Il giorno prima / 3 11conflitt,ls;,osospeso Questa rubrica è iniziata in Alfabeta n. 60, con interventi di C. Formenti e P. Volponi, e «materiali» di G. Procacci e R. Guiducci. U na volta fissato da Clausewitz l'alfabeto concettuale di una teoria della guerra, le condizioni logiche per la sua pensabilità, ci restano due strade ancora da percorrere: da un lato, quella dell'approfondimento analitico e dell'aggiustamento sistematico della polemologia clausewitziana alle continue trasformazioni del contesto socio-politico della guerra contemporanea - ed è un itinerario seguito, sia pure con esiti discutibili, dalla recente filosofia francese, a partire dal Penser la guerre. Clausewitz di R. Aron fino alla Force du vertige di A. Glucksmann -; dall'altro, quella dello spostamento del problema 'guerra' in territori laterali, lungo assi linguistico-concettuali apparentemente estranei, inconsueti, ma capaci di comunicargli uno spessore semantico assai più dilatato. Quello che muta, rispetto al primo percorso, non è solamente il metodo, ma anche la direzione della ricerca: non più proiettata in avanti, all'inseguimento delle trasformazioni successive del fenomeno 'guerra', ma arretrata e ripiegata verso l'origine, lì dove più stretta è la connessione di concetti e figure, di idee e metafore, di logica e mito. È in questa chiave che vorrei provare a rileggere un racconto di Joseph Conrad, Due/, recentemente e splendidamente filmato da Ridley Scott con il titolo de / duellanti. Di esso è facile individuare il nucleo problematico centrale nel rapporto tra il conflitto narr~to e il tempo che esso attraversa. L'incipit del testo lo pone esplicitamente in evidenza: «la storia di un duello, che diventò una leggenda nell'esercito, corre attraverso l'epopea delle guerre imperiali». Quello che, invece, è meno evidente - perché riposto nella logica strutturale del racconto - è il risultato di questo confronto: che in genere è riportato alla vittoria del conflitto sul tempo, alla sua durata oltre il tempo ordinario, alla sua interminabilità. O anche: all'incapacità del tempo a contenere il conflitto, a arginarne e sedarne l'impulso distruttivo. Ma questa interpretazione, apparentemente letterale, regge solo a condizione di escludere, o ridimensionare come marginale e consolatoria, la conclusione del racconto, in cui invece l'intera azione precedente necessariamente precipita: la sospensione del duello determinata dalle sue stesse regole interne. Non solo, ma finisce per perdere di vista il senso stesso della storia, il suo problema originario, che esprime esattamente il ""> contrario di ciò che si è voluto rap- ~ ~ presentare come un conflitto inter- •5 minabile. O meglio, lo esprime ~ c:i, nella forma dell'impotenza, non ~ della potenza. -.. L'impotenza non è del tempo, ~ ma del conflitto. Il conflitto non ~ termina solo perché non riesce a ·bo trovare un termine: a compiersi, .... 10 realizzarsi, attuarsi. Esso insegue ::: il tempo perché il tempo ne impe- ~ disce la conclusione, lo sottrae al Ì suo esito, lo rende impossibile. ì:i Non è il tempo che non resiste al conflitto, ma il conflitto che non resiste al tempo. L'interminabilità del conflitto-non è altro dalla sua impossibilità temporale. Nel Moderno - la storia narrata è collocata a cavallo tra età napoleonica e Restaurazione: è la storia di una restaurazione - il tempo blocca ogni possibilità conflittuale. È definitiva neutralizzazione del conflitto. M a il racconto non si limita a rappresentare il carattere neutralizzante-spoliticizzante del tempo moderno. Ne lascia intravedere anche le modalità costitutive, quelli che Foucault • chiamerebbe i dispositivi formali. È qui che entra in gioco la guerra, e la sua funzione di blocco del conflitto individuale: «Napoleone I, la cui carriera ebbe il carattere di un duello contro l'intera Europa, disapprovava il duello fra gli ufficiali del suo esercito. Il grande imperatore militare non era uno spadaccino ... » È chiaro che la «disapprovazione» soggettiva dell'imperatore svolge nel testo una funzione ben altrimenti oggettiva. È il segno di un'assoluta incompatibilità strutturale tra il «duello contro l'intera Europa», e cioè la guerra, e il «duello fra gli ufficiali». I due duelli non sono compatibili, o almeno non sono compatibili nello stesso tempo. Quando c'è l'uno non c'è, né ci può essere, l'altro; e viceversa. E infatti, per tutto l'arco del racconto, il duello personale inizia dove termina quello generale; e termina quando quello riprende. Questo dato di successioneesclusione è fornito di una pregnanza particolare; è una costante, una regola, riconosciuta e