Alfabeta - anno VI - n. 62/63 - lug./ago. 1984

&listranieriallaILI Biennale .... ...... c::s XLI Biennale Venezia, giugno 1984 ue anni or sono, commentando in Alfabeto n. 38/39 (luglio-agosto 1982) la XL Biennale veneziana, iniziavo il mio discorso con questa frase: «Si è davvero toccato il fondo della mediocrità?» Oggi posso ripetere la stessa frase, precisando però che il fondo probabilmente non si è ancora toccato. Eppure non sarebbe giusto non riconoscere l'esistenza d'una certa ripresa: nel marasma di questa Biennale - accanto a intere sezioni che ci repugnano - esistono delle zone «di rispetto», costituite in parte da maestri di ieri, ma anche da alcuni giovani d'oggi, che ci fanno sperare come, nonostante tutto, esista ancora un futuro per le arti visive, come rivela del resto la presenza di una pluralità di posizioni e di indirizzi nei diversi padiglioni stranieri - quelli, appunto, di cui intendo trattare. Pluralità di posizioni che è in netto contrasto con la volontà unificatrice del padiglione centrale, dove - nella sezione «Arte allo specchio» - Maurizio Calvesi ha preferito raccogliere sotto il segno del recupero storico, del revivalismo culturale, non solo gli artisti ; che effettivamente seguono questa ambigua volontà di imitare epidermicamente alcuni stilemi d'un passato neppur «beo digerito», ma anche altri che ne sono senz'altro lontani. Ed è il caso, ad esempio, dell'ottima personale dell'austriaco Arnulf Rainer - beo noto per le sue fotografie graficamente modificate - che resulta totalmente in distonia con le personalità che gli stanno accanto e che lo stesso artista contesta giudicandole aliene dal suo lavoro. Come accostare, infatti, dei recuperi abborracciati e tecnicamente infelici come quelli di tanti «memorialisti», con l'efficace utilizzazione dei «segni» fotograficamente ingranditi d'un Goya o d'un Griinewald, sui quali Rainer ba costruito le sue felici trame autoproiettive? Sarebbe una fatica inutile e frustrante quella di dilungarsi su alcune «stazioni» di «Arte, ambiente, scena» come quella dedicata al Kitsch infantile e zuccheroso di Thomas Lanigan-Schmidt, o quella di Justine Colette, o di Ulrike Rosenbach; mentre vorrei notare la curiosa e abile ambientazione della nota body-artista Marina .5 ~ XLI Biennale ~ Venezia, giugno 1984 ~ .... ~ ~ f 1 F erita a morte dal '68, inquinata da spartizioni politiche, dissestata da scarsità di fondi, mortificata dal livello delle liti tra i critici (inclusi ed esclusi, raccomandati e non ancora, adescati e ~ poi cestinati), la XLI edizione del- ~ la Biennale veneziana costituisce i:: l'ennesima prova che solo in Italia ~ accadono ancora i miracoli. Mira- 1'1 ;g_ colo è il fatto che si sia riusciti ad ~ aprirla. Abramovié, metamorfosata, qui, in un macigno occhieggiante una video-sequenza di paesaggi rupestri; e ancora l'impeccabile «Ultima scena» dell'austriaco Hans Hollein (a cui, tra l'altro, va il merito d'aver presentato la ristrutturazione del padiglione di Hoffman, con una preziosa esposizione dell'opera di questo grande architetto). Nella sezione di «Arte allo specchio» - la meno convincente di questa Biennale - pochi artisti stranieri ci persuadono, a partire dai troppo magnificati Garouste e Cane, per non dire di Alberola, e Lebrun; di grande efficacia, invece, seppur basata sopra un'eccessiva truculenza mitagogica, «La morte di Encelade» dei coniugi Poirier, dove occhi giganteschi, colpiti dai fulmini bronzei di Giove, riposano tra le rovine di templi greci divelti. M a è soprattutto attraverso l'esame dei padiglioni stranieri che è possibile tentare un bilancio della attuale situazione «planetaria» nel campo della visualità. Certo: ogni protagonista straniero costituisce soltanto un singolo aspetto dell'arte del suo paese. E spesso il più deteriore. È il caso - e conviene dirlo subito - dell'Usa, col suo «Paradise Lost / Paradise Regained»: povero Milton utilizzato come pezza d'appoggio a frenetiche e spesso stolide composizioni dove s'alternano visioni apocalittiche di paesaggi tecnologici come quelli di Robert Yarber a fragili memorie bambinesche come quelle del reverendo Howard Finster («È un peccato che questo mondo debba perire»). Difficile immaginare una peggiore accozzaglia di cattiva pittura, di infantilismo mentale, di presunzione apocalittica. Quando si riflette