passa da una situazione a un'altra secondo uno svolgimento sensomotorio. Il neorealismo di Rossellini, De Sica, Visconti, Antonioni e Fellini non è tanto caratterizzato dal problema di una nuova forma o di un suo nuovo contenuto sociale; questi aspetti derivano da una ragione più complessa, e cioè dal fatto che i loro film separano definitivamente la percezione dal suo prolungamento motorio, razione dal filo che runiva alla situazione, raffetto dall'aderenza e dall'appartenenza ai personaggi. Si annuncia il crollo detrimmagineazione, del sogno americano, che più tardi anche negli Usa sarà ripreso da autori come Altman, Cassavetes e Lumet. I personaggi in stato di semi-impotenza non sanno più cosa fare e si vengono a trovare in situazioni quotidiane o straordinarie al di là di ogni azione o reazione possibile. La straniera di Stromboli dinanzi a!r eruzione del vulcano esclama: «È troppo intenso ... è finita... bo paura ... che mistero... che bellezza... mio Dio!» E laborghese di Europa 51, dinanzi alla fabbrica, balbetta: «Ho creduto di vedere tutti i condannati ... » Un cinema di veggenza: il grido di denuncia ha superato ogni confine tra il reale e rimmaginario, per prod_urreun circuito dove sono entrati i personaggi, le còse e anche rautore; si è formata un'immagine-cristallo, che rivela la dimensione stessa del tempo - abominio e splendore. A partire dal neorealismo, la nuova immagine rinvia al secondo livello della tesi bergsoniana applicata al cinema: il tempo non è più derivato dalla composizione delle immagini-movimento grazie al montaggio, il cui ruolo diviene secondario; è invece il movimento che scaturisce da questa veggenza cristallizzata dell'immagine-tempo, inscrivendosi in particolari cronosegni. Come in Bergson, il tempo entra in un rapporto originale e complesso con il tutto, diventa un tutto-aperto, l'evento che si sta facendo e che cambia e continua a cambiare a ogni istante, passaggio continuo da un sistema (inquadratura) all'altro. Fellini lo suggerisce quando spiega che siamo contemporaneamente l'infanzia, la maturità e la vecchiaia; Ozu, autentico precursore, lo filmava già prima della guerra: il tempo particolare della banalità degli eventi in situazioni ottiche e sonore pure. L'immagine acquistava pertanto, nei suoi nuovi rapporti con gli elementi ottici e sonori, una nuova visibilità e anche un'autentica leggibilità proprio per il suo carattere di veggenza che rendeva possibile un'inedita pedagogia (lectosegni). E l'immagine diventava anche direttamente pensiero, così come la cinepresa cominciava a assumere diverse • funzioni proposizionali (noosegni). Per evitare di rimanere semplicemente un insieme di relazioni formali o una facile parodia, l'immagine doveva trovare però la sua sostanza; ci volevano condizioni storiche e sociali determinate, molto rispetto e amore, come dicevano i neorealisti; ci voleva lo slogan di Godard, «Pas des images justes, juste une image», che tentasse di strappare proprio l'unica possibilità dell'immagine al complotto dei cliché in aumento dappertutto. Autonomia e vitalità. Con quale politica e quali c~mseg~enze?- si chiede Deleuze. E ancora cinema, classificazione logica, filosofia: Cinema Il - L'image-temps, il prossimo libro. Il fondamentodelmimo Étienne Decroux Parole sul mimo a c. di Valeria Magli trad. it. di M. Caronia e G. Poli prefazione di G. Strehler Milano, Ed. del Corpo, 1983 pp. 185, ili., lire 16.000 e on notevole ritardo sull'uscita, ma sempre in anticipo sulla teatrologia italiana, di questi tempi arroccata su posizioni di annaspante pseudoriflessione per trovare una qualche ragione al riflusso del pubblico, eccoci a segnalare uno dei libri di teatro più importanti degli ultimi tempi. Parole sul mimo è il titolo delrunica raccolta di scritti di un maestro, Étienne