definita anche nel più recente dibattito italiano in argomento - mi riferisco soprattutto agli interventi di U. Curi e B. Giacomini nel volume collettaneo Della guerra (Venezia, Arsenale, 1982): nello spazio del Moderno, la guerra è laforma di massima neutralizzazione del conflitto. L'affermazione può risultare paradossale a chi è abituato a assimilare i termini di guerra e conflitto, a considerare il secondo come una filiazione derivata dalla prima e la prima come una intensificazione generalizzata del secondo. Chi più.di ogni altro ha insistito su questo rapporto tra guerra e conflitto - più precisamente, tra guerra e politica - è stato Cari Schmitt: «La guerra non è scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre -presente come possibilità reale» .. Come è largamente noto, l'affermazione di Schmitt rovescia e insieme conferma il nesso classico già istituito da Clausewitz. E ancora classica risuona l'espressione di Schmitt: tanto che in essa sembra concentrarsi il senso, e anche il destino, complessivo di un'epoca . Ma è appunto tale classicità a renderla asimmetrica, e dunque, in un certo senso, non più adeguata, esterna, alla stagione conclusiva del Moderno. Questa, la sua dinamica complessa, risulta irrappresentabile dalla topologia lineare che la grande politologia tedesca - da Clausewitz a Schmitt - stende tra conflittualità bellica e conflittualità politica. Ciò che a Schmitt appariva «presupposto» si è fatto incompatibilità. Più ancora: alternativa radicale. Conrad lo dice tra le righe: «Il grande imperatore militare (... ) aveva scarso rispetto per le tradizioni». Il suo testo racchiude la storia di questa perdita di tradizioni, di questo tradimento. La guerra moderna, proprio perché generalizza al massimo grado il conflitto, ne perde, contemporaneamente, ogni carattere originario. M a ciò non è ancora tutto. La guerra non è l'unico fattore di 'sospensione' del conflitto. Non è l'unico e non è neanche il primo. Essa impedisce al conflitto di concludersi, ~on di iniziare. Perché qui si situa il vero impedimento: il conflitto non ha conclusione perché non ha mai veramente inizio. E non ha inizio perché ciò che pure nasce e si sviluppa è altro dal conflitto: è piuttosto gioco. Rispetto al limite esterno rappresentato dalla guerra, il gioco costituisce il limite interno del Francesco Guardi, Trionfo di una dea trainata da due aquile, 1787, Venezia, Museo Correr conflitto. Il suo depotenziamento immanente. E infatti esso è inerente alla forma stessa del conflitto rappresentato, e cioè del duello, come il testo non manca di sottolineare: «Un duello, lo si consideri una cerimonia del culto dell'onore o lo si riduca nella sua essenza morale a una forma di gioco virile, richiede una perfetta unicità d'intenzione, un'austerità omicida». In realtà; questa «austerità omicida» si rivelerà del tutto ineffettuale. Ma ciò che sembra concernere l'esito del gioco-duello, pertiene invece la sua assenza. L'intenzione omicida è impossibile perché a priori esclusa dal senso del gioco. Se si ripercorre la genealogia del duello - come fa Franc~sço Erspamer in un bel libro, La biblioteca di don Ferrante. Duello e onore nella cultura del Cinquecento-, si vedrà come il suo codice espressivo, la sua grammatica interna, non abbia nulla a che vedere con il suo es"itoconclusivo e cioè con la vittoria di uno dei duellanti. Al contrario, come sia interamente risolto nella cerimonia preparatoria: tanto da risultare più riuscito quanto meno piegato alla logica produttiva della vittoria finale, quanto più giocato in pura perdita. Questo punto emerge con particolare evidenza m un passo di Conrad: «Benché questa volta il tenente D'Hubert avesse avuto la peggio, era assai lodato il suo gioco, che nessuno negava fosse stato molto serrato, molto scientifico». È proprio questa attitudine intrinsecamente improduttiva a distanziare categorialmente l'ambito del gioco da quello del conflitto. Chi si è ultimamente soffermato sµ questa distanza è un allievo 'infedele' di Cari Schmitt (ma anche di Aron), Julien Freund. Un capitolo del suo libro dedicato a una ricostruzione concettuale del paradigma conflittualista (Sociologie du conflit) tematizza infatti la differenza costitutiva tra conflitto e gioco: «le conflit n'est pas à confondre avec le jeu». Tre sono gl'indicatori che, contro una tradizione interpretativa (da Ruskin a Huizinga) tesa a sovrapporre le due logiche, distanziano irreducibilmente la figura del conflitto da quella del gioco: e cioè la drammaticità, l'asimmetria (o la non necessaria simmetria) e l'assenza di regole. Soprattutto quest'ultimo: il vero conflitto è