Alfabeta - anno VI - n. 60 - maggio 1984

Autori vari Storia dell'arte italiana volume 5: DaJ medioevo al quattrocento Torino, Einaudi, 1984 pp. 623, lire 115.000 Autori vari Letteratura italiana volume 2: ~oduzione e consumo Torino, Einaudi, 1984 pp. 1060, lire 80.000 E scono quasi contemporaneamente il volume Dal medioevo al quattrocento, che è il quinto della Storia del/' arte italiana Einaudi ma che ne completa la serie di 12 in quattordici tomi, e Produzione e consumo, dello stesso editore, secondo volume della Letteratura italiana prevista in 9, e di cui già è uscito il primo, ILLetterato e Le istituzioni. L'avvio di una «grande opera» e la contemporanea fine di un'altra consentono un'operazione critica complessiva, che va ben oltre le singole serie o i singoli volumi, proprio sull'ultimo filone editoriale di Einaudi, appunto le «grandi opere», che molti hanno imputato essere la principale delle cause del disastro del più amato e odiato editore italiano. Partiamo, però, da questi ultimi volumi. L'indice di Dal medioevo al quattrocento è piuttosto significativo dell'intera struttura dell'opera. Si parte con un notevolissimo studio di Carlo Bertelli intitolato «Traccia allo studio delle fondazioni medievali dell'arte italiana», nel quale si compenetrano strettamente numerosi punti di vista disciplinari, si discute della legittimità delle cronologie, si discute di metodi e problemi .a partire dai giudizi storici sul Medioevo, si stringono le fila delle diverse prati- . che artistiche (di produzione ma anche di gusto e di ricezione) superando i concetti di generi, ci si addentra nell'arte medioevale «italiana» ritrovandone un'archeologia, si passano in rassegna i Luoghi delle opere mostrando lo stretto legame fra una geografia artistica e una storia delle idee, si riformulano i concetti di «influenza», di «trasmigrazione», di «transizione». È un saggio molto denso, orientato contemporaneamente alla presentazione delle questioni e al seguito della cronologia. Anche il secondo saggio, parimenti ragguardevole, può definirsi fondato sul medesimo criterio «geografico»: è lo scritto di Enrico Castelnuovo «Arte delle città, arte delle corti fra XII e XIV secolo». Qui l'assunto è però diversamente orientato, in quanto Castelnuovo punta piuttosto sulla ricerca, sempre nell'ambito di una storia delle idee, di momenti «teorici» conflittuali, rappresentati dall'agire di gruppi e individui nella società. E, naturalmente, l'aspetto del corso degli eventi artistici è ancora meno importante che non in Bertelli, dal momento che il saggio prende giustamente in esame gli addensamenti di idee rappresentati da fatti particolari, e non la linea continua della cronologia. Assai diverso, come impostazione e temi fondamentali, appare invece il terzo saggio, opera di quel grandissimo conoscitore che fu Carlo Volpe, recentemente scomparso a Bologna. In «Il lungo percorso del 'di°pingere dolcissimo e L'impresa culturale/ Einaudi Le1ra,,d,oJpere tanto unito'», Volpe si occupa della pittura del Trecento, e in particolare di quegli autori e scuole che crearono la tecnica del 'dipingere unito', Giotto in testa. L'impianto, in questo caso, diventa puramente stilistico, non privo di accenti longhiani: in ogni caso tutto interno alla pittura. E, nonostante Volpe si dimostri corretto e attento a impostazioni differenti, come quella sociale, il rifiuto di troppo facili connessioni fra arte e società è abbastanza netto, come nel caso in cui si rigettano, pur con elogi, le tesi di Millard Meiss sul rapporto fra peste del 1348 e arte religiosa. Fin qui quella che in fondo appare come una «prima parte» del volume, non esplicitamente dichiarata, ma abbastanza visibile. La «seconda parte», infatti, affronta argomenti decisamente più Locali, anche se, ancora una volta, di notevole livello e interesse