U n'affermazione che si sente ripetere sempre più spesso nella letteratura storica contemporanea è che l'inizio effettivo del nostro secolo si situa nel 1914, quando in Europa ebbe fine quella che Karl Polanyi ha definito la «pace dei 100 anni», iniziata con il Congresso di Vienna e chiusa dall'attentato di Serajevo. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale, la maggior parte degli uomini politici europei guardava al conflitto che si era aperto in termini sostanzialmente ottocenteschi, come a un conflitto tra le potenze europee che si sarebbe rapidamente concluso dando luogo a un nuovo equilibrio. Il nostro Giolitti, che era tra i più pessimisti, pensava che esso non sarebbe durato tre mesi, ma neppure tre anni. Anche larga parte degli intellettuali condivideva questi punti di vista, e non pochi tra di essi si lasciarono coinvolgere dall'ondata patriottica e nazionalistica del momento: non solo il nostro estroverso d'Annunzio, ma anche l'austero Wilamowitz. La psicosi bellicista giunse a lambire, almeno in un primo tempo, larghi settori dell'opinione pubblica e delle stesse classi popolari. Non si spiegherebbe altrimenti l'atteggiamento assunto al momento dello scoppio del conflitto dalla maggioranza dei Partiti socialisti europei. Fu solo attraverso la terribile esperienza di una guerra durata oltre ogni pr~visione e al prezzo di sofferenze inaudite che l'Europa si rese conto di essere entrata nel secolo XX, in un mondo cioè che aveva raggiunto un grado di interdipendenza tale per cui il manifestarsi di un conflitto locale provocava una reazione a catena e dava luogo a ciò ché appunto si definì una «guerra mondiale». A questo livello e con queste dimensioni, la guerra cessava di essere lo strumento con cui, giusta la celebre definizione di Clausewitz, si perseguiva «con altri mezzi» un obiettivo politico, per divenire un fenomeno imprevedibile e incalcolabile. Ognuno dei belligeranti aveva sperato attraverso la guerra di ottenere dei vantaggi politici e territoriali e un equilibrio per esso più favorevole, e tutti si trovarono invece a dover fronteggiare una potente ondata rivoluzionaria, che scosse il loro equilibrio interno e rovesciò quello che-era fino ad allora apparso come il trono più stabile d'Europa. Ogni belligerante si proponeva di ottenere una redistribuzione a proprio vantaggio delle colonie, e tutti si trovarono a dover fronteggiare - in Cina, in Turchia, in India - le prime manifestazioni di quel movimento anticolonialista ~ che nei decenni successivi sarebbe- -::s ro venute sempre crescendo. .s ~ Ogni belligerante desiderava la t:I. vittoria, ma non dovette passare ""t-- ~ molto tempo perché le stesse po- ~ tenze europee vincitrici si accorgessero che il prezzo pagato per essa era stato troppo alto. Oltre che incontrollabile, la guerra si rivelava anche poco efficace, veramente la «grande illusione» di cui aveva parlato Norman Angeli. Da allora, i problemi della guerra e della pace acquistarono una dimensione nuova e diversa. La politica estera, che sino ad allora era stata l'appannaggio di circoli ristretti, acquisì una nuova dimensione pubblica e divenne parte integrante del dibattito politico interno di ciascun paese: si pensi ai 14 punti di Wilson e alla pubblicazione dei trattati segreti da parte del governo rivoluzionario sovietico. La «nuova diplomazia», la diplomazia aperta, si contrapponeva alla «vecchia diplomazia», la diplomazia segreta. El su questa base delle nuove dimensioni pubbliche della politica estera che si sviluppa il pacifismo del secolo XX, che ha inizio al termine della prima guerra mondiale. Esso si differenzia dal pacifismo del secolo XIX per vari aspetti. In primo luogo per i suoi orizzonti, che non sono più europei e eurocentrici, ma planetari; e in secondo luogo per i suoi orientamenti, non più umanitari ma politici. La pace non era uno stato che doveva esser conservato, ma un obiettivo che doveva essere conseguito attraverso la