quanto siamo venuti qui approssimando); così come ne è parte l'esplicito e, in questa sede (ancora nel n. 57 di Alfabeto), programmatico affidarsi di Porta alla diretta vitalità del «sentimento» nella forma poetica; o, detto altrimenti, il rinnovato bisogno dello scrittore di vedere più lontano, «da presbite», come ha suggerito sempre qui Raboni (Alfabeto Ìl. 58). Tutti questi segni danno esca, in vario modo, parallelamente, alla nuova formulazione di «grande stile» di cui ha parlato Gian Luigi Beccaria sul n. 2-3 della nuova serie di Sigma (anno XVI): che non vuole certamente essere un ritorno allo stile solamente «alto» di certo Novecento ma, al di là del prevalente lavoro dello scorso decennio sul significante e sulle troppo presenti occorrenze dell'inconscio, vuole opportunamente prospettare la ricostituzione dell'«io» dello scrittore, in tutti i suoi possibili e molteplici spessori. Nell'alto come nel basso dello stile, in un rapporto più attentamente calibrato fra l'interno e l'esterno della scrittura, fra il simbolico e il sociale, fra la letteratura in lingua e quella «in dialetto» (nei tutt'altro che dialettali Pierro, Guerra, Pedretti, Baldini, Loi, Giacomini, ecc.); nella rinascita energica, fra significante e significato, di un rapporto stilistico di scrittura inteso come matrice originaria e finale dell'espressività poetica, in quanto senso e durata. Se tale ne sarà l'esito, non avranno alla fine peso, se non momentaneo (momenti magari lunghi, logoranti), le invadenze oggi particolarmente vistose del mercantilismo, dei mass-media o della stessa letteratura intesa soprattutto come spettacolo. Anche la ricerca del best-seller a tutti i costi ne può essere parte vistosa, ma infine non essenziale. Chi ricorda oggi più di tanto che, nei primi decenni del secolo, ci fu chi temette per la sopravvivenza della letteratura, al momento della nascita prepotente del cinema, e poi della radio e della televisione? Si dimenticava, e anche oggi talvolta si dimentica, che ali' origine (e alla fine) di ogni forma di spettacolo e di ogni mezzo di comunicazione di massa c'è la parola pensata, pronunciata e infine scritta da un autore. Anche il regista cinematografico scrive con la macchina da presa opere nate dalla parola, come tale destinata a durare. È autore in ogni senso anche lui! La parola dello scrittore è tuttavia ancora diversa. È per sua essenza un mutante; si trasforma e rinnova, via via che muta il contesto che la invade e a cui dà forma. Si dirama e si insinua, anche non voluta, negli interstizi e nei vuoti del mondo storico (vive negli anfratti, come suggeriva Montale a Il senso della letteratura / Riferimenti proposito della storia in una sua famosa poesia). È sempre più in là del reale e dei suoi mille apparenti schermi: a creare simboli, spessori, a dar forma anche all'effimero. Non ne muta l'essenza, neanche nel tempo del computer e della telematica. Apparentemente ignorata, inascoltata, la parola è fatta per durare un istante o un secolo più dell'ultimo e più aggiornato spettacolo del mondo. La parola scritta ha infatti il ritmo e il senso, il battito interno, l'accelerazione e le pause di chi l'ha scritta e di chi la legge; ne ha la prima e l'ultima libertà. Sua essenza è il clinamen stesso della vita profonda di chi l'ha scritta, é di chi la legge. Di fronte a essa, vale ancora e sempre, al di là di tutti i programmi e precetti, quello semplicissimo e tuttavia immutabile di un grande critico come Sainte-Beuve, riportato, or è un anno, da un lettore di professione come Carlo Bo ( Corriere della Sera, 23 marzo 1983), che discutendo di questi temi ripeteva fedelmente: «Leggete, leggete, rileggete». In queste parole è ben più che un programma: c'è un senso e una dimensione infine perenne del nostro argomento; l'indicazione della sua durata nel tempo storico e più in là, nell'emblematicità dello spazio-tempo, che è luogo per eccellenza dell'invenzione letteraria, sede concreta e tuttavia intemporale della sua invariabile essenza. Il dibattito su «Il senso della letteratura», cominciato su Alfabeta n. 57, ha accolto finora interventi di F. Leonetti e A. Porta (n. 57), G. Raboni (n. 