Alfabeta - anno VI - n. 60 - maggio 1984

lettere Uno sciopero della fame Alla redazione di Alfabeta. Da quindici giorni - dal 5 di marzo - stiamo attuando uno sciopero della fame. Lo continuiamo, a tempo indeterminato, contro una accezione puramente simbolica della forma di lotta, fuori da una Logica di pratica rivendicativa di breve respiro. Partendo - ma andando oltre - da contenuti di , «umanizzazione», di stemperamento delle forme più brutali (art. 90 e braccetti di massimo isolamento) in cui è articolata la gestione carceraria. Riteniamo che oggi - con alle spalle un ciclo di lotte e di riscontri di sensibilità sociale che hanno anche indotto modificazioni, pur modeste, di atteggiamento istituzionale nello specifico del carcere - il problema, la questione da affrontare non sia più l'art. 90 ma semmai il carcere speciale, il suo statuto di separatezza e contenimento autoriproduttivo, paradigma della compartimentazione sociale. Aggredire e sviluppare questa tematica può fondare, divenire caratterizzazione e preludio di una critica globale della nozione stessa del carcere e di tutti gli istituti di contenimento delle «devianze», governati dalle regole della coazione e dell'afflizione, del['extraterritorialità. Vi sono due tipi di battaglie, integrantesi e strettamente correlate, su cui va sviluppato il dibattito e stimolato il confronto tra soggetti e istanze diverse - politiche e istituzionali, sociali e culturali - per determinarne le condizioni di praticabilità. Una è una battaglia concreta e articolata contro gli elementi costitutivi, le funzioni determinate, del carcere: la recinzione e recisione delle relazioni, la deprivazione e inibizione dei rapporti affettivi, lo sconvolgimento e umiliazione delle personalità, la riduzione del soggetto prigioniero a individuo solo, «cosificato», l'espropriazione della facoltà di governo soggettivo del tempo, ridotto a serialità predisposta e imposta. L'altra, ovvero la dimensione generale dello stesso, è una battaglia ideale e di cultura contro l'esistenza stessa del carcere, le sue origini e il suo senso, per l'abolizione della necessità di ogni sua vigenza. Battaglia con una connotazione fortemente utopica, certo; soprattutto in una stagione in cui convivono contraddittoriamente, nel panorama politico e sociale, impulsi e sensibilità al rinnovamento, all'attenzione per i nuovi bisogni e nuovi diritti, per attenuare la sovradeterminazione istituzionale, favorendo e espandendo spazi maggiori di libertà e di autonomia; e, in un clima restaurativo e di controriforma, tendenze al disciplinamento, alla coazione, all'invasione giuridica e statuale di ogni àmbito delle relazioni sociali, a una normativizzazione ipertrofica che cerca di inibire ogni forma di autodeterminazione, decisionalità e protagonismo dei soggetti e delle minoranze sociali (dalla legge Degan sui manicomi alleproposte di istituti coattivi per le terapie della tossicodipendenza, dall'insabbiamento della legge sulla violenza sessuale agli intenti di revisione della legge sull'aborto, dal decreto sulla scala mobile allo scatenamento di una offensiva psicologica e propagandistica di mistificazione per bloccare al Senato, o modificare radicalmente in senso restrittivo, la legge sulla carcerazione preventiva). Battaglia con connotati utopici, dicevamo, anche perché si cala in una diffusa incultura e inciviltà, di rattrappimento di senso etico e di umanità nel suo significato più elementare e immediato: basti pensare all'indifferenza sociale riguardo al problema dell'ergastolo subito in condizioni feroci cui sono condannati, da sempre, gli animali negli zoo di ogni parte del mondo o alla scarsa attenzione per i milioni di 'bambini e adulti che muoiono di fame, per la violenza sull'infanzia, per mille altre barbarie. Non per questo ci sentiamo meno motivati, al di là della nostra condizione, perché crediamo vada riscoperto e rifondato - nelle strumentazioni così come nel sistema di valori - un entusiasmo per le battaglie ideali e una capacità di tradurle in una trasformazione accelerata del reale. Lavoriamo nel carcere oggi - contro il carcere - per impedire la rimozione della questione della prigionia, per aprire e riscontrare disponibilità sociale e politica, un percorso di soluzione politica globale per i prigionieri politici. Vogliamo porre al centro del dibattito e delle iniziative, costruendo confronto e possibile rispondenza con un arco ampio e diversificato di forze (da istanze di movimento e di critica sociale ad àmbiti culturali, ad aree di sensibilità della sinistra e degli enti locali), l'attualità di un discorso e di passaggi materiali su decarcerizzazione e socializzazione del carcere e dei prigionieri. Socializzazione che sia altro dall'ideologia della «rieducazione» fondata sul disinnesco della volontà e capacità di critica sociale, ma - all'opposto - sperimentazione di caratteri e di pratiche comunitarie e cooperanti, utili e inerenti alla trasformazione della realtà, dei rapporti umani e sociali tra gli individui, in un rapporto con le istituzioni non subordinato ma suscettibile di critica, confronto e mediazione conflittuale. Parlare di socializzazione e decarcerizzazione vuol dire attaccare e demistificare la questione della «sicurezza» e della «pericolosità sociale», affermando Là pratica della rivisitazione· critica del passato e l'ottica della fruibilità sociale delle esperienze, del