma del giovane dio, il puer, Amore (cfr. 277, 283, 334). Sfidando il consiglio della Nutrice che l'ammonisce del ritorno imminente di Teseo, Fedra . afferma (218-221): Amoris in me maximum regnum puto, reditusque nullos metuo: non umquam amplius convexa tetigit supera qui mersus simul adiit silentem nocte perpetua domum. Nella sua prima parte, la conversazione fra Fedra e Ippolito si incentra sulla difficoltà di parlare e di non parlare, la repressione e la libertà del linguaggio. I ermini per orecchi, parole, linguaggio lecito e illecito, ne definiscono il campo di scontro. All'inizio della scena (v. 606), Ippolito domanda: «Animusne cupiens aliquid effari nequit?» L'ambiguità verbale (desiderio di qualcosa, cupiens aliquid, e desiderio di La scena del ritorno di Teseo dagli inferi segue quella con Ippolito, ma è anche strutturalmente simmetrica a essa. Ancora una volta, un uomo chiede a Fedra di parlare (cfr. 858f e 607, 639). La prima scena, tra Fedra e Ippolito, è iniziata con Fedra che non lascia passare le sue parole di desiderio: «sed ora coeptis transitum verbis negat: / vis magna vocem mittit et maior tenet» (602!). Con l'arrivo di Teseo, la chiusura del linguaggio è trasposta a chiusura de/l'entrata. Chiudendosi a chiave dentro il palazzo, Fedra si rifiuta di aprire a chiunque: «haud pandit ulli», dice la Nutrice (860). La richiesta di Teseo nel verso precedente, «Parla apertamente» (aperte, 859), instaura una analogia fra parlare e entrare. Teseo deve ordinare che si disserrino le porte (reserate clausos regii postes laris, 863)3.La scena continua con un ambiguo giuoco fra velare e svelare il desiderio mediante il gesto di mostrare la spada che Fedra nasconde nelle pieghe della

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