Alfabeta - anno VI - n. 62/63 - lug./ago. 1984

Lacamera eltempo Attilio Bertolucci La camera da letto Milano, Garzanti, 1983 pp. 254, lire 20.000 S i è molto parlato, in questi mesi, di Attilio Bertolucci e del suo romanzo in versi, Recherche familiare e padana, saga ciclica di vicende secolari, sospesa tra epos e elegia. L'ampiezza dell'affresco, la fitta trama del tessuto immaginativo, costituiscono i tratti predominanti di una scrittura atipica, eccedente le regole del frammento lirico, orientata verso la 'resistenza' del poema. Una sfida consapevole e - ad ascoltare l'autore - un po' nevrotica, che costringe a inventare parametri di riferimento: ed è poi sempre merito della poesia, quella autentica, sollecitare verso itinerari di ricerca insoliti, suggerendo ipotesi di leggibilità non previste. Definire La camera da letto romanzo in versi, eccentrica silloge di liriche, non significa ancora possedere gli strumenti per affrontare questo flusso verbale dal ritmo ampio, percorso dalle ragioni interne di un respiro sillabico che si raddensa e si distende seguendo le necessità dell'intreccio narrativo. Una motrice che semantizza il materiale verbale, e lo induce a svilupparsi più secondo la direzione orizzontale, dilatata, del tempo, che su quella verticale dei rapporti grafici, spaziali. Basta soffermarsi sulle anafore, numerosissime, che risuonano a lunga distanza come ritornello acustico, eco memoriale estranea alle leggi di parallelismi essenzialmente visivi. Penso in particolare agli avverbi ripetuti in scansione prevalentemente alterna ( ormai, già, mentre, ora, ancora... ) che pongono a confronto vaste sezioni di tempo, aprendo fughe verso gli spazi interiori del ricordo e obbligando la pagina a una stratificazione che dinamizza la superficie, impercettibilmente, senza violenza («e trovare il turchese / diletto del paese in cui splendono già/ mattine fredde», «San Secondo perduta ormai in portici( ... )./ Ma non dura eterno il viaggio, già/ gli zoccoli scalfiscono il selciato»). E penso ai gerundi, bloccati o assoluti come sintagmi di un linguaggio formulare, sigle percussive di un tempo ciclico, implicante, spiraliforme, a suo modo protettivo («declinando il giorno sui crinali», «il silenzio accrescendosi col buio»). Come in una partitura, la strumentazione fonica permette alla voce salmodiante di reggersi su vibrazioni complesse: è infatti, quello di Bertolucci, un monologo particolare, in cui l'assolo dell'«umile» annalista può diventare voce esterna, battito biologico, trasmettendo pulsazioni stagionali e sideree. ~ Ho parlato già di «sfida del mo- '=S notonalismo»: e mi riferivo in quel .s gf> caso (Poliorama n. 2, 1983) alla e:\. singolare capacità di tenuta di un ~ discorso poetico basato su dicoto- ......mie costanti, dalla Capanna indiaS! na a Viaggio d'inverno. Ma è pro- ~ e.o prio nella Camera da letto che ] quella sfida rivela le sottili astuzie - che la determinano. - ~ . Intanto l'organizzazione strofica ~ aperta, libera, induce da sola l'e- ~ vento narrativo a trovare il ritmo ::: della propria necessità, tra stupori ~ metafisici, ritorni e spinte interne, l versi brevi e percorsi cantilenanti, ~ garantiti da U!) ~enere misto che concilia poesia e cronaca, romanzo e racconto epico, conferendo intensità espressiva anche a versi isolatamente prosastici («Servi e garzoni aumentano, la sera / nel retrocucina si riuniscono/ tutti attorno a un tavolo»)- tipici, del resto, di uno stile dimesso, rurale, che economizza, parco, le parole («e la nebbia si straccia / un po' al sole che un po' la sforza»). E c'è dell'altro: la durata del periodare ritmico funziona da intervento autocensorio, costringendo certe aperture meno sorvegliate, esposte al rischio di un'elegia declamata («O due pudori avvinti, o cuori l'uno I contro l'altro, non staccatevi», «O ponte centrale, mediano, sollevato a unire/ a dividere le due Parme»), a disaulicizzarsi nel continuum tonale, a sciogliersi in musicalità