loro superamento e dei saperi accumulati, contro i criteri e le logiche di irreversibilità della pena, contro la «vendetta sociale». Parliamo allora di uno spettro ampio di soluzioni e di passaggi - diversificati tecnicamente ma con carattere di unitarietà di intenti e contenuti di svuotamento e soluzione concreta della prigionia politica - che abbiano una dimensione non conclusiva ma innescativa, di attualizzazione possibile; cioè non neghino ulteriori passaggi, anzi favoriscano una dinamica in progressione finalizzata a una soluzione di 'libertà per tutti i prigionieri politici,, interna e parte di un processo più generale di allargamento e estensione di libertà reali nell'intera società. Parliamo - da subito, come apertura di una fase transitoria - di usufruizione allargatadi arresti do: miciliari, di forme alternative alla detenzione (semilibertà, affidamento al servizio sociale) che abbiano estensione e qualità maggiori di quelle già previste dalla riforma del '75. Parliamo - come fase di passaggio verso la soluzione globale - per le tipologie dei reati più gravi di «confino» o «esilio interno» come forma di decarcerizzazione parziale ma ostativa del/"operativitàdella cultura del custodialismo e della separatezza, come comunità in via di socializzazione, non sottoposta a gestione militare del tempo e della vita, se non a quella della delimitazione dello spazio di territorio in cui è inserita. Su queste tematiche continuiamo lo sciopero, sollecitando il dibattito dentro le carceri, per verificaresensibilità e disponibilità rispetto ali'esterno. Maurizio Pedrazzini Diego Forastieri Rosario Schettini Susanna Ronconi Sergio Segio San Vittore, 20 marzo 1984 Per Susanne Linke il problema non si pone neppure, visto che tecnica e estetica della sua danza si rifanno assai debolmente e in superficie alla comune matrice «neoespressionista», per abbracciare, consapevolmente, la modem dance (Limon) soprattutto americana. E questo sia nelle «solo dances», sia nelle coreografie di gruppo come Am Reigenplatz, visto al Teatro Malibran di Venezia. Per la Bausch il discorso è certo più complesso, dato che persegue da tempo la strada di un teatro coreografato. Resta chiaro, almeno per un osservatore di danza, che la coreografa non impegna i suoi danzatori in «finti training ed evoluzioni, facendo loro adottare una gestualità obbligata e tipica di tanti ballerini» (quali?), ma li impegna in veri training e vere evoluzioni, semplice- -mente perché sono dei veri balleri- ----------------1 ni. Il progetto della Bausch non è Pina Bausch e «neoespressionismo» tedesco Gentile Alfabeta, a proposito di Pina Bausch, Reinhild Hoffmann, Susanne Linke, ·reportage di Maria Maderna («Da Berlino», in Alfabeta n. 58), una precisazione. La pièce Bandoneon di Pina Bausch non rimanda affatto al Bandoneon di Mauricio Kagel, a «quell'armonica a bocca che si trasformava, nelle mani del- ~['esecutore, in una scatola di Pandora... », bensì al tango e al suo strumento privilegiato: il bandoneon, piccola fisarmonica di origine tedesca adottata in Argentina sul finire del XIX secolo... come afferma, del resto, la stessa coreografa che ha concepito questo lavoro proprio a Buenos Aires, durante una tournée della sua compagnia. l titoli nei lavori della Bausch sono delle spie molto importanti. Importante è capire, in questa pièce del 1980 (e non del 1981), come il tango (musica e danza) diventi specchio per un'.analisi dei comportamenti sociali, dei rapporti di forza tra i sessi, leit-motiv di molti altri lavori bauschiani e qui intuitiva anticipazione dell'odierna circoscritta riscoperta del tango come «Tanz der Gefuhle», danza dei sentimen- .ti. Riscoperta anche del ballo di sala (Le bai di Ettore Scola) come originale materia di storia, e per la Bausch, naturalmente, di coreografia. In questo senso, dubitiamo profondamente che Pina Bausch, Reinhild Hoffmann e Susanne Linke diano «un consapevole addio a tutto il passato della danza». Anzi. eliminare la danza, né esprimere l'impossibilità di danzare. Al contrario, è valorizzare ogni danza (anche la classica) in un contesto diverso, vitino alla vita, dentro la vita. Un po' ingenuo, almeno rispetto al dibattito che riguarda la nuova danza tedesca, credere che le dichiarate ostentazioni di rigetto nei confronti della danza classicacoincidano con delle abdicazioni. Sono degli espedienti scenici, in genere dei vanagloriosi «coups de théiìtre », dove si ha modo di apprezzare la preparazione completa dei ballerini della Bausch. Coreografa al cento per cento, la Bausch predispone di fronte allo spettatore un campo minato: bisogna muoversi con attenzione, sapendo, prima di tutto, che i suoi lavori nascono e crescono come immani sedute psicoanalitiche: i danzatori si confessano. Ma il tema non è mai il teatro (Kontakthof è un semplice «luogo di incontro», non certo teatro come covo di corruzione e malcostume!), altrimenti non potrebbe esistere la recita tragicomica delle confessioni. Altrimenti le parole non avrebbero un senso, e una grande fedeltà (proprio in Walzer!) capace di evocare, non solo di comunicare, esattamente come la danza. PS. Reinhild Hoffmann ha debuttato a Milano con i suoi assolo, un anno prima aveva debuttato a Venezia la sua compagnia, ma tra le due presentazioni esiste una grande differenza. Marinella Ouatterini Milano, aprile 1983 . \.

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