UnametaforGnIecessari,a? .. .. .. .. .. In Alfabeta n. 58 del marzo scorso sono già apparsi due interventi a proposito del volume Il pensiero debole (Milano, Feltrinelli, 1983). Prendevano la parola Mario Pernio/a («Lettera sul pensiero debole») e Carlo Formenti («L'ultima similitudine»). Giovanni Lussu, marchio per lo Studio Nervi (1978) Q uando con Vattimo si parlava dell'ipotesi del volume Il pensiero debole, e poi anche mentre l'ipotesi prendeva corpo, non ci siamo nascosti i «rischi» dell'operazione. Non siamo certo entusiasti del risultato, che ci auguravamo più denso e mirato. Ma non è questo il punto. Il rischio si accompagnava all'opportunità di mettere in circolazione una sorta di 'slogan' che poteva essere, per sua natura, alquanto ambiguo e forse perfino sviante. Può un pensiero essere debole? Se alla lettera lo fosse, non sarebbe più un pensiero. Allora questa «debolezza» significa qualcosa d'altro da una stanchezza, una malattia, un infiacchimento. E forse anche l'idea di «pensiero» si deve trasformare in qualcosa di diverso, che non corrisponde più alla nozione abituale cui si accompagna, da secoli, il rigore e la forza del ragionamento deduttivo, per concetti, quello che Bergson chiamava il carattere «solido» dell'intelligenza. «Debole», allora, sembra prendere senso in rapporto a «forte»: lavoro di corrosione, di infiltramento, di allentamento della tensione, di scioglimento di un blocco. Soggetto cartesiano, heideggeriana disponibilità sugli enti (sulle cose), efficacia, sicurezza e intrinseca violenza di un sapere tecnicoscientifico che padroneggia oggetti e persone, sopravvivenza di un nocciolo duro, metafisico, nella storia del pensiero occidentale, come ha mostrato Derrida: rispetto a questo «dato» persistente si devono escogitare contromosse. Perché? Per due motivi almeno. Perché se ci limitiamo a accettarlo, considerando che l'efficacia e la sicurezza sono attributi tutt'altro che disprezzabili, scopriremo, prima o poi, che noi stessi siamo necessariamente collocati dalla parte degli oggetti o enti da padroneggiare: -:i possiamo tollerare, disconoscen- .s eo dola o imbellendone l'immagine, '3 ~ la «violenza» sulle cose, sulla natu- ~ ra, e anche sugli altri, non quella -. su noi stessi: almeno, non a lungo. -~ Ma, poi, perché qui non è solo ~ questione di tattiche o di astuzie, E non si tratta solo di «strategie» rac zionali come vorrebbe Foucault: è i::: in gioco la «realtà». Nell'epoca ~ delle convenzioni e dei simulacri, l dove tutto pare consistere in un ""i:i complicato rimando di specchi, sembra quasi anacronistico parlare di «realtà». Che il mondo sia una massa di enti che si lasciano manipolare, nessuno però crede davvero. E tanto meno crediamo che quella parte di mondo che corrisponde a noi sia contenibile in questa idea di oggetto plasmabile e disponibile. Le cose stanno altrimenti: e non c'è dubbio che lo sforzo per variare e modificare la nostra immagine delle cose sia diretto non solo a un nostro «star meglio» nel mondo ma anche a una possi bile, maggiore sintonia con 1 «cose stesse». Vattim per esempio, ha parlato in altre occasioni, sulla base di una sua interpretazione di Heidegger, di «ontologia debole». Per chi ha imparato a attenersi ai «fenomeni» e a considerare illusoria ogni pretesa di trascendere o di lasciare da parte l'orizzonte della soggettività, una simile espressione potrebbe destar sospetto. Ma se riconosciamo che qui è in questione proprio la «natura» delle cose, sulla quale seguitiamo a ingannarci, ipotizzando contorni netti e domìni riducibili alla logica degli oggetti, sarà allora questione solo di linguaggio filosofico e di una sua eventuale inadeguatezza. Non solo alcuni avventurosi esploratori come Prigogine o Thom, o - a un altro livello - Serres, documentano le paradossalità del sapere scientifico quando esso tenta di incontrare di nuovo le «cose» al di là dell'immagine solidificata della tradizione. L'idea di fluttuazione, per esempio, sta facendosi strada in ogni tipo di sapere, e non solo nelle scienze cosiddette «umane». Se osserviamo bene, sta avvenendo un processo culturale per io meno inatteso dopo la storica e irreversibile separazione moderna tra scienza e filosofia. Pier Aldo Rovatti Qui non è più la filosofia che insegue la scienza e - buona ultima - fa su di essa le sue deboli riflessioni, come ancora è avvenuto nei nostro secolo con la relatività einsteiniana. Bisogna parlare almeno di interazione, e in certi casi si ha proprio l'impressione che il sapere scientifico, luogo della forza, rivolga uno sguardo laterale, attenCases (L'Espresso, 5 febbraio 1984), altrettanto perplesso, scrive: «C'è poi da fidarsi del pensiero debole?» (che si affida a Nietzsche e a Heidegger); piuttosto è tempo di «darci da fare per indebolire non il pensiero ma il mondo, che ne ha estremo bisogno». La strada impercorribile è proprio quella cui più ovviamente f! ragionevolmente vien da pensare: trovare un pensiero più potente, la cui forza ci permetta di combattere e vincere la violenza manifesta Paolo De Robertis, Maria Rosa Crea, Giuseppe Monaco, «Marat Sade»: titolo-simbolo per il manifesto del lavoro di P. Weiss (1982) to e interessato, a quel luogo della debolezza che è oggi, comunque, la filosofia. M a il «pensiero debole», nella sua voluta e - direi - necessaria ambiguità, ci avverte sulla impercorribilità di un'altra strada. «Ci è permesso abdicare dal dominio degli enti, non dalla responsabilità dei pensiero», così conclude perplesso Formenti il proprio intervento («L'ultima similitudine». in Alfabeta n. 58, marzo 1984). E Cesare nella scena contemporanea. È stato questo il grande tentativo di Marx di cui tutti, o quasi tutti, portiamo oggi l'eredità. Ma sappiamo anche le sorti di questa avventura del pensiero che ha cercato di edificare attorno a un soggetto forte, collettivo, storico, una teoria «scientifica» e un'ipotesi ottimale di società: la crisi di questo potente progetto teoricopratico è sotto gli occhi di tutti, e allo sguardo di molti non sfugge che tale crisi non è passeggera e che, se molto può essere attribuito alla sottovalutazione delle pratiche e delle teorie rivali, non poco ci riporta alla incongruenza del marxismo stesso. Rafforzarne le ipotesi teoriche? O piuttosto riconoscere la scarsa credibilità di un soggetto storico unico e individuato, il paradosso dello scacco cui va incontro ogni teoria generale della società centrata su una tale pretesa di «verità»? L, espressione «pensiero debole» è una metafora. Indica uno stile possibile di pensiero, un atteggiamento che non riguarda solo la sfera conoscitiva e che forse è meglio chiamare «etico», sempre che con etica non si intenda a propria volta qualcosa di separato, contraddistinto da regole. Si dirà: il «pensiero debole» soffre dunque di una imprecisione costitutiva, tra la metafora e le cose resterà sempre un buco. Io credo che tale «pensiero» metta in discussione soprattutto due idee 'normali', molto radicate: quella di linguaggio filosofico e quella di soggetto. La prima ha appunto a che fare con la «precisione». Suggerisce che soltanto un meccanismo intellettuale tacitamente interiorizzato ci fa pensare che lo scarto tra metafora e realtà debba in ogni caso essere annullato, e che il non riuscirvi corrisponda a una sconfitta del pensiero. Ma il pensiero si chiude in se stesso proprio quando ha imparato ogni volta a ridurre lo scarto senza residui! Scorgiamo così un'altra «precisione» che non contrasta con il dire metaforico, che si annuncia più ricca, che non contiene in sé l'autopadronanza dei suoi momenti. Una parte non piccola del pensiero contemporaneo (non solo filosofico) spinge in questa direzione: r----------------------------------------------, cioè a una trasformazione del linID Cittàdi Torino Assessorato perla Cultura Assessorato allaGioventù In collaborazionceon l'AccademiAa lbertina delleBelleArti Armando Ceste e Gianfranco Torri (Extrastudio), Giovani artisti a Torino (1982) guaggio della riflessione in modo da permettere che in esso la metaforicità possa diventare un indicatore autonomo. Parimenti l'idea di identità soggettiva non è più isolabile come un che di sostanziale e di compatto. L'identità «si rode», ha scritto Lévinas: non solo la differenza e la alterità la abitano, mescolando la luce e l'ombra, ma questo luogo - che pure resta così essenziale! - è ormai conosciuto come un luogo «illusorio», che non può cessare di essere tale. Morte del soggetto, come lo stesso Heidegger sembra decretare? E perché non nascita, difficile ma necessaria, di un'immagine più prossima a quello che siamo? Non siamo forse noi quest'identità che si rode? Non è la nostra? E riconoscerla senza tradirla (di nuovo il linguaggio filosofico) non è un passo importante per ogni nostro orientamento nella realtà e per la nostra idea stessa di realtà? Mettersi nella prospettiva del «pensiero debole» vuol dire allora assumersi molti rischi e avviarsi per un cammino durante il quale inevitabilmente le cose si complicano. Conforta, però, il fatto che molti, in diversi luoghi del sapere, sembrano oggi voler esporsi a una simile sfida, non necessariamente riconoscendosi in questa espressione, alquanto infelice, di «pensiero debole».
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