da nessuna parte, per fortuna; ma fa venire in mente che nessun àltro personaggio di Calvino, a partire da T con zero, s'è trovato in simili imbarazzi, costretto a confessare la vanità del suo cogito, o del cogito in sé, famoso apparato per dimostrare la fondatezza dei nostri pensieri. Insomma, in queste narrazioni congetturali, non sono più soltanto le deprimenti necessità del metodo a mandare avanti le cose, come avveniva non di rado nei testi precedenti. C'è qualcosa di nuovo, un grano di demenza, che forse deriva dai salutari esercizi di osservazione all'aria aperta del dottor Palomar. A un certo punto, in «Il modello dei modelli», si fa menzione di «principi sottesi e non dimostrabili» che Palomar si ritrova tra i piedi ogni volta che tenta di pensare, e che costituiscono i suoi limiti nell'immaginare il mondo. Si tratta, suppongo, di quelle cose che i linguisti chiamano presupposizioni, i fondamenti impliciti e senza possibile verifica, non solo d'ogni asserzione, ma di qualsiasi comportamento. Ora, in quello che mi sembra il più bel racconto del libro, «Il fischio del merlo», mentre vengono studiati i ritmi, le modulazioni e silenzi nel verso d'un uccello, vengono introdotti, in parallelo, cenni di dialogo tra il signor e la signora Palomar. La spiegazione etologica, che in fondo noi ci comportiamo come i merli, è l'aspetto meno interessante della faccenda. La bellezza del racconto sta in un tono da scolaro studioso, che tira fuori tutte le sue parole dotte, sorpreso davanti alle potenze del silenzio, dell'implicito: la sorpresa davanti alla solitudine e ai limiti della specie, all'interno dei quali tutto quanto ci permette di parlare, e di credere di capirci, è solo una presupposizione, un non sapere, una forma di cecità. Questa è una linea d'osservazione che attraversa il libro nei suoi S econdo Lao Dan, quando si muove, il pensiero umano si sospende alla volta celeste; ma in questo viaggio fulmineo subito si perde e va in rovina. L'antico maestro cinese suggeriva allora di non guardare nulla, non conoscere nulla e annientare il sapere; chiudere gli occhi, nel buio pacifico abisso della notte, e imparare a non voler apprendere. Calvino, uomo molto occidentale, in Palomar apre gli occhi, fissa lo sguardo sulla volta celeste, scruta le galassie, fa congetture su bagliori, pulviscoli, radure o brecce del firmamento. Come ogni grande solitario, Palomar - personaggio silenziosamente attivo - non finisce mai di interrogarsi sul senso o sul- !'assenza di senso dell'universo; un po' come il pastore leopardiano, anche Palomar guarda i pianeti e le costellazioni chiedendo qualcosa - se tutto si risponda ne! cosmo, o se al contrario l'universo stesso cigoli nelle sue giunture non oliate; se ci sia qualche regione vuota nel cielo; e perché esista un oggetto così strano, semplice, logicamente coerente come Saturno. A volte pensa che «l'universo è lo specchio in cui pos~ siamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi», poi viene preso da una certa inquietudine, perché lui stesso non sa dove si trova, né chi è. L'essere di Palomar è in questo guardare l'universo interrogandolo, e tutto per Palomar è universo, non solo la volta celestema anche il mondo terrestre e metropolitano punti più belli, e che riguarda ancora i presupposti d'ogni descrizione. C'è una fila di scoperte del genere nelle sorprese e imbarazzi di Palomar; le più toccanti, le più narrativamente persuasive, mi sembrano quelle meno astute, più elementari e senza risposta. Come quando Palomar s'invischia nel pensiero dell'io e delle monadi disperse nello spazio, nella constatazione dell'impossibile incontro tra le specie, dell'opacità del nostro sguardo che ci separa dalle cose. Ci voleva un novelliere a disagio, e un personaggio come questo, catatonico e sempre sconfitto, per ricordarci l'implicito e il silenzio dell'esperienza da cui nasce la prosa del mondo. I n un articolo recente dedicato a Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino, Lino