Alfabeta - anno VI - n. 61 - giugno 1984

CinemasecondoDeleuze Gilles Deleuze L'immagine-movimento. Cinema I trad. it. di Jean-Paul Manganaro Milano, Ubulibri, 1984 pp. 268, lire 25.000 Il Percepito da sé sussiste '' l'esser~ sottratto_ ad og~i percez10ne straniera, animale, umana e divina», scrive Beckett all'inizio della sceneggiatura del suo cortometraggio Film, per commentare l'adagio di Berkeley: Esse est percipi. Il protagonista, interpretato da Buster Keaton, recita, come fosse scisso in due, una sequenza di tre fasi: a. Keaton (P) fugge prima lungo il muro di una strada, poi sale su per le scale di un palazzo, sempre «minacciato» alla schiena da O (l'occhio-cinepresa); O non deve superare l'angolo di immunità che consente a P di non essere mai visto in volto: si tratta di un'immagine-azione; b. P entra in una camera, vitrova una sedia a dondolo, un gatto, un cagnolino; P percepisce soggettivamente la camera, le cose e le bestie, mentre a sua volta O, che l'ha seguito, lo percepisce oggettivamente insieme alla camera e a tutto il resto: è un'immagine-percezione, in cui l'angolo di immunità di O aumenta, pur restando sempre alle spalle di P, che deve annullare la sua percezione soggettiva affinché non sia, a sua volta, percepito; P caccia via dalla camera le bestie, copre finestre e specchi, distrugge un dossier di fotografie che ha trovato; ·c. P può finalmente lasciarsi cullare sulla sedia a dondolo, raggiungendo presto un livello di semi-incoscienza; O sì avvicina così di soppiatto, e questa volta frontalmente; volto su volto, all'espressione attenta di O corrisponde, nel brusco risveglio, il panico di P che scopre il suo doppio: si tratta di una terribile immagine-affezione, immobilità e annientamento. La ricerca del non essere, per soppressione di ogni percezione «esterna», sembra bloccarsi nell'insopprimibile percezione di sé. Ma lo scopo più profondo di questa operazione, che congiunge Beckett al cinema sperimentale, è la ricerca di un in sé dell'immagine. Risalendo dall'immagine-azione all'immagine-percezione e alla immagine-affezione, Beckett scopre il segreto stesso del cinema, l'immagine-movimento generatrice: il cinema è immagine-movimento. D eleuze spiega come Bergson l'avesse perfettamente intuito. Il primo capitolo di Materia e Memoria (1896), infatti, descrive un mondo non ordinario in universale variazione dove ogni immagine agisce su altrè e·reagisce a altre su tutte le sue facce e in tutte le sue parti elementari. Su questo piano, l'immagine esiste in sé, è materia-flusso e movimento che non può essere ricostruito con lo spazio percorso, cioè addizionando semplicemente tagli immobili e tempo astratto. Con la crisi storica della psicologia non era più possibile porre le immagini nella coscienza e il movimento nello spazio; Bergson per primo comprende come troppi fattori sociali inizino a far passare sempre più movimento nella vita cosciente, sempre più immagini nel mondo materiale. Non è più l'immagine in movimento che bisogna considerare (di qui la critica bergsoniana all'idea meccanicistica del cinema), ma l'immaginemovimento come blocco di spaziotempo, un taglio mobile della durata, una specie di purezza a-centrata. È l'universo macchinico delle immagini che costituisce allora l'universo materiale della luce, un vero e proprio metacinema. Ma la luce non è più prerogativa dello spirito come nella tradizione filosofica ortodossa; la stessa fenomenologia, pur non considerando la luce nei suoi esclusivi rapporti con l'interiorità e aprendola sull'esterno, erigeva come norma una percezione naturale che «ancorava» il soggetto percipiente al mondo («ogni coscienza è coscienza di qualche cosa»). Bergson invece afferma che ogni coscienza è qualche cosa, si confonde con qualche cosa, cioè con l'immagine di luce; l'occhio è nelle cose, è la loro coscienza di diritto, perché le cose sono luminose in se stesse senza nulla cheJe rischiari. Quel che rende un 'immagine visibile non è una maggiore quantità di luce ma un'opacità (la coscienza di fatto), a sua volta essa stessa immagine che arresta o riflette la luce, formando una sorta di superficie nera (che manca, ad esempio, alla lastra fotografica): come al cinema, dove è proprio l'immagine speciale dello schermo, e non la luce del proiettore, a rendere l'immagine visibile. Per tale ragione, secondo Deleuze, le immagini viventi diventano dei centri di indeterminazione, che si formano in un punto qualunque dell'universo a-centrato delle immagini-movimento, quando su questo piano di immanenza compare uno scarto, un intervallo tra l'azione e la reazione delle immagini. Precisamente intorno a questo particolare centro di immagine, si attualizzano e si costituiscono l'immagine-azione, l'immagine-affezione, l'immagine-percezione. Sono immagini-movimento determinate. Nel cinema si chiamano piani. Mentre l'inquadratura è limitazione, in quanto determina un sistema relativamente chiuso che comprende tutto quello che è presente nell'immagine (personaggi, accessori, sfondo), ed è pertanto taglio immobile (dove però già insistono le virtualità del fuoricampo), «il piano è come il movimento che non cessa di assicurare la conversione, la circolazione. Esso divide e suddivide la durata secondo gli oggetti che compongono l'insieme, riunisce gli oggetti e gli insiemi in una sola e uguale durata. Non cessa di dividere la durata in sotto-durate anch'esse eterogenee, e di riunirle in una durata immanente al tutto dell'universo( ... ) il piano agisce come una coscienza. Ma la sola coscienza cinematografica, non siamo noi, spettatori, né l'eroe, è la macchina da presa, talvolta umana, talaltra inumana o sovrumana» (p. 34). 