Decroux, comparsa nel 1963in francese e recentemente tradotta (da Maria Caronia e Giovanna Poli) per i tipi delle Edizioni del Corpo. Mentre il nome di Decroux è sconosciuto al grande pubblico, sono famosi molti di coloro che lo riconoscono come uno dei maestri della scena contemporanea. Tra essi Giorgio Strehler, che firma la prefazione all'edizione italiana. Era dunque lecito aspettarsi una buona eco al libro da parte degli addetti ai lavori, apche per diradare i pregiudizi ormai diffusi nei confronti del mimo. Per uno spettatore di questi anni il termine mimo è associato a un panorama di smorfiette e mossettine, di calzemaglia aderenti e nasini rossi, di scenette che propongono un irreale e grottesco linguaggio da sordomuti dilettanti. Il senso comune, in realtà, non accusa il mimo ma quella pantomima pervertita che già faceva indignare Antonio Artaud. Le sciocchezze più o meno generose che sempre contornano il teatro in fase di espansione e che connotano sia la «fretta di fare» che la mancanza di modelli forti cui riferirsi, prendono spesso il nome di mimo, da quando il «mimo corporeo» moderno esiste, ovvero dacché per mezzo di Decroux esso si è affermato come disciplina. Tra i grandi del teatro novecentesco, alcuni hanno irradiato la propria influenza attraverso gli ~ spettacoli allestiti, a cui poi un cor1:s pus di scritti faceva riferimento; -~ altri hanno agito soprattutto attra- ~ verso la scrittura e la biografia tea- ~ trale in senso lato (Craig e Ar- ...... taud, per esempio); altri ancora g per mezzo dell'insegnamento. -~ Tra questi ultimi c'è Étienne ao Decroux. Dal 1940- anno di fon- .... 10 dazione della sua scuola, frequen- ~ tata da allievi di tutto il mondo - a ~ oggi (Decroux ancora insegna nel l seminterrato della sua casetta), il ~ fondatore del mimo moderno ha lavorato, con la sua dolcezza e la sua severità ormai proverbiali, con tre generazioni almeno di interpreti della scena. E sempre in coerenza con la sua autentica e aristocratica vocazione anarchica da cui consegue, tra l'altro, che non ha mai goduto di alcun appoggio pubblico, anche quando il ministro Lang e il presidente Mitterrand hanno dato corso a una sfrenata politica di nomine e premiazioni di gente dello spettacolo. Sicuramente alla sua morte, che speriamo lontanissima, troveranno il modo di «recuperarlo», come si dice in gergo, magari dando il suo nome a uno dei tetri e ricchissimi edifici che la Francia innalza alla Cultura. P osto che non possiamo considerare Decroux responsabile della paccottiglia che generalmente prende il nome di mimo, resta il problema di una valutazione della sua presenza. È tuttavia un problema che egli stesso elude, almeno in termini convenzionali, dal momento che ha rinunciato alle opere-modello e si è dedicato alla formazione di interpreti dei più diversi contesti, limitandosi a licenziare, come testo teorico, una raccolta di articoli che vanno dagli anni venti al 1962, spesso dichiaratamente contraddittori sulla stessa definizione del mimo, e qualche volta dallo stile difficile o involuto. Qualche esempio: «Il teatro è l'arte dell'attore» (1931, p. 44); «Rappresentare una storia senza parlare significa mimarla» (1962, p. 75); «Tanto più che il mimo è l'essenza del teatro, che è invece un accidente del mimo» (1948, p. 38); ma ecco un riassunto della sua idea: «l'attore non è altro che un mimo, I il mimo è una vera tecnica, / la tecnica immunizza chi la possiede da due arbìtri: quello della moda e quello del maestro, / la tecnica elimina i mediocri, sfrutta il talento medio ed esalta il genio» (p. 163). Conviene dunque accettare l'incertezza e essere con lui non sul versante dell'opera ma su quello del lavoro, ossia partecipi del tentativo, ancora in corso nelle società post-tradizionali, di definire, se non le leggi, almeno le costanti