Gabellane descrive questo libro come un gioco del mondo senza giocatori, che sarebbe più o meno il gioco della fine del mondo. L'idea deriva da Eugen Fink e, adattata, forse qui allude a un gioco dove non sono più le ragioni dei giocatori a determinare le mosse, ma necessità formali e immanenti nel gioco stesso. Come ad esempio nel sistema di scambio, gioco che andrà avanti comunque, fino alla fine, dato che gli individui addetti a compiere le mosse sono intercambiabili, e conta poco ciò che pensano o soffrono. Questa idea si ritrova in molti film e libri di autori contemporanei, e viene fuori in Calvino attraverso un metodo dagli effetti frustranti: l'interruzione d'ogni racconto in un punto cruciale, come se ormai non potessimo trovare esiti per le nostre storie, e fossimo così lontani da ciò che le generava da poter solo fantasticare su possibilità astratte di racconto; mentre però l'altro grande racconto va avanti comunque, attraverso tutti i pezzi di storie che circolano e si replicano e trasformano all'infinito. L'impressione è d'esser precipitati in un mondo impoverito di storie di cui servirsi, così come è impoverito d'alberi e di ossigeno. Dal momento che noi non possiamo servirci di possibilità astratte di racconto, per organizzare la nostra esperienza; abbiamo bisogno di storie che si concludano sul serio, che affrontino l'azzardo della conclusione. Cosa sarebbe accaduto se quei racconti avessero dovuto concludersi? Avrebbero dovuto attraversare la palude dei luoghi co_muni propri ai vari generi narrativi, e sarebbero andati a parare, come ogni narrazione, nell'irriducibile ovvietà delle parole che servono per organizzare l'esperienza. In altri termini sarebbero sfociati davvero nel gioco senza giocatori che va avanti per necessità formali e immanenti, per conto suo, come l'ovvietà, e che andrà avanti comunque, ecc. ecc. Rispetto a questa forma di alienazione, c'è una tipica reazione moderna: è un'incapacità a far fronte all'ovvietà e ai luoghi comuni, senza sentir l'obbligo di giudicarli, condannarli, o trasformarli in altre ovvietà e luoghi comuni teorici, in gerghi o sistemi di liquidazione, a cui la critica d'ogni tipo ci ha abituati. In Calvino troviamo una bella parodia di tutto questo, ma, come indica Gabellone, ancora all'interno d'una tematica moderna dell'incapacità a affrontare il grande ostacolo, l'alienazione del narrare. Incapacità clamorosa in tutta la narrativa sperimentale e d'avanguardia. Incapacità aggirata da Calvino attraverso la macchina letteraria che lascia i racconti in sospeso. Incapacità dissolta d'incanto, invece, da un narratore come Queneau, nonché dal suo allievo Perec, per mezzo d'una enorme indifferenza sugli esiti del racconto, la noia di certe parti, la casualità o banalità delle storie, che devono andare avanti comunque verso una conclusione. Ed ecco qui il dottor Palomar che si unisce a questa esigua congrega di narratori indifferenti, non più ossessionati dall'ovvietà, ecc. I racconti su Palomar si svolgono in una successione di pochi quadri, come in una striscia a fumetti. Una parte del formato serve a presentare l'argomento del titolo, dopo di che di solito c'è un'interrogazione su un aspetto irrisolto dell'argomento, e questo porta a una peripezia di pensieri con una decisione o un commento finale. Il problema di queste prose sta nella loro misura breve, dunque suppongo consista nel tenere un'altezza media della parabola narrativa, senza forti tensioni, per poi atterrare alle conclusioni senza scosse, con un qualsiasi giro di frase risolutivo. Quando il racconto raggiunge una grande tensione, o è un po' sfilacciato, o le domande sugli aspetti irrisolti dell'argomento sbandano da tutte le parti, in questi casi, mi sembra di capire, il rimedio è una dilazione delle battute conclusive, con nuove domande, peripezie di pensiero, per poter imbroccare bene il giro di frase risolutivo. Un po' come nel teatro di varietà, qui tutto deve risolversi in poche battute, senza molto spazio