L'impresa culturale / Einaudi Un mercattss;selVaggio Cinquant'anni di un editore. Le edizioni Einaudi negli anni 1933-1983 Torino, Einaudi, 1983 pp. 845, ili., lire 10.000 «Se Einaudi è proprio fuori, andremo a vendere assieme i libri in fotocopia nei ristoranti e nei teatri». E. De Filippo, in Corriere della sera, 9 aprile 1984 S candalosamente, ha destato poco scandalo che Giulio Einaudi si trovi estromesso dalla conduzione della Casa editrice che ha fondato e guidato per mezzo secolo. Si è diffuso un atteggiamento che si può riassumere nel seguente modo. Con la sua gestione, Einaudi ha accumulato diversi miliardi di debiti verso le banche, ai quali non è più in grado di far fronte. Ora si tratta di «risanare» l'azienda, senza di lui, mediante gli strumenti che la legge consente all'amministrazione controllata. Si ritiri dunque in pensione Giulio Einaudi. Del resto, dicono, ha un caratteraccio, ha diretto la Casa editrice come un despota: un motivo in più per non rimpiangerne troppo la mancanza. Questo atteggiamento - corrente, anche se, spero, non prevalente, negli ambienti culturali - è del tutto insensato e depone, più che sulla crisi della Einaudi come impresa culturale, sulla crisi della cultura e della imprenditoria culturale in Italia. Leggendo l'intervista rilasciata da Einaudi alla Repubblica del 26 febbraio, mi veniva in mente che - stando alle cronache -1' editrice Einaudi era sorta con un debito o (se si vuole) un prestito concesso da Raffaele Mattioli, per conto della Banca Commerciale. In fondo, perché stupirsi se la crisi della Casa editrice e la virtuale estromissione del suo fondatore coincidono con un'altra vicenda di debiti? Per cinquant'anni la Einaudi è vissuta sul mercato, non certo di sovvenzioni; non era neppure nata da un «capitale», perché né Mattioli né Einaudi avevano capitali propri (a ben vedere, Mattioli e Einaudi non sono due figure «borghesi», semmai si potrebbero definire «aristocratiche», secondo il significato originario della parola). Ora che il mercato ha compiuto la sua vendetta, e frotte di «addetti alla cultura» che forse non saprebbero gestire un,edicola parlano con disinvoltura degli «errori di management», è venuto fuori un catalogo editoriale che in Italia ha pochi termini di confronto. Essendo stato da poco allestito in occasione del cinquantenario della fondazione, potrebbe essere utilmente letto per trame qualche riflessione meno superficiale: per esempio, quella che Giulio Einaudi - comunque vadano le cose - ha raggiunto pienamente l'obbiettivo della sua impresa. t--... Il problema della Einaudi ric::s guarda innanzi tutto l'ambiente .:= -~ culturale che ne raccoglierà l'ope- ~ ...... ~ •ra, noi ci auguriamo il più tardi possibile. Una volta «risanata», che cosa farà la Casa editrice Ei- -a naudi? Stamperà guide telefoniche ~ o romanzi rosa? Verrà affidata a E un funzionario del ministero dell'Industria o del ministero della ~ Cultura in faticosa gestazione? ~ Verrà riassorbita, in nome del plu- l ralismo di mercato, da qualcuno ti dei «cartelli» che hanno in gestione buona parte del mercato? Appena si mediti su queste domande, si vede che, estromesso Giulio Einaudi, i problemi non finiscono ma iniziano. A mio parere, la leggerezza di atteggiamento che si è manifestata in occasione della vicenda Einaudi non è episodica, ma si ripete molto spesso quando è in gioco quella peculiare istituzione che chiamerò impresa culturale indipendente. Nella struttura culturale italiana, le imprese indipendenti rappresentano una fetta largamente minoritaria dei mercati e dei poteri. La maggior parte di essi dipende dallo Stato, dai partiti, da gruppi economici che hanno radici fuori dal terreno culturale. Il «mercato culturale» è un mercato per modo di dire. Non è infatti un mercato quello in cui non si sviluppino nuove idee, nuove produzioni, nuove imprese. Da noi è molto raro che nuove imprese culturali giungano ad avere qualche rilevanza fuori dalla «riserva indiana» dove campano molte iniziative spesso meritorie, talvolta importanti, ma quasi sempre condannate a una breve vita o alla marginalità. Perciò è essenziale capire come nascano e declinino grandi imprese culturali come quella di Giulio Einaudi, perché oggi ne muoiano più di quante ne nascano, quali mezzi si possano adottare per·porre rimedio a uno stato di cose che rischia