58), G. Gramigna (n. 59), R. Lup_erinie R. Carifi (n. 60), e, nella serie «Riferimenti», contributi di G. C. Ferretti, F. Muzzioli, A. Guglie/mi, G. Patrizi. LaricercainGermania 11 senso della letteratura è un non-senso. Lo scrittore - scriveva Franz Kafka, in una lettera a Max Brod - «è il capro espiatorio dell'umanità, egli consente agli uomini di godere senza colpa, quasi senza colpa, un peccato». Naturalmente oggi questo linguaggio ci sembra estraneo, dal momento che - si dice - «there is no 'gap' between art and !ife» (Rafael Ferrer). E anche il vecchio Gottfried Benn, che si ostina a ripetere: «Ciò che vive è qualche cosa di diverso da ciò che pensa», risulterebbe oggi confutato dal culto dell'uomo-macchina il cui modello è la produzione industriale in serie o, in altre parole, dalla celebrazione della 'convenzione' che stabilisce un salutare ponte tra vita e arte, tra vita e non-vita attraverso il linguaggio, sia esso inteso come onnipotenza multimediale in grado di articolare un campo sterminato di percezioni o come un sistema segnico astratto attraverso il quale l'esperienza viene deliberatamente falsificata e schematizzata. Il presupposto di tutto questo è la riduzione dell'interessante, che già in Fr. Schlegel costituiva una segnatura del moderno, sia pure negativamente condizionata da una vocazione nichilista ('interessante' come inter-esse tra possibilità godute nello stato di sospensione), alla pura indifferenza di fronte a preordinati sistemi di valori o interpretazioni del mondo e quindi alla fungibilità di ogni esperienza in generale. Alla coscienza dello scrittore di oggi, che è una coscienza eminentemente 'protocollare', per così dire rilevabile su nastro magnetico, il problema del senso della letteratura sembra dissolversi nel gioco sperimentale delle operazioni metalinguistiche, come negli Sprechstucke di P. Handke, nelle combinazioni seriali di un Heissenbiittel e di un Mon, ovvero si disloca nel virtuosismo delle tecniche, dalla i:s permutazione dei ruoli e delle mi- -~ croprospettive ai montaggi di cita- .g_ zioni e ai collages di testi fino alla riduzione del materiale verbale a ~ ...... mero segnale ottico o acustico, cog me nel neosurrealista Kauder- ~ welsch di Jandl. .bo Potremmo dire che il senso del ...... 'O produrre letterario si risolve in ~ quello immediato e circoscritto di ~ una pratica di scrittura, nel suo l senso più vasto e arbitrario, carat1:s terizzata dall'anonimo, dalla presenza massiccia e tirannica di quello statuto interpretativo della banalità quotidiana che prende forma nel Man heideggeriano. La cancellazione del senso è dovuta al fatto che la letteratura non rappresenta né può più rappresentare la vita: essa è una semplice «estrinsecazione vitale», una «Lebensausserung», come dice D. Wellershoff parlando del «romanzo concreto» di Sollers. Dopo i «testi intorno al nulla» di Beckett l'autore si ritira nel suo asylum di neutralità, si rifugia nel proprio paradiso tecnologico, portando alle estreme conseguènze un processo di desublimazione che ha ridotto il mondo a una superficie Ferruccio Masini proprio narcisismo che faceva vedere a Kafka nello scrittore «il capro espiatorio dell'umanità». Di qui a considerare che tutto è arte e che ognuno è artista il passo è breve: quello del senso della letteratura può apparire tranquillamente, a questo punto, un falso problema, se è vero che la demitologizzazione del mondo ha fatto di esso un puro assemblage di materiali, una mera riserva di esperienze messe a disposizione del gioco artistico, sia esso distruttivo o riproduttivo, esperienze aperte alla passività del soggetto, consegnate all'effimera euforia della sua negativa libertà. Potremmo pensare, ad esempio, alle macchine distruttrebbe giungere a pensare che anche il problema del 'senso' riguardi la letteratura in maniera non dissimile. Il senso della letteratura è infatti cooriginario al suo nonsenso. La qual cosa, tuttavia, può essere pensabile solo qualora si intenda ancora una volta il problema del senso come un problema di trascendenza, vale a dire come la perentoria trascendenza di ciò che non può essere integrato nelle regole del gioco di