rimozione delle cause che determinavano la guerra. In quanto tale, in quanto cioè pacifismo politico, il pacifismo del XX secolo non è un fatto di élites più o meno illuminate, ma - facendo leva su quella nuova dimensione pubblica che la politica estera ha acquisito - fa appello all'opinione pubblica e, in particolare, a quei settori di essa che sono maggiormente sensibili e interessati alla causa della pace. Nel mondo anglosassone, la tendenza prevalente di questo nuovo pacifismo fu quella che, con una caratterizzazione_ approssimativa, potremmo definire di matrice e di ascendenza wilsoniana: l'obiettivo che essa si proponeva era quello della prevenzione di un nuovo conflitto attraverso la graduale rimozione di quelle che avrebbero potuto esserne le cause. In questa prospettiva si insisteva soprattutto sulla necessità del controllo sugli armamenti e del disarmo, dell'arbitrato internazionale a opera della Società delle nazioni, e del rispetto del principio di autodeterminazione. Quest'ultimo si applicava soprattutto alle nazioni euroGiovanni Lussu, marchio (1982) pee, ma non se ne escludeva una graduale e prudente estensione anche ai popoli sottoposti alla dominazione coloniale. Non si può per altro non constatare che questo programma pacifista non riuscì a andare oltre un'enunciazione di intenzioni e di principi. Dopo la sconfitta di Wilson nelle elezioni .del 1919, il suo nucleo politico venne via via riducendosi e dissolvendosi, per lasciare il posto - come soprattutto nel caso americano - a una concezione e a una pratica isolazionista, per cui il problema della pace si riduceva a quello della propria pace, della pace per sé. In altri paesi - penso in particolare a certi settori del pacifismo inglese tra le due guerre - si ebbe una regressione verso una concezione sostanzialmente ottocentesca della pace, intesa come appeasement e come conservazioWeltkrieg generava la Weltrevolution. Era questo il duro corso della storia, e le speranze dei pacifisti «wilsoniani» di poterlo in qualche modo dirottare erano soltanto pie illusioni. La stessa espressione «lotta per la pace», che è divenuta corrente nel linguaggio comunista nel secondo dopoguerra, era accettata con riserve e ad essa si pre1-~1:· ~'t~D • •• -:;;,;;;;; 12 ~ ore 9.30 . Scuola media ..Picentia ·: Pontecsgnano martedì 13 marzo ore 9,30 2· Cirr:olodidattico. FIJÌBno mercoledi 14 mano ore 9,30 I" Cirro/o didattico. Faiano Gelsomino D'Ambrosia e Pino Grimaldi, Manifesto ne dell'equilibrio e dello statu quo. Nell'Europa continentale, l'impegno antimilitarista e pacifista si identificava in larga parte con la tradizione dei partiti della sinistra e del movimento operaio. Anche se non mancarono partiti e movimenti (penso in particolare alle socialdemocrazie scandinave) che fecero propri i principi del pacifismo wilsoniano, la tendenza prevalente - e non soltanto presso i comunisti - fu quella che individuava nella rivoluzione o in una radicale trasformazione dei rapporti sociali il solo concreto mezzo di evitare la guerra. Se questo presupposto non si realizzava, un nuovo conflitto era giudicato inevitabile e quando, a partire dalla metà degli anni venti, apparve chiaro che l'ora della rivoluzione era passata, la pro- . spettiva di un «nuovo 1914»venne ritenuta sempre più probabile. Come nel 1914 le contraddizioni interne, economiche e politiche, del sistema imperialistico sarebbero sfociate in un conflitto di cui tutte le potenze, al di là di ogni artificiosa Sculdfrage, erano egualmente corresponsabili, nel senso che nessuna di esse era in grado di controllare un meccanismo delle relazioni internazionali che sfuggiva a ogni controllo. Come nel 1914 la guerra avrebbe generato la rivoluzione e assicurato così le condizioni per una pace duratura: il feriva quella di «lotta contro la guerra», dando cioè per scontato che una guerra sarebbe scoppiata e che sarebbe stato necessario «trasformarla» in una rivoluzione. La convinzione che esisteva un