di vanificare il tipo di impresa culturale capace di conservare la propria indipendenza. Dovrebbe essere chiaro, spero, che l'indipendenza non è un bene o un valore fungibile, estrinseco, la ciliegia su un gelato che sarebbe buono lo stesso. L'indipendenza è una caratteristica costitutiva dell'impresa culturale, poiché è l'unica garanzia del suo tratto essenziale: l'asse:zza di un finalismo immediato. Senza questa caratteristica, non avremmo una impresa di cultura, ma un assessorato, un ufficio stampa, un apparato di propaganda, tutte cose egrege, ma che assolvono a proprie finalità specifiche. Il loro criterio di selezione è diverso. Questa è la prima, elementare ragione per cui ci sono poche imprese culturali indipendenti: chi investe denaro e energie di solito lo fa in vista di una utilità. Ed è per questo, forse, che le imprese culturali e scientifiche degne di questo termine raramente nascono dal grembo della classe borghese o anche da quello della classe lavoratrice. La maggior parte di esse sembra derivare piuttosto da poco probabili cortocircuiti fra individui, idee, mezzi. Il modo di nascita della Einaudi non è un caso unico. Si veda un ambito altamente strutturato come quello dell'attività scientifica: la prestigiosa rivista Nature, qualche mese fa, ha dedicato un rapporto alla ricerca scientifica in Italia, poi tradotto da SE-Scienza Esperienza. Leggendolo, non si può non rimanere colpiti dalle circostanze che hanno dato vita ad alcune delle non moltissime istituzioni scientifiche italiane di risonanza internazionale. Mi riferisco, in particolare, all'Istituto farmacologico Mario Negri di Milano e alla Stazione zoologica di Napoli. Il primo è sorto nel 1960, ad opera del gruppo Silvio Garattini, grazie a un lascito testamentario dell'ex gioielliere milanese Mario Negri; il lascito (poco più di un miliarçio) ha consentito a un gruppo di ricercatori indipendenti di sviluppare in un tempo relativamente breve un centro che è tra i primi nel mondo. Meno recente, ma non meno atipica, è la storia della Stazione zoologica di Napoli, fondata nel 1870 dallo zoologo tedesco Anton Dohrn e poi finanziata per tre generazioni dalla famiglia Dohrn. Alla Stazione hanno lavorato diciotto premi Nobel. Dopo f ilmstudi7o0 Giovanni Lussu, marchio (1967) che la famiglia Dohrn ha smesso di interessarsi alla Stazione, questa ha attraversato un periodo di decadenza; oggi è proprietà dello Stato. nomico, religioso o di altro genere. Una struttura sociale che non puzzi di gulag non ne può fare a meno. Si può produrre cultura servendo l'utile, ma si dovrebbe avere la possibilità di non servirlo o - almeno - di conservare la scelta sui modi di servirlo. Credo che, nella condizione attuale, una impresa culturale indipendente debba basarsi in primo luogo sul mercato. Se dipendesse dalle elargizioni dei pubblici poteri o dalla sponsorizzazione di industrie, non sarebbe più r,eppure un'impresa, ma un luogo di applicazione di indirizzi che hanno altrove i propri parametri di utilità e i propri modi di valutazione. Non si vuole dir male dell'intervento culturale pubblico, non mi viene in mente che si debbano spodestare gli assessori per tornare ai tempi in cui le uniche imprese culturali locali erano, spesso, quelle delle parrocchie. Ci rallegriamo se la Olivetti finanzia un restauro o se la Candy finanzia la Scala per proprio· tornaconto di immagine. Ma anche nei casi di maggiore serietà e di minore interferenza nella conduzione dell'attività culturale si insinua una logica che, alla lunga, lascia una impronta. Del resto, le aziende italiane che si accalcano per sponsorizzare Azzurra o rassegne culturali non sempre encomiabili, non hanno creduto opportuno investire sull'immagine Einaudi, pubblicizzando un intervento - magari in pool - che consentisse continuità e indipendenza a una delle più prestigiose case editrici italiane. Un altro esempio: Giuliano Briganti, in un articolo.su La Repubblica, ha sol- ~ NAME ~• all'indipendenza di tali imprese, ma allo stesso tempo ne ostacola, in mille modi, la formazione prima e lo sviluppo poi. Anche qui la storia della Einaudi ha qualcosa da insegnare. Per. assicurare la crescita e l'autonomia della propria impresa, Giulio Einaudi ha dovuto ricorrere, in più riprese, al sostegno di una certa borghesia «illuminata». E alla fine non è bastato più neppure