Alfabeta - anno VI - n. 60 - maggio 1984

La ueri■n-e il sacro • Carlo Formenti • A fianco degli interventi sovratito- /ati Il giorno prima e numerati progressivamente, pubblichiamo altri scritti come materiali d'integrazione della discussione a cui diamo qui inizio. E tologo e allievo di Konrad Lorenz, Eibl-Eibesfeldt ha scritto un libro (recentemente tradotto e pubblicato a cura dell'editore Boringhieri: Etologia della guerra, Torino 1983) in cui respinge le accuse di determinismo biologico da più parti rivolte alle tesi che la sua disciplina ha sviluppato sull'aggressività umana e sulla più clamorosa delle sue manifestazioni, la guerra. Per spiegare questo fenomeno, secondo EiblEibesfeldt, non occorre sostituire gli istinti aggressivi innati alle determinanti culturali nell'ordine delle cause, ma superare le contrapposizioni schematiche fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale: «La guerra è un risultato dell'evoluzione culturale, che peraltro è del tutto basato sull'evoluzione filogenetica e ne costituisce la continuazione» (Etologia della guerra, p. 173). L'affermazione si fonda su un'analisi che si rifiuta di ridurre le differenze fra aggressività animale e umana alla formula: l'animale non uccide i suoi conspecifici, l'uomo sì. È vero che i moduli innati di comportamento che governano l~aggressivitàintraspecifica anima- --- le vietano l'uccisione degli sconfit- .ti (i quali possono ricorrere a una serie di comportamenti ritualizzati che inibiscono l'aggressività dei vincitori). È tuttavia altrettanto vero che la regola subisce importanti eccezioni, relative soprattutto alle dispute territoriali. Le tensioni fra comunità animali insediate su territori diversi possono crescere fino al punto di impedire di riconoscere come conspeci- ~ fico un esemplare estraneo che ab1::s bia sconfinato, consentendone .s ~ l'uccisione. Queste eccezioni alla ~ regola biologica divengono regola ~ ~ culturale per la specie umana, im- -. plicata nel fenomeno della pseu- .9 dospeciazione, vale a dire in pro-. ~ ce~si di differenziazione culturale E in ragione dei quali i conspecifici estranei vengono dis-umanizzati, si trasformano in «nemici»: «ha guerra si è sviluppata come meccanismo culturale di mantenimento delle distanze· dagli estranei, e in questa funzione è del tutto paragonabile alle forme di aggressività territoriale determinate per via biologica» (ibidem, p. 130). Secondo Eibl-Eibesfeldt, tuttavia, l'imperativo culturale sovradetermina la norma biologica ma non la abolisce: nel corso delle di- . spute territoriali i gruppi umani si combattono come se fossero animali appartenenti a specie diverse, ma le atrocità commesse in queste circostanze si accompagnano a violente sensazioni di colpa. Si prospetta quindi la possibilità di un rovesciamento dialettico: la norma biologica controreagisce sull'imperativo culturale sovradeterminando a sua volta l'istituzione bellica. Assieme alla pseudospeciazione, la guerra ha svolto importanti funzioni evolutive, favorendo la differenziazione e la competizione dei gruppi culturali; essa comporta però rischi distruttivi, che devono essere controllati riattivando la norma biologica. Per l'uomo - animale culturale per natura - ciò non può che avvenire attraverso la elaborazione di nuove sovrastrutture culturali. (Tali sono, ad esempio, gli accordi per escludere l'uso· di certe armi particolarmente crudeli o distruttive, la ritualizzazione delle azioni belliche - come avveniva nel codice cavalleresco dei tornei medioevali - , -la composizione dei conflitti mediante procedure negoziali, l'intensificazione delle interazioni comunicative fra gruppi 1 culturali diversi, ecc.). 11 discorso di Eibl-Eibesfeldt è più complesso e contraddittorio di come l'ho qui riassunto, e non a caso, per ridurlo a questa forma lineare, ho dovuto concentrarmi sui suoi aspetti più legati alla dimensione territoriale del fenomeno bellico, astraendo dai fattori tecnici e linguistici (in senso lato), che irrompono nel rapporto fra determinanti culturali e biologiche destabilizzandone gli equilibri «dialettici». Lo sviluppo della tecnologia bellica, in particolare, agisce in direzione di una «industrializzazione» della guerra che sostituisce all'etica del guerriero l'anonimo lavoro degli eserciti di massa, producendo il massacro attraverso un apparato tecnico-organizzativo che deresponsabilizza 1 singoli. Trasformata in macello mondiale fra grandi potenze che si contendono territori sovraffollati, e coinvolgendo le grandi masse dei civili, la guerra non serve più alla competizione fra gruppi culturali, ma neutralizza al contrario le differenze attraverso lo sterminio sistematico dei soccombenti, mentre la deresponsabilizzazione dei combattenti rende sempre più problematico dare voce alla norma biologica pacificatrice. L'etologo tedesco controbilancia in senso ottimistico queste tendenze valorizzando altri aspetti dello sviluppo tecnologico, e in particolare quello che favorisce l'omologazione dei linguaggi e una crescente interazione comunicati-· va. Vivendo su un pianeta ricoperto da una rete sempre più fitta di mezzi di comunicazione, ormai quasi privo di territori vergini da colonizzare, minacciato dalla potenza distruttiva delle armi nucleari, gli uomini sembrano ormai costretti a riconoscersi come specie unitaria, e a inventare strutture culturali che svolgano meglio di quanto è finora avvenuto il loro Regione Piemonte Assessorato alla Cultura Aiace, Endas Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pe3aro Lo schermo conteso