per prepararle. I risultati sono per forza diseguali; ma, in compenso, quello che si sente sempre è l'alea della conclusione (la domanda: e adesso?), l'azzardo del raccontare. In queste prose, mentre il presente continuo avvicina la vicenda all'esperienza diretta del pensare, del leggere o dell'osservare. il filtro di questa vicenda, cioè il personaggio, rimane lontano e poco conoscibile, una terza persona di cui non sappiamo quasi niente, oltre al nome. Forse è questo contrasto a produrre l'insolito effetto delle peripezie mentali di Palomar: si direbbe che i pensieri qui non siano proprietà del soggetto, ma accadimenti, fenomeni in cui si imI! astrono111diiaCalvino (una pizziccheria, ad esempio, un negozio di formaggi, una terrazza), o quello eternamente mobile di un'onda, o quello enigmatico dello zoo (che cosa aspettano i coccodrilli, «o cosa hanno smesso di aspettare? In quale tempo sono immersi?»; è «una smisurata pazienza, la loro, o una disperazione senza fine?»). Ogni cosa è degna di essere interrogata e ogni cosa, forse, può rispondere. È così che Palomar, personaggio taciturno, assorto, un po' autobiografico - ma per nulla crepuscolare o gozzaniano - va da una pagina ali'altra del libro senza convinzioni assolute, o di proposito lasciando le sue convinzioni allo stato fluido, ma con mille domande nel!'anima: È meglio parlare o tacere? È vero che il linguaggio è il punto d'arrivo di tutto l'esistente? o è il silenzio? E di chi sono gli occhi che guardano? sono proprio nostri? La vita dell'universo è armoniosa, o contorta e senza pace come la nostra? Si obietterà, a questo punto, che simili interrogazioni sono più quelle di un poeta - o di un filosofo - che non quelle di un narratore; che solo il poeta, in virtù della propria superiorità, può parlare come se per la prima volta esprimesse o interpellasse l'essere; con la stessa ingenuità e la stessa prodigiosa esattezza. Certo, a un narratore non è concessa l'astrazione di una domanda assoluta, quel solo piccolo pensiero che può riempire tutta una vita, secondo Wittgenstein; anzi la Giorgio Ficara vita stessa del racconto, di qualsiasi racconto, esige uno spazio largo e sicuro: scorre, corre avanti, torna indietro, va qui e là intrattenendo il lettore; un narratore deve poter viaggiaresu treni o bastimenti, fuggire in un bosco, andare al galoppo da un convento a un castello, dormire e sognare con i suoi personaggi. Un narratore deve potere tutto, vedere tutto, conoscere ogni evento, anche minimo, della propria creazione. Ma in Palomar, come abbiamo visto, Calvino (proprio come Palomar) non sa nulla; anche quando entra nel negozio di formaggi non sa cos'è il St-Maure né il cilindrico Chabicholi; se vede dei cubi cosparsi di cenere o palle avvolte nelle foglie, non sa che cosa siano. Questo non sapere, da cui nasce la forza inquisitoria, una specie di necessità quasi galileana di vedere di più (cfr. «Scienza e letteratura (I)» e «Il rapporto con la luna» nel volume di saggi Una pietra sopra) è un po' il fondamento, il mobile fondamento di questo libro di racconti: è infatti per una talemancanza che il racconto viene scritto, per riconoscersi, è per «sapere» che si continua a errare nel vuoto dell'universo. Un tale modo di scrivere, cioè di fare delle brecce, di cogliere dei lampi, di stare immobili a occhi aperti nel proprio punto d_iosservazione, genera una tensione e un ardore assolutamente nuovi nella pagina; e nuovi, in un certo senso, anche in Calvino. Questo libro, che è stato da alcuni stoltamente giudicato crepuscolare e gozzaniano, cioè egoico e al massimo intimistico e autoironico, è in realtà un libro che agita e rianima dall'interno le istituzioni della scrittura letteraria. Palomar, questo indimenticabile non-personaggio, ha sempre nello sguardo (miope) un ardore, un turbamento, o anche una «perplessità radicale e metafisica», come ha scritto Pietro Citati, che si trasmette nella scrittura: che è essenzialmente morale - o meglio diretta a una ridefinizione