Alfabeta - anno VI - n. 60 - maggio 1984

La letteratura e la riflessione sulla letteratura come strumenti da usare; come macchìne da far funzionare; come oggetti da adeguare alle proprie necessità capacità bagaglio culturale-immaginativo: proposizioni esattamente in linea con certe idee portanti della stessa neoavanguardia tra indicazioni benjaminiane e «guerriglia semiologica», tra l'altro; e fruttuose rispetto all'oggi per il loro implicito riaprire il discorso sull' «aristocraticismo» di tutte le operazioni di avanguardia, sistematicamente bollato dai conservatori come antidemocratico per la sua difficoltà di fruizione, e in realtà assai meno autoritario di tutti i prodotti concepiti in un ordine cultualepoetico nei quali il celebrante onnisciente e solitario amministra i suoi riti per i pochi o molti fedeli in posizione passiva. Gli anni sessanta sono stati gli anni del cosiddetto boom: e certo la guerra di movimento scatenata dai gruppi letterari di punta organizzati e dai loro ·fiancheggiatori isolati si è mossa nel quadro «permesso» dalle condizioni date. Il paese era quello che era: ancora impacciato tra tentazioni di ammodernamento accelerato sul piano socio-produttivo e ritardi massicci sul piano del costume. La cultura e la letteratura avevano, un po' come oggi, paura dell'intelligenza. Il Gruppo 63, il Gruppo 70, le riviste come Che fare, Malebolge, Marcatre e più tardi Quindici, e molti singoli operatori sperimentali, vollero e non vollero, e alla fine non poterono (ovviamente) fare la rivoluzione: ma certo aprirono alle esperienze intellettuali più avanzate d'Europa e d'America, mettendo al tempo stesso i piedi nel piatto della contraddizione: e dimostrando, volontariamente o involontariamente, che la letteratura contiene in quanto ,pecifico una sua politicità insopprìmibile. La crisi di Quindici non aggiunse a questa tormentata consapevolezza niente di nuovo. Le nuove avanguardie avevano svolto la loro funzione insieme distruttiva e terapeutica: e davvero ci si illuse - beata ingenuità! - che ormai non sarebbe stato più possibile scrivere come se nulla fosse accaduto. È successo esattamente il contrario: e gli stolidi anni settanta ne sono la prova miseranda, almeno nella loro «facies» quantitativamente dominante. Anche contro la linea più clamorosa di un decennio che, rispetto alle scoperte (e alle riscoperte) teoriche degli anni sessanta, «presenta caratteri nettamente reattivi e restaurativi», il libro di Muzzioli si pone quindi come un ricco e fecondo contributo militante, e un 'ulteriore testimonianza di come in questo paese - in cui la cultura fa sempre un passo avanti e due passi indietro, proprio come la politica - in realtà il filo rosso di un dibattito non celebrativo sulla letteratura non si sia mai spezzato, anche se la prospettiva degli anni sessanta non può essere, ovviamente, la nostra, ma certo la presuppone, almeno nei suoi nodi più stretti e stringenti. Complessivamente il libro di Muzzioli è completo e indispensabile per il lettore giovane e per lo studioso che voglia con rigore ricostruire il dibattito e la serie di motivi fondamentali del nuovo periodo letterario e culturale, prima della salita di una priorità politica militante, di cui non va scartata l'importanza, né trascurata la sospensione grave della ricerca letteraria artistica, né dimenticata l'esistenza, in favore di quanti si sono esibiti ed elaborati negli anni set- •tanta ignorando le ragioni di militanza, con un loro gusto letterario diviso o separato o distaccato, che non ha poi pre,o un·evickn7a tagliente o viva di autentiche iniziative nuove. Un periodo letterario importante Ora, se è vero che inventio e repetitio s'incrociano oggi come mai nel passato anche a causa della presenza massiccia dei grandi media che elaborano linguaggi nuovi per un pubblico planetario, è comunque un fatto che il Nuovo Ordine Tecnologico non è di per sé una tavola di conoscenza ulteriore; come, d'altra parte, un Disor~ dine non necessitato e teleologica0 mente organizzato non basta a costruire realtà letterarie nuove. Il giusto, anche stavolta, non sta nei mezzo: ma esclusivamente nella . coscienza critica che guida l'operat • • Paolo De Robertis, Giuseppe Monaco, . Cassa dei segni, un utilizzo zione immaginativa. È