quello. S i impongono due riflessioni ulteriori. La prima è che un'impresa cultur·ale che vuole restare autonoma, economicamente e.culturalmente, deve necessariamente disporre di risorse che la aiutino a superare le barriere e le trappole di cui è costellato il «mercato» (direi lo pseudomercato) dei beni e dei servizi culturali. Ciò non significa che debbano sopravvivere le imprese che non hanno trovato rispondenza nel proprio pubblico. Debbono però essere in condizione di sopravvivere, e di crescere in piena autonomia, le imprese che hanno ottenuto un'evidente risposta positiva dal mercato, anche se i meccanismi del mercato stesso le hanno forzate in una posizione di difficoltà. · La seconda riflessione è che tali difficoltà sono causate spesso dal fatto che il mercato spinge nel senso della cumulazione e dell'occupazione massima degli spazi. Questa logica è contraddittoria con quella di un'impresa culturale che, quando è tale, è intrinsecamente selettiva, risponde cioè alla scelta _ di un «programma». In parte, una soluzione può essere cercata nell'impresa cooperativa, in cui gli operatori culturali stessi si fanno conduttori e garanti del proprio programma, conferendole alcune chances che l'impresa ordinaria non ha. Il cinema tedesco contemporaneo si è basato largamente su questo tipo di cooperazione, senza la quale i sussidi statali avrebbero ben poco giovato. Ma, proprio in ragione di questa esperienza, credo che imprese «individuali» come quella di un Einaudi o di un Boringhieri siaho insostituibili. Non sempre gli intellettuali possono o vogliono corre- ~ re il rischio di condurre essi stessi léa: un'impresa, anche se questa rimaIP', ne in ogni caso, nella sostanza, Mario Cresci (1983) una impresa cooperativa, perché richiede la cooperazione di gruppi creativi sufficientemente omogenei e un programma culturale, M i rendo conto che è facile opporre a questi esempi nomi come quello di Adriano Olivetti o citare alcune iniziative culturali nate dalla costola del movimento operaio. Certo, sarebbe ben strano che la borghesia o la classe lavoratrice non esprimessero nessuna impresa di cultura di livello. Ma esse difficilmente partoriscono imprese culturali indipendenti. La differenza è sostanziale. L'Unità e La Stampa sono buoni giornali, insostituibili nel panorama editoriale italiano, ma non sono i luoghi più adatti per criticare la Fiato il Partito comunista. Una impresa culturale indipendente ha, ovviamente, propri orientamenti, ma è contraddistinta dalla mancanza di limiti precostituiti alla produzione di cultura «non utile» - o addirittura sgradita - a C)lfesto o a quel potere, politico, ecolevato dubbi legittimi e seri sui criteri di conservazione del patrimonio artistico che il ministero dei Beni culturali sembra privilegiare in seguito alla sponsorizzazione dei restauri di opere celebri. Biennali, enti lirici e teatrali, assessorati alla Cultura sono istituzioni insostituibili per la promozione, la conservazione e la diffusione dei repertori culturali esistenti. Ma è bene togliersi ogni illusione sulla loro possibilità di produrre il nuovo, di «creare cultura». Per assolvere questo compito occorre un robusto tessuto di imprese culturali, piccole e grandi, che non abbiano bisogno di consensi preventivi o di sovvenzioni, che siano perciò sostenute principalmente dal mercato. Esse devono operare nel mercato com'è oggi, che è cosa ben diversa da quello prefigurato dalle utopie liberistiche. Il mercato è indispensabile «aperto» quanto si vuole. Figure come Einaudi e Boringhieri si so- · no assunte l'onere ingrato di provvedere a quelle risorse extramercato senza le quali, come si è detto, un'impresa culturale che vive sul mercato raramente riesce a crescere, anche se ha successo, talvolta addirittura perché ha successo. Probabilmente, oggi né la virtù dell'impresa cooperativa, né il coraggio di alcuni imprenditori «individuali» sono ormai sufficienti a garantire la nascita, lo sviluppo, l'indipendenza di grandi iniziative culturali (dove «grandi» è anche una misura di qualità e non solo di quantità). Ne concludo che, per questi problemi, occorrono nuove soluzioni. Si arriva così a un ordine di discorso che non può essere affrontato nei limiti di questo articolo, ma che il caso Einaudi indica nella sua urgenza.
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