del comportamento in situazione di rappresentazione. Apparentemente un determinismo idealistico, in realtà il suo contrario: Decroux ha un approccio scientifico all'esperimento, che conosce il suo momento più debole nella formalizzazione teorica e nella memoria orale poiché la sua sostanza rimane teatrale, fisica, concreta, trasmissibile solo corpo a corpo. Antonio Attisani Di Decroux si può dire ciò che lui ha detto di Gordon Craig: «Prima di dire che non riuscì a fare nulla, bisogna dire chi ha realizzato quanto Craig non ha potuto realizzare, e non ciò che non ha voluto realizzare».A questo punto è forse opportuno indicare l'obiettivo di Decroux, il fascio di ipotesi che guida i suoi esperimenti. In termini estetici potremmo parlare di una ricerca di tragico contemporaneo. Decroux definisce il teatro come «un lavoro che occupa quasi tutta la nostra vita, l'insorgere dei problemi, i tentativi per risolverli, l'incapacità di go- · dere del presente» (p. 76). Rileviamo innanzi tutto un completo disinteresse per il teatro che invece viene considerato «normale», il teatro d'intrattenimento, e la visione di una condizione umana dilaniata e percorribile solo attraverso l'impegno del lavoro. Il lavoro è per lui una categoria gnostica, concentrato com'è nei suoi effetti sul corpo e nell'acquisizione rigorosa delle tecniche («Esigo che chi stona con l'intenzione di divertirmi mi dimostri di saper cantare correttamente», p. 122; e ancora: «Quando avrà finito il mio corso, l'allievo che vorrà scoprire i movimenti brutti non studiati, non si troverà minimamente in difficoltà», pp. 154-55). Siamo dunque a una concretezza che non manca però di prospettiva trascendente e che, se da una parte concede a alcuni miti del tempo, dall'altra evita qualsiasi ambigua catarsi. Quella parte dei suoi scritti che riguarda il dilemma se il mimo sia una sottospecie dell'arte attorale o qualcosa di più, risulta - l'abbiamo detto - contraddittoria e datata (come anche Decroux riconosce), e rischia di creare un apparato argomentativo che distrae dalla vera sostanza della sua elaborazione; così come sarebbe fuorviante assumere a modello le trame semplicistiche dei suoi spettacoli («per civetteria, per dimostrare che la nostra arte può fare tutto, ho raccontato delle storie senza parole e il mio successo è stato nullo o quasi», p. 134). Per non essere troppo presi dalla griglia retorica decrousiana sarebbe opportuno avere presente un quadro di riferimenti storici, sapere cioè del teatro e della cultura contro cui Decroux voleva influire. «Nel nostro mimo corporeo, la gerarchia degli organi di espressione è la seguente: prima il corpo, poi le braccia e le mani, infine il volto. Da che cosa deriva la mia preferenza per il corpo? Ecco: gli organi di espressione del corpo sono grandi, quelli del viso piccoli. Il corpo è pesante, le braccia leggere» (p. 87). L'attenzione per il corpo, e per una sua parte ritenuta poco espressiva come il busto, nasce in contrapposizione a un teatro di smorte litanie, mondane, piccolo borghesi o proletarie poco importa; le sue rappresentazioni ripetute dei «mestieri» e di vicende quotidiane vanno intese come restituzione al teatro della rappresentabilità del contemporaneo. In questo movimento di contrappunto i suoi testi sono cosparsi di indicazioni, a volte solo di allusio_ni, che andrebbero spiegate e vanno in ogni caso afferrate. Al tempo in cui Artaud scriveva Il teatro della crudeltà, la consonante ricerca del tragico di Decroux si esprimeva su «una rivista di compagni, grigia e facile a spiegazzarsi: ciclostilata» (p. 46). E proponeva che, se «solo l'arte del- ·1•attore realizza il teatro puro», ·per ritrovare quest'arte in via di estinzione si bandisse dal teatro «per un periodo di trent'anni ( ... ) ogni arte estranea», inclusa la parola. Una