all'epoca aurea in cui sbarcavano a Venezia i giovani (e già grandi) del· pop (mentre oggi i pannelli cerami~ di Rauschenberg ci lasciano alquanto perplessi anche se qua e là emerge la sua vena ironica e blasfema), non si può che rimanere profondamente delusi. Che, tuttavia, non sia tutta qui l'arte dei giovani statunitensi Io prova la presenza, nel padiglione centrale, d'un ambiente giocoso e vivace come quello del «patternpainter» Robert Kushner, come lo prova la presenza ali' «Aperto 84» (nei Magazzini del Sale) dei cosiddetti «graffitisti» newyorkesi: Gillo Dorfles Keith Haring, A One, Rammelzee, Ronnie Cutrone, Kenny Scharf. Si potrà fare ogni riserva sulla «durabilità» della loro opera, ma è chiaro che questi giovani sono ancora abbastanza spontanei e abbastanza autentici (se il mercato non li rovinerà) per testimoniare dell'esistenza di qualche nuovo fermento e di qualche inedita possibilità di invenzione pittorica. La velocità del tratto di Haring, la volumetricità carnevalesca di Cutrone, e di Sharf, denunciano una capacità di esprimere con immediatezza i propri impulsi e le. proprie cariche patetiche, di utilizzare il segno nella sua essenzialità, liberato dalle pastoie del chiaroscuro, della prospettiva, del tonalismo atmosferico, e ricondotto a una scarna ma ben definita semanticità. Ecco perché questo genere di pittura - così antiaccademica, antipompieristica, anticolta - mi sembra più passibile di sviluppi che non certe elucubrazioni cerebrali e iperconcettuali o certi inani recuperi d'un passato «che non macina più». Alberto Fortis Un altro padiglione che presenta un artista decisamente segnico - ma non un ventenne in questo caso - è quello francese. È il caso dell'ottantenne ma sempre vivace Jean Dubuffet, con i suoi vasti telai dove matasse variopinte di ghirigori arruffati colmano l'intera superficie senza giungere mai a costituire vere e proprie figurazioni. Ebbene, se Dubuffet non è qui all'altezza delle sue fasi migliori, quando attorno agli anni sessanta costituì una delle poche voci autonome nel grigiore della pittura francese, tuttavia dimostra di avere ancora una vitalità invidiabile e di aver forse recuperato una sorta di astrazione organica più di quanto non avesse fatto n~lla prolissa iracolo ù@.. p Il padiglione italiano mantiene sempre una media qualitativa alta. Confrontato ai 37 padiglioni stranieri - fatti salvi quello della Repubblica federale tedesca con Baumgarten e Penck, e quello jugoslavo per via dei manifesti di Bucan - presenta una campionatura di grande professionalità. Naturalmente non è l'Eden. I commissari sono critici distanti anni luce tra loro per estrazione e cultura. Tuttavia, Lorenza Trucchi ha trovato modo di situare, col rilievo dovutole, una pittrice come Titina Maselli,"cui solo oggi si riesce a guardare con occhi sgombri da scorie neofigurative, apprezzando nelle sue grandi tele una certa anticipazione della pop art e l'energia coloristica priva di enfasi. Ottimamente funziona Enrico Castellani (ma perché solo due opere?); buona tenuta hanno anche altri artisti, per altro assai noti negli anni sessanta e settanta, come Gianni Colombo, Toti Scialoia, Giuseppe Uncini, Giò Pomodoro. «Arte, ambiente, scena» e «Arserie della sua Hourloupe degli anni settanta. Un altro artista decisamente segnico, che assolve con autorità al suo compito di unico rappresentante nazionale, è Penck, qui presente nel padiglione della Germania federale con gigantesche composizioni prevalentemente in bianco e nero, tutte irsute dei suoi personaggi elementari e fantastici, a mezza strada tra le figure dei graffiti camuni e certi geroglifici criptici di Klee. Penck non possiede la robustezza di altri neoespressionisti germanici (tra gli svizzeri-tedeschi vorrei ricordare qui Stalder e la allucinata sala di Miriam Cahn nel padiglione svizzero), ma si è liberato - più di molti suoi colleghi e coetanei - del peso di troppe memorie d'un passato recente e, in compenso, costituisce con la sua opera uno degli esempi di come oggi sia possibile adottare una nuova figurazione senza scendere a compromessi con il neoclassico o il neometafisico. Chi invece è ancora immerso in -un tipo di astrazione «naturalistica» dai caldi e dolci accordi tonali è Howard Hodgkin, un artista cinquantenne che non aggiunge nulla al panorama dell'arte inglese alla