nesso assai stretto tra crisi, guerra e rivoluzione si radicava così saldamente nel patrimonio ideale del movimento operaio, e noi possiamo ancor oggi constatare quanto queste radici siano profonde. Certo, ciò è vero soprattutto per il movimento comunista, ma non solo per esso. È significativ6, ad esempio, che due dei più importanti testi della letteratura socialista sui temi della guerra annuncino, sin dal loro titolo, un'ottica non dissimile. Mi riferisco alla conferenza tenuta da Adler nel 1929, che riproduce nel titolo un celebre passaggio della mozione di Stoccarda (Se nonostante tutto la guerra dovesse scoppiare), e al saggio di Otto Bauer del 1935, significativamente intitolato Tra due guerre mondiali. Vale la pena di aggiungere che la prospettiva di un «nuovo 1914» era largamente condivisa anche dal movimento anticolonialista: non solo dal Mao dello scritto Sulla guerra di lunga durata (1938), in cui la guerra imminente viene considerata come l'ultima guerra della storia umana, ma anche per Nehru. Chi conosce i suoi scritti della fine degli anni trenta, sa come essi siano dominati dall'incubo di una nuova guerra. A Ila luce del corso che presero gli eventi si può dire, a posteriori, che siffatte previsioni erano fondate. Ma ci si può anche chiedere se esse non fossero una manifestazione di inerzia e pigrizia mentale, di una concezione ripetitiva della storia, che impedì ai partiti della sinistra e del movimento operaio di cogliere quanto di nuovo e di diverso maturava nella realtà internazionale. Qualche segno di ripensamento si ebbe dopo la vittoria del nazismo in Germania: il fenomeno internazionale del fascismo, per i suoi caratteri di revanscismo e di sciovinismo aperti, rappresentava un fatto nuovo, o per lo meno una significativa variante, rispetto all'imperialismo classico, e tale novità fu percepita sui due versanti del pacifismo europeo. Nel giugno 1935, alla vigilia dell'aggressione italiana all'Etiopia, venne organizzato in Inghilterra il peace ballot, una sorta di referendum autogestito cui parteciparono più di 11 milioni di inglesi. Tra le domande cui si chiedeva risposta, oltre ad alcune ispirate chiaramente a un pacifismo di tipo wilsoniano, ve ne erano anche che sollecitavano una risposta nel senso di un impegno antifascista. Pochi mesi dopo il peace ballot, si svolse a Mosca.il VII Congresso dell'Internazionale che, come è noto, individuò nel fascismo il «nemico principale» e nel suo isolamento l'unica via praticabile per prevenire un secondo conflitto mondiale. Si delineava così la possibilità di una convergenza tra pacifismo di matrice wilsoniana e pacifismo operaio, e nel 1936 si riunì a Bruxelles un grande Congresso mondiale per la pace, cui presero parte tra gli altri una delegazione di sindacati sov1etic1 capeggiata da Svernik e una delegazione di pacifisti inglesi, nella quale figuravano alcuni esponenti autorevoli del partito conservatore. Il Congresso di Bruxelles, che fu salutato dalla stampa dell'epoca come un grande evento e una grande speranza, non è ricordato oggi da nessun manuale di storia. E si comprende: esso si risolse infatti in un tentativo di strumentalizzazione reciproca tra i pacifisti dello statu quo e i pacifisti della rivoluzione mondiale. A lavori ultimati, ciascuno dei partecipanti riprese la propria strada, chi verso le trincee della Spagna repubblicana, chi verso la capitolazione di Monaco, chi verso il patto germano-sovietico del 1939. Ancora una volta l'umanità fu nuovamente piombata in un conflitto mondiale, e ancora una volta essa dovette constatare, a prezzo di indicibili sofferenze, che la guerra era divenuta un fenomeno incontrollabile e imprevedibile. Chi, nel 1939, avrebbe previsto Hiroshima? Estratto dalla relazione introduttiva di Giuliano Procacci al convegno «Culture e strategie de/pacifismo» (Milano, 6-7 aprile 1984), curato dall'Istituto Gramsci, dal Cespi e dal Crs. • •
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