diffusa («Città torrentizia, città di ghiaia e di sabbia,/ città debole, sfiduciata e dolce», «Molle, molle pianura del Po»). Lf autobiografismo, la nota protratta dell'epopea familiare c&nnotano l'ordito descrittivo: dunque, il romanzo in versi. Ma insistere sul contenuto, chiedere al testo di illustrare la fabula di una generazione di proprietari agrari attraverso il vissuto dei protagonisti non può distogliere dall'avvertire il senso materico, acustico, visivo, di una struttura in cui tout se tient, una struttura non solo narrativa ma sinfonica, sostenuta su fasi ritmiche, flash onirici, sguardi radenti o panoramici. La novità di una poesia difficilmente classificabile (lo sosteneva già Montale) consiste allora in questa operazione di spiazzamento delle categorie di giudizio, che produce disagio nel critico. Quale il momento storico dell'ideazione e della stesura? Quali le coordinate letterarie? Neocrepuscolarismo (ma è davvero tale il pertinace «vizio consolatorio della poesia»?) o neoermetisrrlo (ma Citati ricordava opportunamente, semmai, l'assenza di tensione metafisica, la «religione dei corpi»)? Anceschi, accogliendo Bertolucci tra i «lirici nuovi», pensava sicuramente a una poetica dell'oggetto sorpreso nei dettagli minimi dall'obiettivo attento di una macchina da presa («Ma qui, dove si sfasciano gli attrezzi / inutili, le botti malandate, le sedie / rotte, e fermenta una paglia rimasta / dalle ore dell'ultima trebbiatura, / qui ci fa caldo ancora e calde sono / le mani che si stringono giovani»). Prevale, infatti, nella Camera da letto una fenomenologia del vedere che si orienta prevalentemente sugli interni, sui perimetri chiusi, tiepidi, delle pareti domestiche, e da qui spazia sull'alternarsi delle stagioni, su chi si attarda, «fuori», «attorno a casa», in una distanza che è subito sradicamento, desacralizzazione, come se l'uscita dal nucleo familiare comportasse, fatalmente e biblicamente, la dispersione, l'esodo. Ne consegue che anche gli oggetti esterni, gli eventi atmosferici, vengono visualizzati da uno sguardo protetto, che pare ogni volta affiorare da uno spazio intimo e segreto. Su quello sguardo si misura il trascorrere del tempo: si sta, da bambini, «in piedi su una sedia/ accostata alla finestra»; si sperimenta, non ancora adolescenti, la trasgressione che capovolge la prospettiva («Sei tu ora che spii, Niv Lorenzini stando di fuori,/ chi sta dentro») e risemantizza l'andare in uscire («Ecco, sono usciti inquieti alla luce»); si vive, ormai adulti, al di qua «dalla porta a vetri chiusa in fretta», la propria reclusione volontaria. L'insistenza sulla chiusura, sul viaggio immobile, sulla «luce falsa» di stanze recluse e separate, impone certi accostamenti: si pensa a un Montale anche lui recluso in spazi certo meno intimi, ove si tenta la resistenza dall'esclusione storica e si cerca, per gli altri, la smagliatura nella rete, l'anello che non tiene. Nella sofferta educazione sentimentale di Bertolucci il 'dentro' è esperienza privata e non partecipabile, mentre la fuga è fenomeno di diffrazione ottica, verso figure «slontanate» nel ricordo e verso un'identità scissa, mediata sovente da emblematici specchi («È dalla sala da pranzo rinchiusa / come un acquario o una tomba, nel vetro/ verde e spesso, che non lascia guardare / bene, ma appena indovinare, due/ sagome vicinissime», «E se il giovane ( ... ) non torna mai, toccherà proprio a lui, instancabile Socrate, / restare solo (... ) con I uno specchio che gli rimanda la figura perplessa»). L o sguardo che si raddoppia e che maschera trascina nella gamma dei travestimenti, deformando il reale in aspetti teatralizzati: ed è indubbio il fascino della dimensione 'altra' che percorre La camera da letto dando origine a fenomeni illusori, dall'effetto iperrealistico del trompe-1'oeil ( «E qui non può mancare la bianca, l'abbagliante / luce del palcoscenico, la finzione più vera / del vero di quelle rose vertiginose»), alla