scientifico. Enrico Guidoni, ad esempio, tratta di un tema curiosamente negletto dalla storiografia artistica e architettonica: Roma e il suo impianto urbano. Il saggio segue l'evolversi del dibattito politico e tecnico sull'assetto della città, compiendo raffronti con altri due modelli di urbanistica medioevale, Firenze e Siena. Il metodo, in questo caso, è nuovamente diverso: tende alla correlazione fra le tendenze urbanistiche e le politiche culturali in un'epoca data, ipotizzando uno stretto legame fra territorio e opera d'arte. (Un legittimo dubbio: in che senso si può usare un termine come «urbanistica» per le civiltà del passato?). Seguono tre saggi su Venezia: «Venezia medievale tra Oriente e Occidente» di Giovanni Lorenzoni, «Venezia tra Quattrocento e Cinquecento» di Mauro Lucco, e «Giorgione e la Compagnia degli Amici: il 'doppio ritratto' Ludovisi» di Alessandro Ballarin. E ancora una volta temi, dimensioni, metodi sono fra loro piuttosto distanti: quasi archeologia medioevale il primo, e comunque con forte orientamento allo studio degli oggetti come documenti; una storia del passaggio veneziano dei grandi pittori del Rinascimento il secondo, a mostrare una città lagunare come crocevia dei maestri della pittura; un ottimo esempio di microstoria il terzo, che fa funzionare una singola opera da rivelatore di passaggi, relazioni, interessi, idee di amplissima portata, e che lavora sul testo da un punto di vista realmente intertestuale. Chiude il volume un saggio a parte, e precisamente «Rinascimento e Pseudo-Rinascimento» di Federico Zeri, tutto dedicato a uno squisito problema teorico, e per la precisione alla ricerca di una definizione stilistica di un' etichetta, «Rinascimento», che appare come ogni altra etichetta totalmente convenzionale. Zeri riformula così il termine, rilevandone gli aspetti interni, e riformula altresì il vecchio concetto di «AntiRinascimento», giudicato eccessivo, e sostituito da quello di «Pseudo-Rinascimento», con le sue ulteriori partizioni interne. e ome si vede, il volume è costituito da materiali quasi sempre pregevolissimi. Non è però m1mmamente un volume unitario. Anzi, se dovessimo stare ai titoli generali che scandiscono l'opera einaudiana, questo come gli altri tre tomi appartenenti alla Parte .seconda. Dal medioevo al novecento tradiscono completamente la funzione promessa, che dovrebbe ess_erequella di fornire il quadro complessivo della storia dell'arte italiana, laddove la Parte prima. Materiali e problemi dovrebbe mostrare l'organizzazione della disciplina e degli•oggetti, e la_ Parte terza. Situazioni momenfi indagini essere invece dedicata alle microanalisi esemplari. Certo, non si 9iscute minimamente che l'intera opera fotografi in questo modo p vero ( anche se . non completo) assetto degli studi in materia. E infatti: come non notare che ormai la «storia dell'àrte» ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere una disciplina che «descrive» uno sviluppo lineare e continuo di teorie e oggetti univocamente definiti? La storia dell'arte è interpretazione, è confusione di oggetti, eventi, idee: Si potrebbe persino, volendo, andare più in là: e dire addirittura che gli stessi termini «storia» e «arte» non sono altro che convenzioni, di volta in volta ridefinibili e ridiscutibili a seconda delle questioni che la ricerca vuol tentare di mettei-e in luce. Se a tutto questo si aggiunge (come dimostra il saggio succitato di Bertelli) che il termine «italiana» è ancor più convenzionale, e deve addirittura essere discusso in ciascuno dei saggi per stabilire cronologie, ambiti geografici, generi e oggetti di studio, limiti del rapporto con ciò.che «italiano» non è, vedremo che l'impresa einaudiana è senza dubbio corretta come impostazione da parte degli studiosi che l'hanno affrontata. Ma se le cose stanno