una legittimazione volta a introdurre nella letteratura il dominio dei valori 'deboli', facendo dello scrittore un semplice ricettore e della liquidazione del soggetto lo strumento di una desublimazione che ha la sua base nelPicasso seduto sul sipario di Parade appena terminato, 1917 senza profondità, a un vuoto di trascendenza. Un senso come tale, tuttavia, implica sempre una trascendenza. Ma il cerchio dell'immanenza si chiude sulla concezione di una letteratura o dell'arte in generale emancipata - direbbe Gehlen - da quell'«ethos dal quale secoli or sono era scaturita: la libertà nell'obbedienza, nel porgere ascolto e nel seguire». In questo modo l'uomo viene difeso da se stesso, o più precisamente viene espropriato da sé per essere tutelato contro quella masochistica e sacrificale autolegittimazione del tive di Tinguely, ai ready-mades di Duchamp o, in generale, all'inevitabile coincidenza di un'estetica del 'privato' con il puro occasionalismo, oscillante da un inventario di percezioni, partiture di azioni acustiche o sceniche, alla registrazione monomaniacale per accumulo di dettagli o drenaggi non-significanti di 'rimossi'. Ma se è vero quanto afferma Heidegger in Sein und Zeit sull'implicazione di verità e non-verità nel rapporto che l'Esserci ha con l'Essere, poiché l'Esserci è tanto nell'una quanto nell'altra, si pol'autonegazìone di competenza e il suo punto di arrivo nell'equazione di scrittura e tecnica combinatoria o mero arrangiamento del fattuale. Proprio in quanto il senso della letteratura può declinarsi solo attraverso il suo non-senso, è evidente che la sua trascendenza è vuota, senza tuttavia necessariamente coincidere con quella «stilizzata barbarie», con quel «sistema di non-cultura» di cui parlava Nietzsche. È la trascendenza di una poesia «assoluta» ,cpenasce da ogni cosa e «non si rivolge a nessuno», è l'«Anti-sinteticità» di un «uomo tra virgolette», ma è anche la «trascendenza del piacere sfingico» (G. Benn): siamo qui di fronte a un modo diverso di impostare il problema del senso all'indomani della dissoluzione dell'umanesimo. Qui senso non significa più umanizzazione del discorso, centralità di un ordine di valori di cui l'uomo costituisce l'asse fondante. La liquidazione della verità garantita in termini di Humanitas impone paradossalmente la necessità di costruire un mondo, quello appunto della letteratura, come evento all'interno del quale si sostituiscono i significanti, o, se si vuole ancora ricordare Benn, come «appercezione trascendentale», come stile. L'essere diventa così «sogno della forma». Risulta chiaro ora che in questa prospettiva in tanto la letteratura potrà avere un senso, in quanto è destinata a metterlo in gioco, così da fare di esso il non-fondamento su cui si fonda l'essere della letteratura stessa. Ciò avviene perché in definitiva il suo senso è un senso altro da quello dell'uomo quale signore di quella verità che si esprime come universo letterario, demiurgo di quei valori eh~.presiedono all'istituzione letteraria e fanno della letteratura l'affermazione piena della Humanitas. Questo senso altro si nasconde nell'indecifrabilità della sua trascendenza. Non si spiegherebbe altrimenti perché per Kafka sia un torturante «fuori del mondo» la condizione di chi si sente -«capro espiatorio dell'umanità», ed egli intraveda proprio nel suo peccato (la letteratura come 'peccato') il tramite di una possibile-impossibile liberazione. Questa trascendenza è vista da Kafka nell'orizzonte di una umile quotidianità: vale a dire come la solitudine di chi rifiuta di star lontano dalla propria scrivania e accetta su di sé il rischio di un'esistenza «ai confini dell'umano»: «devo aggiungere - scrive ancora nella lettera a Brod - che nella mia paura del viaggio ha preso parte la considerazione che almeno per qualche giorno dovrò star lontano dalla scrivania. In realtà questa ridicola considerazione è l'unica giustificata, perché l'esistenza dello scrittore dipende realmente dalla scrivania, e se vuol evitare la follia non deve, a rigore, allontanarsi mai dalla scrivania, vi si deve attaccare coi denti».
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