sempre tendenzialmente 'sregolato'. Ma appunto la regola - come dimostra Erspamer - esprime l'essenza stessa del duello. È essa, per tutto il corso del racconto, a stabilire, e creare, le condizioni di possibilità del conflitto: e dunque, insieme, le condizioni della sua inattualità. Il conflitto è possibile solo nel senso che non è reale, realmente effettuato. Il finale del racconto concentra il senso di questo passaggio logico nella potenza di una sola espressione, pronunciata dal protagonista a conclusione della vicenda: «Per ogni regola di duello la tua vita appartiene a me, questo non significa che io voglia togliertela ora». La «vita» del suo avversario, la sua morte mancata, assente, conclude regolarmente un conflitto sempre giocato, e cioè mai realizzato. E come avrebbe potuto, l'ufficiale D'Hubert, davvero combattere contro se stesso? «Mia cara, io avevo il diritto di bruciargli le cervella; ma, non avendolo fatto, non possiamo lasciarlo morir di fame. Ha perduto la pensione ed è assolutamente mcapace di fare qualsiasi cosa al mondo per se stesso. Dobbiamo prenderci cura di lui, in segreto, sino alla fine dei suoi giorni. Non devo forse a lui il momento più estasiato della mia vita? (... ) È straordinario come quell'uomo in un modo o nell'altro è riuscito a legarsi ai miei sentimenti più profondi». F in qui il racconto, e la metafora che mette in scena. Guerra e· gioco chiudono, da lati diversi e opposti, il conflitto in un circuito di interminabile 'inconclusione'. Ma che succederebbe, che succede, allorché guerra e gioco non si limitano a svolgere una funzione oggettivamente complementare, ma addirittura si identificano? L'interrogativo ci porta fuori dal racconto 'moderno' di Conrad, verso la situazione di ultra-modernità che noi stessi viviamo: e qui la ricerca genealogica s'intreccia con quella delle mutazioni socio-politiche (e tecnologiche) della guerra contemporanea. Come ricorda Giacomo Marramao («Wargames/ peacegames: scenari dell'era nucleare», in Politica ed economia, XV, 1, gennaio 1983), nel 1963 Irving Louis Horovitz •aveva sostenuto nel suo libro War-game la progressiva riduzione della guerra alla forma del gioco. La cosa non era esattamente una novità, visto che già Clausewitz aveva genialmente annotato che «fin da principio la guerra si estrinseca in un giuoco di possibilità, probabilità, fortuna e sfortuna, il quale continua in tutti i grandi e piccoli fili della sua intelaiatura, e fa sì che, di tutti i rami dell'attività umana, la guerra sia quello che più rassomiglia ad una partita con le carte da giuoco». Ma ciò che muta, rispetto a questo scenario, è il passaggio dal livello di pura analogia a quello di pratica strategica: e cioè la piena assunzione della «teoria dei giochi» (così come è approntata da J. Von Neumann e O. Morgenstern in Theory of Games and Economie Behavior, Princeton, Princeton U.P., i953; ma cfr. anche R.D. Luce, H. Raiffa, Games and Decision, Harvard, John Wiley and Sons, 1957; e M. Dresher, Games of Strategy and Application, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1961) da parte di 'teorici' del Pentagono come Herman Kahn e Thomas C. Schelling. Proprio quest'ultimo, nel noto The Strategy of Conflict (Cambridge, Mass., 1960), individua nel sistema bipolare bilanciato tra le due superpotenze la 'traduzione' ipermoderna di un duello destinato a restare tale: la cui conclusione catastrofica è continuamente differita attraverso un apparato di reciproca 'dissuasione'. Quello che ne deriva è, ovviamente, un surplus di neutralizzazione nei confronti non solo del conflitto, ma di qualsiasi elemento di innovazione-trasformazione politica che possa 'rimettere in gioco' le regole bloccate del gioco a due partners. Se ciò è vero, se la rego(~ fondamentale dell' 'assenza presente' della guerra, e cioè della sua latenza, è la spoliticizzazione del conflitto, risulta anche chiaro il quadro di condizioni per una possibile inversione di tendenza. Ma (come sempre accade) chiaro ~. solo il punto d'avvio - una ridefinizione del conflitto adeguata al tramonto della modernità - di una pratica politica ancora tutta da inventare. Cfr. Francesco Erspamer La biblioteca di don Ferrante. Duello e onore nella cultura del Cinquecento Roma, Bulzoni, 1982 pp. 229, lire 11.500 Klaus von Clausewitz Della guerra Milano, Mondadori, 19823 pp. 862, lire 8000 Autori vari Della guerra Venezia, Arsenale, 1982 pp. 181, lire 10.000 Julien Freund Sociologie du conflict Paris, Puf, 1983 ff. 160 Thomas C. Schelling The Strategy of Conflict Cambridge (Mass.), Harvard U.P., 1970
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