così, notiamo immediatamente una contraddizione col fatto che si tratti di una «grande opera». Che cosa è infatti, editorialmente, una «grande opera»? L'approntamento di un corpo di scritti di vasta mole che definisca i limiti di un sapere (perfino di tut(o il sapere: un 'enciclopedia) e neforoisca la presentazione possibilmente esauriente, completa, funzionale (cioè cpn un criterio di reperimento dei suoi oggetti interni), divulgativa ( cioè destinata per definizione a fissare gli oggetti di sapere in uno stadio di apprendibilità per il non esperto). In caso contrario, si tratta di un'altra cosa: si tratta di una collezione, di una collana, di una rivista, di un'antologia, o quant'altro volete. Insomma: esiste una struttura editoriale èhe chiamiamo «grande opera» la quale, indipendentemente dal contenuto, prefigura un certo pubblico, una certa lettura, un certo uso strumentale della medesima (dalla consultazione_all'arredamento). Ma allora succede che.l'impostazione sopra descritta e le regole testuali della grande opera siano forzatamente in contraddizione. Poco importa riconoscere che, ad esempio, i saggi dell'Enciclopedia einaudiana sia.notutti assolutamente eccellenti se presi uno per uno; né sapere che la conoscenza è una rete di modelli, e che dunque a una rete di modelli l'impianto si dovrà adeguare; né ricordare, infine, che anche la prima e più famosa enciclopedia, quella di Diderot e d'Alembert, era- concepita nel medesimo modo. Il fatto è ché nel frattempo ci sono stati due secoli di. editoria, e certi generi si s_ono istituzionalizzati. Si può e si deve certamente cambiarli quando non funzionano più, ma non si può fingere che non siano mai esistiti, e che non abbiano riflettuto esigenze e funzioni determinate dalla società stessa, dalla sua tipica orga- . nizzazione della cultura. M a_veniamo adesso all'altro volume che mi serve da •pretesto: Produzione e consumo, secondo della Letteratura italiana·. Non mi soffermerò, cqme nel caso precedente, sui singoli saggi, anche in ragiçme del loro molto maggiore numero. Segnalerò soltanto che i vàri collaboratori (Escarpit, Cardona, Paccagnella, Antonelli, Bianchini, Bee, De Caprio, Colajaèomo, Acciani, Abruzzese, Petrucci, Quondam, Ragone, Panico, Pisanti, Pinto, Ricciardi, Berruto, Ossola, Mordenti) con i diversi saggi articolano un programma che pare davvero l'opposto di quello della Storia del- /' arte italiana. Già nel primo volume questo era accaduto, e la ripetizione fa . presagire che tutta l'opera vada nella medesima direzione. Solo che, anche qui, sui nove volumi previsti uno sarà per gli indici, sei per questioni, problemi, teoriche, esempi di analisi, e due per la tradizionale «storia» (che verrà complicata da una «geografia»). Le 1060 pagine di Produzione e consumo mostrano bene l'impianto generale: la letteratura è un puro pretesto - e anche qui non si può non essere d'accordo - per trattare in verità la storia dell'organizzazione della cultura e della vita intellettuale nel nostro paese da quando esiste la sua lingua. Produzione e consumo mostra anche quali saranno maggioritariamente i metodi. Nel testo, infatti, si giustappongono una parte dedicata a «produzione e fruizione», una a «classi e collocazione sociale dei letterati», una a «il testo prodotto: dal libro manoscritto all'editoria di massa», una a «i moderni strumenti di 'direzione' e 'produzione' della letteratura», e infine una a «la scuola e la didattica». Struttura di grandissima coerenza, come si vede, ma coerente da un solo punto di vista, quello economico-sociologico. Ancora una volta sarà bene sottolineare come, certamente, solo l'esistenza di un punto di vista può portare alla coerenza dell'insieme. Però, con questo, siamo di nuovo alla contraddi- . zione generale. Come si può conciliare con l'ormai stratificata definizione