Armando Ceste e Gianfranco Torri, Manifesto (1981) compito di sostituire 1 moduli comportamentali innati che regolano l'aggressività intraspecifica. Ma questo ottimismo non mi pare sufficientemente fondato. La trasfigurazione culturale dell'inibizione biologica a uccidere non è adeguatamente tematizzata, e il discorso etologico sulla natura originaria della dimensione della colpa non coglie le ombre inquietanti che questa esperienza radicale proietta sull'essere umano. Dopo averci parlato della lotta per il territorio, delle armi con cui viene combattuta, del linguaggio •che ne detta le regole, Eibl-Eibesfeldt conclude lasciandoci sperare che queste regole saranno sempré più restrittive, e i conflitti sempre più ritualizzati. Non ci dice però abbastanza sµlle modalità di trasformazio.ne:deltinibizione innata a uccidere in regolamentazione rituale del conflitto, autorizzandoci in-qualche modo a riténere che, su· quest'ultimo piano, la diffe~enza fra l'umano e l'animale sia misl:lrabile solo in gradi di complessità. Ma così il rito viene analizzato esclusivamente dal punto di vista delle sue funzioni comunicative, occultandone le origini violente di amministrazione del sacro.· I nteramente dedicata alla· riflessione su queste origini è invece la monumentale opera di René Gfrard, la quale, documentando la relazione di identità fra la violenza e il sacro, analizza il dispositivo sacrificale e il rito come meccanismi di deviazione e di controllo del potenziale distruttivo implicito in tale relazione. Anche Girard vede nel rito la trasfigurazione di una colpa che solo le parole senza tempo del mito possono recitare - alludendo all'indicibile di una esperienza preumana, governata dalla norma biologica -, ma dimostra come il pensiero rituale non nnunc1 alla violenza, bensì si limiti a spostarne il bersaglio. La colpa è trasferita sul capro espiatorio: la vittima della violenza ritualizzata assume su di sé il rischio di una violenza incontrolla~ bile. Il movimento è sempre dall'interno all'esterno: la vittima - scelta fra gli schiavi, i prigionieri di guerra, i -diversi, i marginali di ogni tipo - rappresenta il «fuori», il nemico, il non-umano su cui occorre deviare la violenza che mi· naccia di esplodere «dentro», cbntaminando la comunità dei conspecifièi che si riconoscono come tali per la comunanza di territorio e linguaggio. Ma se il gesto rituale non serve solo a comunicare ma anche a brandire l'arma sacrificale, dob- .biamo aspettarci che il suo rapporto con la guerra non sia del tutto innocente. Dal punto di vista di Girard, infatti, la guerra non riguarda solo la contesa per il territorio: essa è anche e soprattutto guerra sacra, inflazione del gesto sacrificale. E l'inflazione minaccia di farsi più grave in un mondo come il nostro, quasi completamente privo· di luoghi deputati all'esercizio rituale della violenza, e costretto quindi a moltiplicare la violenza bellica contro i nemici ester- • ni nell'inutile tentativo di controllare la violenza che inquina il legame sociale dall'interno. Simbolo di questa spirale interminabile, l'arma nucleare è la rappresentazione più adeguata di un potere distruttivo così sterminato - da assumere connotati religiosi: la· bomba «troneggia al di sopra di una folla immensa di sacerdoti e di fedeli che sembrano esistere soltanto per servirla. Gli uni sotterrano le uova avvelenate dell'idolo, gli altri le depositano sul fondo dei mari, altri ancora le disseminano per i cieli, facendo volteggiare senza fine le stelle della morte al di sopra del brulicante formicaio. «Non c'è la benché minima particella di una natura depurata dalla scienza di tutte le antiche proiezioni soprannaturali che non sia reinvestita dalla verità della violenza. Non si può ignorare, questa volta, che tale potenza di distruzione è unicamente umana, ma, per certi aspetti, • ess·a funziona in modo analogo al sacro ( ... ) . In un mondo sempre più desacralizzato, solo la minaccia permanente di una diGiovanni Lussu, Unità proletaria (1979) struzione totale e immediata impedisce a~li uomini di distruggersi tra loro. E sempre la violenza, insomma, che impedisce alla violenza di scatenarsi» (Delle cose nascoste, p. 319) E tuttavia qualcosa di radicalmente nuovo c'è: la minaccia della violenza può governare il conflitto, ma non può più risolverlo passando dalla potenza all'atto, convertendo la minaccia in effettivo ricorso alle armi atomiche. Ciò che non è chiaro, però, è se questa impossibilità etica si sia effettivamente e irreversibilmente tradotta m impossibilità politico-militare: <<l'attuale comportamento delle nazìoni è ambiguo. Esse non sono rié abbastanza sagge da rinunciare a spaventarsi reciprocamente, né -abbastanza folli da scatenare l'irreparabile. Si ha a che fare dunque con una situazione intermedia e complessa (... ). O .ci orienteremo sempre più verso la non-violenza, oppure scompatirerno» (ibidem). Pur nella eterogeneità •dei rispettivi punti di vista, Eibl-Eibesfeldt e Girard sembrano quindi unanimi nell'affermare che la via della violenza si identifica ormai con quella della estinzione della specie; mi pare tuttavia che nessuno dei due riesca a creare un collegamento sufficientemente saldo fra l'imperativo etico della pace e una reale possibilità di disattivare i dispositivi che lavorano per la guerra. Pensare la pace sembra un compito a un tempo necessario e impossibile. A lcune suggestioni per aprire un varco nel muro della impossibilità giungono da quel film sconvolgente che è The day

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