la questione che anima il libro di Pedullà. Esso apre su una «verticale degli anni settanta» con l'avvertenza che in essa «sono assenti troppi scrittori degni di rappresentare il decennio e il secolo, ed è presente più di uno scrittore che non rappresenterà certo il millennio moribondo». • Aggiunge Pedullà: «La raccolta è esplicitamente 'partigiana' e personale ma non è una scommessa sulla qualità. I buoni perdonano e a questo livello di scrittura è .difficile distinguere i cattivi. Ci sono· cattivi scrittori che tagliano rozza~ mente a fette la letteratura n ma-· guidocrepax hugopratt altan milomanara folco quilici la zolla flottante unalienoeuropeo cadutonel texas queitemerari sullemacchinevolanti gari le piazzano il coltello sotto la gola. E allora la letteratura confessa, oltre ai propri, i crimini di una cultura. Sono pochi come sempre i buoni scrittori, ma troppi gli scrittori buoni». E ancora dice: «Se non si è più cattivi di così, non si cambia la letteratura. In quanto a cambiare il mondo, nemmeno a pensarci. E questo è storia. Questa storia è piena però di scrittori che, oltre alla letteratura, pensano di cambiare il mondo. Bontà loro ·o necessità QOstr.a». L'omaggio a-Giacomo Debenedetti, che la raccolta di saggi di Pedullà rende con consapevolezza al tempo stesso storica e antistoricistica, è - proprio nella chiave del grande critico piemontese - appassionato e cauto. «I miti - dice Frank Kermode - chiedono l'asso- . luto, le finzioni un consenso dubitativo. I miti danno un senso al tempo che fu, l'illud tempus di Eliade; le finzioni, se hanno successo, danno un senso al qui e all'ora, all'hoc tempus». Pedullà dice giustamente che <<Debenedetticercava finzioni che ••potessero diventare miti». Andando «dalla notte al giorno», l'autore di Amedeo non poteva non guardare con un'dmbra di sospetto le scritture •«basse», quelle che nel • decennio '60 e nei primi anni settanta hanno rimesso in discussione le coordinate del gioco letterario, la sua norrriativa tradizionale, privilegiando la [ingua della piazza contro la lingua dell'aula: donde, tra l'altro, la riscoperta attualizzante (e polemica) di certi supremi eterodossi come Gadda e Savinio, paradossalmente impegnati a rendere labirintica, scoordinata e violentemente claudicante la trasparente e austera lingua dell'aula, •padroneggiata e svillaneggiata in •nome di un altro umanesimo . Il «comico», si sa, non ha niente . d~ riscattare: Nessun moralismo !!li arrarticne: l' qui ,ta fa fnr7a della sua teleologia involontaria .. Non è Un' caso che il nostro Nove.: cento sia' attraversato da un 'insopprimibile vena comico-metacomica e insieme da una sprezzante vena espressionistica, pressoché in parallelo. L'incrocio, quando avviene, produce scintille che fanno luccicare l'occhio di Pedullà e accendono anche la sua scrittura critica di metafore ardite e giri parafrastici di forte suggestione. Le presenze (da D'Arrigo a Pizzuto a Zavattini, dai futuristi a Palazzeschi a Savinio~ da Gadda a Campanile a Landolfi ad Alvaro, da Vittorini a Moravia a Calvino a Volponi a Malerba, da Balestrini a Arbasino a Samonà a Manganelli, per chiudere con Bontempelli) non rispondono sempre e fino in fondo a quell'ottica obliqua e presbite auspicata dal critico, ma certo nella quaii totalità compongono una zona sostanziosa di un Novecento diverso rispetto a quello su cui insistono le varie pigrizie e ignoranze accademico-editoriali. Un Novecento conflittuale e anticonsolatorio, nel quale sarà pur necessario considerare testi e autori che il libro di Pedullà non contempla ma implicitamente individua e abbraccia, e che nel presente del Consumo smentiscono energicamente la «crisi» anche troppo propagandata della narrativa italiana, una parte non trascurabile e decisamente acuminata della quale continua a operare in situazione «sommersa». C'è dunque una ripresa, condivisa da molti, che nella cultura e ricerca letteraria artistica del dopoguerra maturo, tra seconda metà del '50 e prima metà del '60, ritrova in più modi un interesse di studio e un investimento di valori intellettuali a cui riportarsi oggi, con una criticità netta verso i motivi o gli· etcessi o le moderazioni dw lT m· hanno allnnranati

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