di «grande opera» un lavoro di gruppo che si prefigura come «tenden- .za»? (Il che si dimostra anche at0 traverso l'assoluta compattezza di gruppo dei collaboratori). Si potrà rispondere che, sotto sotto, qualsiasi dizionario o enciclopedia o storia disciplinare è sempre di tendenza. Il più venduto dizionario di filosofia, l'Abbagnano? La sua tendenziosità è chiarissima. Giusto. Però l'Abbagnano lo si usa con una certa facilità, e anche se denigra le posizioni o le idee che non gli piacciono, tuttavia queste ci sono. Appunto: perché una «grande opera» deve essere utilitaria. Che il «monumento» d\ un gruppo o di una tendenza, soprattutto se davvero importante per la cultura italiana e non. debba in qualche modo essere prodotto io la trovo una faccenda sacrosanta. Non la trovo però una sacrosanta iniziativa editoriale se comporta invece ben altro che la cultura: se comporta finanziamenti e loro gestione, se comporta trasformazione dell'attività verso il rateale, se comporta mutamento di direzione del catalogo, se comporta ristrutturazione del rapporto con la libreria, e dunque persino con gli altri editori. E se comporta infine - ma si badi, non lo dico contro il gruppo di Asor Rosa; al quale mi sento ampiamente legato da simpatia - un dominio del mercato delle lettere da parte di gruppi su altri gruppi. E questo proprio per le ragioni economiche prima elencate. E, infatti, cosa succede con le operazioni einaudiane? Primo punto: gli investimenti si concentrano sulle grandi opere penalizzando gli altri investimenti. Ovvero: diminuiscono le collane, diminuiscono i titoli, salgono i prezzi, e per fare una grande opera si rallenta ancor più la già lenta produzione di cultura. Un libro «nuovo» pronto oggi uscirà, forse, fra cinque-sei anni. È sempre un libro «nuovo» oppure all'uscita è già vecchio? E, intanto, la lunghezza produttiva della grande opera - non essendo questa più enciclopedica ma di ricerca o di tendenza - come può assicurarci che i suoi contenuti siano «nuovi» all'uscita per compensarci delle altre perdite intellettuali? Ancora: l'immissione in libreria di volumi di alto prezzo fa sì che il libraio si trovi all'improvviso compresso finanziariamente. Come può ·pagare i conti sempre maggiori che gli arrivano? Semplice: non paga in soldi, ma paga in rese. Rese di libri einaudiani, come è ovvio, ma anche fortissime limitazioni negli acquisti degli altri editori. I più piccoli si trovano follemente penalizzati, e spesso anche privi degli strumenti di controllo effettivo delle vendite. I più grandi si vedono iUYischiatiin una meccanica analoga: produrre anche loro libri ad alto costo,' produrre grandi opere, liquidare i cataloghi, ecc. Un libro di media economicità, in campo saggistico, sparisce dalla circolazione in un tempo inferiore a quello che occorre per leggerlo. E quando dico «sparisce» intendo proprio che diventa un «desaparecido»: come se non fosse mai stato pubblicato. Può anche darsi che talora ciò sia un bene. I dodicimila titoli all'anno del mercato italiano sono stati una vera follia, rispetto alla consistenza del numero dei lettori. Ma meccaniche come quella delle grandi opere di tipo einaudiano, a mio parere, hanno contribuito a costruire una impasse di cui non si vede bene l'uscita. Anche perché, poi, l'operazione di Einaudi non si è inserita nel classico mercato rateale, che è un mercato a parte dalla libreria (come insegna la Utet). Ha mescolato le carte. Ha mescolato i pubblici. Ha mescolato i consumi. È vero, lo ha fatto .per mezzo di oggetti di qualità indiscutibile. Ma la lezione da ricavarne è che talora - essendo il mercato quello che è - anche la qualità può diventare un danno, se alla qualità intrinseca non si accompagna quella estrinseca di una buona logica d'impresa.

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