radicalità facilmente contestabile: Craig gli ribatte che la sua è una «fede feroce», mentre Gaston Baty accusa il mimo di essere la bella esibizione di un arto amputato al corpo del teatro. Ma quella di Decroux è la radicalità dei grandi riformatori, che i contemporanei sono gli ultimi a capire, specie nella versione scritta. E, infine, nemmeno una radicalità ma una sapienza da coltivatore: il gesto che delimita un campo, che lo pulisce dalle erbacce e traccia un solco profondo, che semina e protegge la crescita. Il prodotto non ha ovviamente l'aspetto del seme, e la sua origine rimane ignota a chi non vuole sapere. Così, si associa magari il nome di Decroux alla moda del mimo e non si riconosce la sua influenza su alcune delle espressioni più alte del teatro contemporaneo. Perciò, «Limite del libro./ Il mimo è di moda ... » premette l'autore all'edizione italiana, con una generosità critica senza pari, e conclude: «ciò che invece ho fatto qui / è solo l'apologia della mia dottrina conquistata». S ul piano della poetica teatrale, l'insegnamento di Decroux è basato su un allenamento psicofisico intensivo che privilegia la leadership espressiva del tronco su viso, braccia e gambe, con un metodo che combina improvvisazione e apprendimento di movimenti codificati, riproduzione realistica e trasfigurazione poetica di azioni quotidiane. Dal suo metodo discende anche uno stile preciso e riconoscibile, ma la sua poetica s'incarna più precisamente in un concetto di «ginnastica», il quale a sua volta può servire alla formazione di diversi tipi di interpreti. Una sorta di protopoetica forte, dunque. «La nostra ginnastica permette di eseguire ciò che si immagina», afferma Decroux, e continua: «La ginnastica suggerisce ciò che non si pensa spontaneamente del proprio movimento» (p. 154), fino ad affermare: «Ciò che Freud vi fa dire, il mimo ce lo fa fare» (p. 144). Se la formazione dell'artista teatrale debba essere basata su una «ginnastica» è ancora oggi oggetto di discussione. La ridefinizione del teatro nel Novecento, del suo ruolo in un universo mediologico molto cambiato e ancora in trasformazione, passa attraverso un confronto con la «ginnastica», da una parte, e le «poetiche» degli altri media, dall'altra. Negli anni scorsi spesso si sono fatte scelte nette e parziali: s'è visto, per esempio, del buon mimo senza teatro nel cosiddetto Terzo Teatro, e dei buoni artisti visivi senza corpo nella Postavanguardia e dintorni. Perché non si creda che Decroux appartenga solo a un versante, o a una contingenza, come quelli, consegnamo questa sua riflessione, datata 1947: «Quinto punto: l'attore deve ispirarsi ai metodi°usati dagli altri artisti. Sesto punto: l'attore deve anche saper respingere i consigli degli altri artisti, quando essi penetrano sulla scena per colonizzarla. Settimo punto: le leggi del teatro sono ancora da trovare». Ma Parole sul mimo, oltre a essere un libro di cui d'ora in poi in Italia non è ammessa l'ignoranza, è anche una grande antologia di aforismi teatrali. Le annotazioni di Decroux, i suoi percorsi dimostrativi, si sviluppano attraverso un'osservazione ironica e un'acutezza di scrittura molto godibili. Qualche breve saggio: «In teatro, come ovunque, quando ci si occupa troppo del proprio mestiere non si ha più il tempo di guadagnarsi da vivere», «Scrivo per far pensare, non per dispensare dal pensiero, e morirò giovane ai piedi del Grande Progetto», «Copiare quello che c'è in noi di intimo è lavoro tanto sottile che una recitazione realistica merita grandi lodi. Ma, ahimè, essa non esiste». Si tratta di messaggi per la gente di teatro piuttosto che per un pubblico generico. Insomma Parole sul mimo è un potenziale livre de chevet per apprendisti teatranti di questi anni.
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