11 piano si configura secondo un doppio statuto. Da una parte è teso verso l'insieme o sistema relativamente chiuso (inquadratura), di cui traduce le modificazioni tra le parti; dall'altra tende verso il tutto, di cui esprime il cambiamento. Ma questo tutto-tempo, definito da Bergson nell' EvoluzioGiorgio Passerone ne Creatrice come la coesistenza di diversi livelli di durata (di cui la materia sarebbe il più basso), è rivelato dall'immagine-movimento solo in maniera indiretta, grazie al montaggio. Il libro di Deleuze, che parla concretamente di strumenti e tecniche cinematografiche, delinea le quattro principali scuole di montaggio: quella americana di Griffith, a composizione organica, tipica dei films d'azione da De Mille a Ford; quella sovietica, dialettica, nei suoi poli organico-patetico di Ejzenstejn -e materialista di Vertov; la scuola francese di Gance e Vigo, quantitativa; e la scuola espressionista tedesca, intensiva, da Murnau a Lang. Questi fattori geografici e storici, che hanno attraversato il cinema, non devono però necessariamente indurre a considerare la storia delle immagini in termini evolutivi. Tutte le immagini, infatti, combinano diversamente gli stessi elementi e gli stessi segni, a seconda dei loro livelli di sviluppo e non per discendenze o filiazioni. Perciò L'immagine-movimento non vuol essere una storia del.cinema, bensì una specie di storia naturale Progettoper un sipario di FeliceGiani, Bologna, secolo XIX che tenti una rigorosa classificazione dei tipi di immagine seguendo i loro segni di genesi e di composizione. Mantenendosi ben distante dalle griglie interpretative linguistiche e/o psicoanalitiche («una catastrofe per il cinema»), il libro si orienta allora verso ,una rilettura originale della classificazione dei segni di Peirce, a sua volta già relativamente indipendente dal modello linguistico. Deleuze delinea una logica del cinema a vasta visione che nello stesso tempo illustra quei film di cui «ognuno di noi ha più o meno il ricordo, l'emozione o la percezione» (p. 8), con una serie meticolosa di monografie tematiche. Oltre gli autori qui citati, tra l'altro: il parallelo tra le immaginiazione di Chaplin-utensile e Keaton-macchina; i limiti del volto, il nulla dell'immagine-affezione di Bergman; lo statuto dell'immagine-percezione a partire dall'idea dello stile in Pasolini, la sua definizione di «soggettiva indiretta libera»; la descrizione del mondo originario naturalista nel rapporto Bufiuel-Huysmans (spiritualità della ripetizione) e Stroheim-Zola (forza dell'entropia dei corpi); la pulsione di servilità in Losey; la forma assorbente del colore in Minnelli; il funzionalismo del western in Hawks; il tipo di spazio del neo-western in Mann e Peckinpah; le figure del Grande e del Piccolo in Herzog; la «linea di universo» in Mizoguchi, che connette desideri, prove, pacificazioni, «l'uomo e la donna, e il cosmo» (p. 23). Deleuze e il cinema: proprio perché un film è una produzione straordinaria di segni da decifrare e rende possibile qualcosa che non è più un'immagine del pensiero secondo le regole della rappresentazione filosofica classica, ma un nuovo rapporto tra l'immagine e il pensare. Da un'arte all'altra lanatura delle immagini varia, inseparabile dalle tecniche specifiche di ognuna. Ma sia che si tratti di colori e linee per la pittura, di suoni per la musica, di parole nei romanzi, le immagini valgono solo per il pensiero che sanno creare. Insomma, grazie alle immagini-movimento, i grandi registi diventano dei pensatori. Per esempio, Kurosawa. Egli riprende un mondo dostoevskiano, i cui personaggi continuano a risalire dai.dati di una situazione molto urgente ai dati di una domanda che lo è ancora di più. E la specificità dell'atto di pensiero consiste proprio nella risalita formale da una domanda ai suoi dati. Deleuze lo dimostra nell'analisi del film Vivere: al protagonista si pone il dilemma del che fare, dal momento che è un uomo condannato a vivere solo per pochi mesi; poco alla volta il protagonista si rende conto che non potrà risolvere il suo problema nei piaceri dei bar e degli streap-tease e neppure nell'affetto di un amore tardivo. Ma quando la sua amica gli racconta che fabbrica conigli meccanici in serie ed è felice perché questi circolano in città tra le mani di bambini