metà del secolo (ricordi di Sutherland non mancano), ma che è in grado di rappresentare degnamente il suo paese alla Biennale. Anche l'argentino Segui, con le sue figurazioni popolaresche e ironiche, lo spagnolo Clavé con le vaste e spesso troppo elaborate stesure polimateriche, lo jugoslavo Bucan con i suoi incisivi manifesti grafici, l'olandese Armando (erede d'un informale monocromo,. anzi a-cromo), sono esempi di partecipazioni uniche ma sufficientemente convincenti; anche se nessuno di loro aggiunge una sillaba nuova al complesso linguaggio dell'arte contemporanea. A questo punto (anzi, sarebbe stato più giusto iniziare da qui il percorso di questa Biennale), un cenno va fatto alla grande mostra «Le Arti a Viènna dalla Secessione alla caduta dell'Impero», che meriterebbe un'analisi ben più estesa perché costituisce l'unica decisiva «presenza storica» di questa edizione. Che dire della grande epoca secessionista austriaca che già non sia stato detto in questi ultimi anni, dove l'infatuazione absburgica ha fatto scoprire tanti manoscritti te allo specchio» sono le due grandi rassegne che si allacciano e si snodano nel padiglione centrale ai Giardini, diciamo il clou della Biennale firmata da Maurizio Calvesi. La prima riferisce, attraverso installazioni-video e video-tapes, su tutto quello che, sul finire degli anni sessanta, fu commistione tra tecniche varie e testimonia di happenings, performances, azioni parateatrali, films, uso altro della foto, ecc. Un elenco di autori da non trascurare potrebbe essere il senascosti e tante inesplorate ricchezze filosofiche e artistiche? Quello che già si sapeva: ossia la grandezza d'un Klimt - un artista che per tutt'altre strade di quelle cubiste e futuriste giunse all'astrazione, alla totale oggettualizzazione della figurazione, ma con una ricchezza cromatica e compositiva che, da sola, costituisce la base per le successive operazioni dei Klee e dei Kandinskij. E oltre a Klimt, naturalmente, c'è la acida pittura del «giovane maledetto» Schiele; quella turgida di linfa borghese del possente Kokoschka e del bonario Kolo Moser; e c'è soprattutto la grande stagione architettonica dei Wagner, Hoffman, Loos, Olbrich, Fabiani... che sono scarsamente illustrati rispetto alla vastità della loro opera, mentre hanno qui parecchi esemplari dei loro geniali mobili, dei loro manifesti, della loro grafica. Ma, tolti questi e alcuni altri protagonisti (come Kubin, Mallina, Kalvach, Krenek, Prutscher, Loffler), devo confessare d'aver trovato la mostra troppo infarcita di presenze secondarie (soprattutto pittoriche) e troppo poco esemplificativa degli aspetti veramente innovativi di questa eroica stagione viennese. Per la delizia degli appassionati della Kultur mitteleuropea, tuttavia, segnalo alcune bacheche dove si possono leggere con emozione e venerazione diverse ghiotte esemplificazioni di lettere e manoscritti di Freud, di Spengler, di Mahler, di Webern, ecc.; a dirci dell'incredibile convergenza - in quegli anni fatali per l'Europa - di tanti diversi eppure interagenti pensatori e creatori. Come accade_sempre, lo «spazio concessomi» mi vieta ogni approfondimento e ogni ulteriore critica circa i giovani esposti ai Magazzini del Sale di cui ho citato solo i graffitisti statunitensi. Poco altro di positivo ci sarebbe da elencare, non volendo infierire sadicamente sulla congerie "diartisti votati a un sicuro fallimento e qui presentati. Vorrei, tuttavia, ricordare almeno la curiosa «oggettualista» inglese Helen Chadwick; i pittori americani Connie Beckley e Richard Hambleton; la presenza non ingrata di due scultori come Peter Shelton e Robert Therrien. Forse troppo poco per un così folto drappello giovanile; ma per lo meno non inficiato da rifacimenti accademicoallegorici o da pletoriche composizioni storico-mitologiche. guente: Nam June Paik, Bob Wilson, Gilbert and George, Terry Fox, Hans Holl~in, Dorothee Von Windheim, Ulrike Rosenbach, Valie Export,· Giuseppe Chiari, Luca Patella, Eliseo Mattiacci, Urs Luthi, Marina Abramovié, Rebecca Horn, Laurie Anderson, Allan Kaprow, Dan Graham, Richard Serra, Dennis Oppenheim, Alighiero Boetti, Fabrizio Plessi, Vito Acconci, John Baldessari, Bruce Naumann, Joseph Beuys. La seconda, «Arte allo specchio», svolge - scrive Calvesi - «il

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