divinazione traumatica dell'assenza («Perché lo hanno lasciato solo / con la dolcezza dell'aria - / socchiusi i vetri - / e la paura, anche gli aratori perduti / in campi che non si vedono( ... )?»). Ogni volta sono gli accadimenti minimi a far scattare la visione dilatata che tramuta il dettaglio in evocazione, il fotogramma in evento della memoria: basta un particolare visualizzato dalla lente del fotoperatore, a un tempo estraneo e partecipe, e il fatto si trasforma in rivelazione, quasi di soppiatto, attraverso insospettabili participi che filtrano sensazioni, o parentesi che avviano processi labirintici, dissonanti rispetto all'occasione che li determina («L'Adelina s'era messa in ciabatte/ appena fuori Parma, dove s'apre / (e Gino Paoli chiude e s'apre di continuo) al fitto / ondeggiare e piegarsi di quelle / umili piante che crescono ovunque»). Verrebbe da pensare a un Gadda appena un po' orfico e molto padano, il cui io narrante affida alle cose, sempre addipanate e interferenti, il compito di illustrare lo «sgomitolarsi variegato dei ricordi»; e può anche essere, il suo, uno sguardo inappartenente, che assimila sentimento e concretezza realistica, siglando, con trepidazione e distacco, la topologia di una 'discesa alle origini' molto particolare («Le celle della memoria sono fresche come cantine / e così odorose e scure ( ... ) il cuore batte più forte / a chi si sia avventurato, timido, I dove vino e passato fermentano più forte»). P.V. Mengaldo parlava di recente - in Sigma n. 2-3 (1983), dedicato, con intenzione non solo provocatoria, al «grande stile» - di parola comunicativa e interrogativa posta in atto dai poeti «che s'accontentano di partecipare un'esperienza», ponendo a frutto Saba e Montale per «relativizzare» e «felpare» lo stile alto con effetti «di doppiofondo e di chiaroscuro». Ecco: si può forse ripensare a questo punto a un'affermazione di copertina, disarmata e ingenua al limite del sospetto. L'autore, assegnandosi la parola, vi rivendica il «segreto intento di dimostrare che si può fare poesia lasciando che essa spunti come il sole dopo un mattino brumoso». Io non so cos'abbia a vedere la poesia col sole. Ma capita che nell'universo tutto fenomenico di un poeta-proprietario, dalla sensitività radicatamente georgica e rurale, anche l'astro luminoso divenga, più concretamente, il regolatore del ritmo di semina e raccolta, e che le brume appartengano davvero a una pianura soggetta a «piogge augurali» fertili per i campi. Una maniera come un'altra di sliricizzare e «felpare» i temi: non c'è spazio insomma, nella poesia di Bertolucci, per abbandoni genericamente sentimentali. C'è, semmai, l'ansia di protrarre gesti e rituali, nel timore di smarrire, con l'oggetto, la propria datità, il senso di una presenza (già Luperini parlava di un autobiografismo «perpetuamente difensivo»... ). E c'è la volontà precisa, e il pudore, di mascherare, sotto una poetica livellata alle pulsazioni delle cose, certe predilezioni letterarie: magari, molto sullo sfondo, un Leopardi della «doppia vista», e il d'Annunzio dell'alcionio diario stagionale; o, più vicino, il «caro/ Govoni» degli stupori minimi, della metafisica del quotidiano (ma esiste anche, solo apparentemente anomalo, un Kafka «appena conosciuto», a siglare, nella sezione finale, l'esito disappropriato della «ricerca solitaria come un vizio»). Il monotonalismo rivela dunque, da ultimo, la doppia leggibilità di un livello immobile (le certezze della continuità meteorologica, stagionale, del tempo) e di un pulsare sommerso, che sostituisce al «battito del tempo reale» un ritmo da extrasistole, la cui intermittenza provoca, ai confini del buio «dolcissimo»_,il richiamo di istantanee memoriali, epifaniche e subito estranee come la figura su cui si interrompe la «langue reverie»: «Esce senza vederlo, s'avvia, chiusa / nella salute e nella solitudine I dei diciannove anni, chissà dove». '

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