dell'eticità - e non narrativa, non aforistica, né puramente logicoastratta. Una cifra di spietatezza e di acume è in questa scrittura, insieme a uno stupore nell'interrogare il mistero che ricorda, appunto, alcune delle Operette morali più incautamente sospese nel silenzio, come il «Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez», o il «Timandro», o il «Dialogo di Plotino e di Porfirio». Lo spirito razionalistico di Calvino, un suo certo culto del- ['empirismo, la sua passione per la coerenza logica e, d'altra parte, l'inclinazione fabulatoria - ancora molto attiva nelle Cosmicomiche - non cadono in Palomar, ma si interrogano sulla propria direzione, agiscono interrogandosi. L'intelligenza e la fantasia, più che mai scintillanti, sembrano cercarequalcosa. Ne deriva una scrittura azzerata, senza qualità, senza retorica, ma chissà come fortemente patetica, che trattiene il lettore nel suo incanbatte, al pari d'una nuvola in cielo, o d'un taglio di luce su un muro. Verso quali mete ci portano queste prose? Verso punti d'arresto arbitrari, alla singolarità un po' demente dei propositi di Palomar, all'inconcludenza di soluzioni immaginarie, ma soprattutto a una stasi. Stasi del pensiero che può occuparsi delle sue presupposizioni solo in uno stato di abulia, o indifferenza rispetto alle conclusioni. Se c'è un'immagine nell'arte contemporanea che corrisponde a questi effetti, ho creduto di trovarla in una foto di Luigi Ghirri, dove un canocchiale su un .piedistallo sta di fronte alle nuvole·e al mare, e il tutto è inquadrato nella limpida simmetria prospettica d'un loggiato neoclassico. Anche quel canocchiale sul piedistallo ricorda (a me e a altri) il filosofo Buster Keaton, per esempio in The Navigator, lì impalato che scruta l'esterno. Nell'immagine di Ghirri, come nelle prose di Calvino, lo strumento d'osservazione è il vero protagonista della vicenda. Palomar è un canocchiaJe, e questo nome porta con sé un'implicazione: che l'esterno osservato sia solo una rappresentazione secondo le leggi dello strumento in cui si guarda. Forse è ormai una nozione diffusa che l'esterno sia un costrutto dei nostri mezzi d'osservazione e delle nostre abitudini interpretative; ma raramente accade di vedere profilarsi così chiaramente, come nelle prose di Calvino e nelle foto di Ghirri, l'opacità senza rimedio e un po' comica dei mezzi usati per catturare l'esterno, occhi, immagini, parole, categorie. Finalmente cominciamo a vederepoco sul serio, e piuttosto a sentire la grana del tessuto di parole o di linee che vela il nostro sguardo. Caro Palomar, non pensare ai rimedi. Continua a morderti la lingua e a fissare gli occhi dove si vede poco. to; e ne derivano frammenti o lacune in cui la verità sembra apparire, come nel cielo vuoto della fine dei tempi, assiderata nel «gelo d'un ordine immobile», o fra i marmi di una macelleria parigina, dove Palomar prova un sentimento «insieme di gioia trattenuta e di timore, di desiderio e di rispetto, di preoccupazione egoistica e di compassione universale». Palomar è esemplarmente un personaggio della fine del Novecento; in lui confluisce un coro, un brusio di impazienze e di reticenze; su di lui agisce anche una specie di ironia per cui a volte ciò che crede di conoscere e possedere fermamente, cade nell'oblio e nell'oscurità: un'ironia lontana e anteriore, l'ironia trascendentale che sottraeva Castorp al dominio sui propri ; pensieri, ad esempio. In lui c'è an- • cora, quasi a ogni pagina, al di là di ogni conclusione e sapere parti- • colare, l'impressione di una conoscenza delusa, di un cerchio vuoto o di un asintoto. Eppure, nonostante questa vasta rete di dinieghi, Palomar, uomo problematico e tenace, uomo fragile ma superbamente illuso, perduto nel corso del tempo, nell'inesplicabilità· di una via cittadina o degli spazi astrali, ha un suo segreto: sogna di poter apprendere. Italo Calvino Palomar Torino, Einaudi, 1983 pp. 132, lire 12.000
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