sconosciuti, capisce che i dati della sua domanda li troverà in un'impresa utile; contro tutti, riesce nel progetto di costruire un parco pubblico e scopre così la risposta al che fare iniziale: ha ricaricato il mondo di dati perché possa circolare qualcosa. «È quanto faceva Dersu Uzalà, quando voleva che la capanna fosse riparata, e un po' di cibo lasciato, affinché gli eventuali futuri viaggiatori potessero sopravvivere e circolare a loro volta. Allora si può anche essere un'ombra, si può morire: si sarà dato un nuovo soffio allo spazio, lo spazio-soffio sarà stato raggiunto, si sarà diventati parco o foresta, o coniglio meccanico, nel senso in cui Henry Miller diceva che, se dovesse rinascere, rinascerebbe come parco» (p. 220). Queste parole definiscono il pensiero di un autore che ha perduto la sua funzione maggiore, per collegarsi ad altre linee creative e individuarsi proprio nell'immagine che lo indicherà. LI lmage-mouvement è un importante libro di cinema oltre che un'opera filosofica. Il metodo, quello consueto in Deleuze: enucleare i concetti-forza presenti nell'eterogeneità delle singole opere e delle differenti arti, per giungere a una filosofia pratica della creazione. La luce ai suoi diversi livelli diviene così un tema fondamentale della ricerca. Opposta all'ombra, costituisce l'alternativa del tempo degli espressionisti; legata indissolubilmente a essa, descrive la degradazione dei corpi nell'immagine-pulsione di Stroheim. E poi nell'astrazione lirica, luce sul volto o in uno spazio qualunque dell'immagine-affezione, passionale in Sternberg, etica in Dreyer, religiosa in Bresson. In questi autori, l'atto spirituale non è più fondato sulla lotta tra lo spirito e le tenebre, sui termini da scegliere, ma sui modi di esistenza di chi sceglie, sulla loro alternanza: come in Pascal e Kierkegaard, l'avventura del bianco e della luce consiste allora nella scelta di scegliere la scelta. E la luce, potenza dell'affetto, finisce col mettere direttamente in rapporto con quella quarta, quella quinta dimensione di cui parlava Dreyer, «una specie di bianco su bianco impossibile da filmare», il Tempo, lo Spirito. È la dimensione più profonda che i grandi autori del cinema classico hanno sempre fatto «sentire», per esempio, grazie ai rallentamenti e alle accelerazioni del piano, tentando di manifestare la dilatazione o la contrazione del tempo, come se un'inquietudine, un'aberrazione del movimento fosse già presente nell'immagine-movimento stessa. Il piano cinematografico è già in sé una prospettiva temporale, un taglio mobile, una modulazione in variazione continua, al contrario della fotografia; quest'ultima, infatti, è semplicemente un calco che organizza le forze interne delle cose per raggiungere uno stato di equilibrio in un certo istante (taglio immobile). Modulazione, inquietudine del movimento, che l'avanguardia - da Landow a Snow - continua a sperimentare spingendo le immagini-percezione e le immagini-affezione oltre i loro stessi limiti. Ma l'immagine-movimento del cinema classico viene portata alle estreme conseguenze da Alfred Hitchcock. Nei suoi film l'azione, l'affezione e la percezione entrano in un sistema inedito di rapporti, un tessuto di relazioni che determinano un'immagine mentale: secondo la terminologia di Peirce (ripresa liberamente da Deleuze), si tratta della Terzità, per differenza dalla Primità dell'immagine-affezione - la potenza o qualità pura espressa in un volto o in uno spazio qualunque - e dalla Secondità dell'immagine-azione - un duello di forze. Nell'immagine mentale non è più un'azione, per esempio un delitto, che spiega l'immagine, ma - come nello Sconosciuto del Nord Express - una relazione che appartiene a un altro ordine, in cui il criminale «dona» il suo crimine a qualcuno, lo scambia, glielo rende: i legami tradizionali che definivano l'immagine-azione, e più in generale l'immagine-movimento, vengono di fatto subordinati a una dimensione nascosta, di cui l'immagine-movimento sarebbe solo l'involucro. Mentre però Hitchcock parlava semplicemente di saturazione della vecchia immagine, la reale mutazione di quest'ultima segue una frontiera marcata da tre date: 1948 in Italia, 1958 in Francia («nouvelle vague»), 1968 nuovo cinema tedesco. Proprio il neorealismo, grazie alle sue condizioni storiche, alla resistenza e alla vita popolare cui rinviava, determina la specificità ellittica e disorganizzata della nuova immagine, i cui principi costitu- ~ ~ tivi, secondo Deleuze, sono cinc::s que: a) la situazione dispersiva; b) -~ i legami deliberatamente deboli; ~ c) la forma-balla.ta in uno spazio ~ urbano vuoto; d) la presa di co- -. scienza dei cliché all'esterno, nel 0 tessuto sociale ma anche nelle te- ~ ste della gente; d) la denuncia del ·ào -. complotto organizzato. 'O Non si tratta più di una descri- s: zione organica degli oggetti nella ~ loro indipendenza, né di una nar- ;g_ razione «veridica» dove il soggetto ~

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