Alfabeta - anno VI - n. 59 - aprile 1984

cerca; la paraletteratura è la prova dell'impossibilità della letteratura denunciata (e rappresentata) dalla letteratura d'avanguardia, è la sfida a un divieto, è una trasgressione alla rovescia, una scelta di convenienza, ma è anche una testimonianza di lucidità. La paraletteratura prende atto dei divieti che la letteratura d'avanguardia pronuncia ma, anziché lasciarsene neutralizzare, come ragionevolmente dovrebbe, furbescamente li utilizza indirizzandoli a fini in cui il divieto rende. La paraletteratura è una sorta di letteratura-droga, con cui è facile ottenere lo stordimento di chi la usa. Ma la droga, in un altro contesto, è sempre anche stata la base su cui ha lavorato la medicina. Poiché la letteratura d'avanguardia e la paraletteratura si scalano sulla stessa linea, anche se situandosi a livelli diversi, può capitare che in alcuni casi (o in determinati momenti storici) siano così lontane da sembrare agli antipodi (l'una il contrario dell'altra), mentre in altri (casi e tempi) la distanza che le separa tende a ridursi e si fletermina un processo di ravvicinamento progressivo dell'una all'altra. E non è da escludere (almeno in·teoria) un punto di incontro, in cui l'una accoglie (fa proprio) il meglio dell'altra (il massimo della ricerca e il massimo della comunicazione), realizzando il modello più completo e più moderno di composizione narrativa oggi conseguibile. S e questa analisi non sembra troppo paradossale e dietro a essa si nasconde un qualche riscontro oggettivo, allora va radicalmente rivisto il giudizio che in altri tempi abbiamo pronunciato su scrittori come Pier Paolo Pasolini o sulla Morante della Storia o, forse, sugli stessi Fruttero e Lucentini. • Non è un caso che si tratta di autori in cui la dimensione della ricerca è stata, almeno per alcuni periodi della loro vita o fasi della loro attività, fortemente familiare. Non dobbiamo dimenticare che Lucentini ha scritto con Notizie dagli scavi il primo racconto sperimentale apparso in Italia, rivelando di non ignorare che le strutture della lingua non sono immutabili e dunque occorre ogni volta adeguarle alle nuove spinte espressive che i tempi propongono. Né abbiamo bisogno di ricordare gli elementi di novità che si riscontrano nel Pasolini di Officina e nella Morante di Menzogna e sortilegio. Certo che, nello sviluppo di quegli elementi di novità, i due autori cedevano fin troppo a compromissioni mercantili e di tornaconto personale. Ma forse non era soltanto furbizia e desiderio di successo, come a noi pareva, la moda che annunciava le loro scelte di lavoro che, se pure inquinate da propositi equivoci, tuttavia si sviluppavano complessivamente in una direzione di ricerca non volgare e sostanzialmente avanzata. Il sospetto che oggi ci viene o meglio l'ipotesi che ci piace azzardare (anche verso noi stessi) è che il proposito di Pasolini con il Romanzo di Roma o della Morante con la Storia era quello di valorizzare il vero elemento di novità che caratterizzava la ricerpi letteraria di avanguardia (e che le avanguardie - tutte le avanguardie che si sono succedute nel Novecento - avevano realizzato in chiave di pratica politica più che di risultato letterario), quell'elemento di novità consistente, come abbiamo più sopra visto, nel tentativo di varare una nuova forma di comunicazione che, rispetto a quella proposta dalla letteratura precedente (che del tutto indicativamente possiamo chiamare umanistica), si presentava come più democratica. Più democratica nel senso di più facile consumabilità, come conseguenza dell'operazione di adeguamento della struttura della lingua alla nuova domanda espressiva che l'avventura filosofica e lo sviluppo tecnologico, rovesciando la distinzione tra le classi sull'abbrivo di una violenza omogeneizzante, hanno introdotto nella società (nel mondo) in cui viviamo e operiamo. Anche se poi è capitato che il tentativo di democratizzare la comunicazione, se nelle avanguardie ha avuto un esito più rilevante sul piano della pratica politica che non del risultato letterario, in Pasolini o nella Morante ha dato luogo a una acquiescenza al troppo facile con conseguente caduta in effetti e soluzioni di fattura approssimata e qualunque. M a, sospendendo per il momento il discorso sulla vera natura di alcune opere di ieri e sui nostri ripensamenti di critici pentiti, vediamo che cosa di più testimonialmente certo possiamo trovare lungo la strada di una offerta che unisca il massimo della formalizzazione con il massimo della capacità comunicativa. Possiamo trovare un particolare prodotto d'arte in genere etichettato sotto la marca di postmoderno. Mi riferisco più che agli esempi di pittura - che pur avendo lanciato l'etichetta meno, a mio parere, la rappresentano - a alcuni esempi cinematografici e letterari, come i film di Sergio Leone, il romanzo Gorky Park di Martin Cruz Smith o il Montaggio di Vladimir Volkoff o, per parlare di cose di casa nostra, se pure a un più alto livello di consapevolezza e di elaborazione, i romanzi Il raggio d'ombra o, il più famoso, Il nome della rosa. E qui occorre fare alcune precisazioni. Si dice che il ritorno dell'intreccio in narrativa è la conseguenza del cessato scandalo che la narrativa del non-intreccio oggi registrerebbe. Mi pare che impostata così (o espressa così) la motivazione appare troppo semplice. A ben guardare, non era la presenza o l'assenza dell'intreccio a fissare il discrimine tra letteratura del ritardo e letteratura di avanguardia, tra opere che non erano più capaci di agire sul lettore e opere che stimolavano l'intelligenza (e la sensibilità). Basta pensare a Kafka, a Musil, a Céline o, qui da noi, a Gadda, a Calvino, a Malerba, dove l'intreccio è ben (consistentemente) presente. Allora il discrimine passerà tra obbedienza e disobbedienza, ripetizione pedissequa di schemi strutturali già consumati e proposta di nuovi. È vero che un modo di disobbedire era il rifiuto dell'intreccio: ma forse era il modo più facile e forse, proprio per questo, artefice di minori risultati (di qui i dubbi da alcuni avanzati sul livello della produzione italiana degli anni sessanta). Sicché ancora una volta non è la presenza dell'intreccio, se pure di un intreccio autre (per adoperare un'espressione cara a R. Barilli), che può marcare il volto del prodotto postmoderno. L'intreccio non è per se stesso un elemento strutturale, mentre ogni novità si può_produrre solo a livello di strutture. Né mi pare sufficiente dire che il postmoderno sopravviene con l'esaurimento del moderno, e cioè nel momento in cui l'avanguardia (il moderno) che nasce come distruzione del passato e, poi, «distrutta la figura, l'annulla, arriva all'astratto, all'informale, alla tela bianca, alla tela lacerata, alla tela bruciata», si accorge di non potere andare oltre: a questo punto avrebbe inizio il postmoderno, che allora consisterebbe nel «riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente». Mi pare una lettura troppo meccanica del passaggio dal moderno al postmoderno. Più che rivisitazione ironica del già detto a me pare che il postmoderno sia una esaltazione fin troppo gridata (perseguita con lucidità accanita) della forma della favola, un repéchage di una condizione antropologica - che la Storia ha provveduto a far smarrire - consistente nell'attitudine fabulatoria cui è legato non solo lo sviluppo dell'uomo ma la stessa sopravvivenza della vita. È una uscita, simulata, dal mondo afàtico; è cioè un recupero di ciò che non è recuperabile se non con un atto di finzione. Di qui quel tanto di ironico che sempre infarina l'opera postmoderna e che fa da contrappeso a quel «di più» di perfettamente conchiuso con cui ogni atto di finzione tende a presentarsi. Così che godere di fronte a un film di Leone o a un romanzo di Eco non è godere di quel che si vede e si legge ma godere di una nostra condizione perduta e provvisoriamente, nella finzione della scena, ritrovata. Paloma,,laPrtsadelmondo Italo Calvino Palomar Torino, Einàudi, 1983 pp. 128, lire 12.000 Georges Perec Espèces d'espaces Paris, Éd. Galilée, 1974 Lino Gabellone «Gioco del mondo senza giocatori» in Quindi n. 1, anno 3° Bologna 198:4 · I ultimo libro di Italo Calvi- . no, Palomar, è un raro esempio di prosa italiana in cui il cosiddetto sapere non serve per smerciare giudizi sul mondo, serve piuttosto per costruire un racconto sulla fragilità d'ogni spiegazione del mondo esterno di cui disponiamo. Il suo personaggio, il signor Palomar, ha movimenti di pensiero astratti e arbitrari, vagamente comici nella loro assoluta inconcludenza; credo produca una commozione paragonabile all'effetto delle mosse, altrettanto astratte e intime, con cui il gran filosofo Buster Keaton si ag1:s .5 girava nello spazio. ~ La pagina finale del libro ci la- ~ scia con un'improvvisa mossa di congedo da tutto quel che precede. Ma l'intero libro mi appare a distanza, racconto per racconto, come un lungo congedo: sia per i ritmi rallentati con cui ogni volta ci si allontana da un'immagine, sia perché l'inconcludenza del pensieÌ ro (di Palomar) ci permette di la- ~ sciare dietro di noi le cose di cui parla, senza sentirle più come oggetti di sapere, temi di vita o furbizie d'autore, ma finalmente come punti di silenzio, sui quali non abbiamo l'obbligo di pronunciarci. Il congedo di Palomar dalle cose appare a distanza come una forma di sguardo; esattamente l'opposto dello sguardo ansioso della modernità, che esaurisce in fretta i propri oggetti. C'è tutto un mondo che si allontana appena questo sguardo lo esplora, e soprattutto si allontana un'idea dell'esterno come immediatezza facilmente catturabile, giudicabile, manipolabile, ecc. S econdo me l'aspetto più importante del libro sta in una ricerca narrativa e descrittiva, che mi sembra di riconoscere anche da altre parti, qui esemplificata nei tentativi di lettura di aspetti minimi del mondo esterno, come un'onda, il fischio d'un merlo, un prato, le stelle viste a occhio nudo, un riflesso del sole, ecc. Questa parte del libro risolve un lungo rifiuto della letteratura europea di ricerca a occuparsi di ciò che è stato chiamato «illusione del referente» (R. Barthes). Rispetto a quel rifiuto, le questioni qui si spostano, come si spostano nei lavori d'un altro straordinario narratore-osservatore, amico di Calvino, il compianto Georges Perec. Per entrambi non si tratta certo di spiegare come è fatto il mondo, secondo l'obbligo d'ogni prosa informativa; e tanto meno di re-inventare l'esterno attraverso forme più Lorenzo Mattotti fantasiose, forme estetiche. Guardando un saggio di descrizione d'un prato nel libro di Calvino, o di descrizione d'una stanza in Perec (ad esempio in La vie, mode d'emploi), ci si accorge che, innanzi tutto, la descrizione è per forza di cose sempre inco~pleta e anche abbastanza casuale, nel senso che può proporsi solo come un tentativo di inventario o di organizzazione di alcuni dati. Non ci informa certo su cosa sia veramente un prato o una stanza, né su un punto del mondo particolarmente adatto alla contemplazione. Semmai richiama la nostra attenzione sul lavoro necessario per fissare qualche punto fermo nello spazio e nel continuo del tempo. Ci ·ricorda che il nostro habitat è costituito da un continuo indifferenziato di spazio e tempo, in cui è possibile orientarsi solo grazie alla discontinuità dei segni e delle forme che riusciamo a riconoscere. Ci richiama .ai presupposti d'una descrizione, invece di usare gli aspetti dell'esterno come dati di fatto senza presupposti. I presupposti d'una descrizione sono quelli impliciti nel mezzo di osservazione che usiamo, nelle categorie di pensiero che adottiamo, e soprattutto quelli impliciti nel semplice atto di riconoscere le forme dell'habitat. Come riconosciamo un'onda, un seno, o la luna in cielo? Come spiegare in che modo una duna di sabbia appare e si trasforma ai nostri occhi? Oppure, come si chiede Perec in Espèces d'espaces, in che modo raccontare a un altro umano cos'è una stanza, un palazzo, una strada, un quartiere, una città? In altre parti del libro, invece, Calvino riprende un tipo di narrazione congetturale, che dà sviluppo alle astratte peripezie del pensiero d'un personaggio, e che credo abbia il suo punto d'avvio in un racconto intitolato «Il conte di Montecristo», in T con zero. Però viene indicata una grossa differenza rispetto a precedenti direzioni speculative: in particolare, nel racconto «Il modello dei modelli» si narra d'un modello teorico andato in fumo per effetto di fatti empirici che non quadrano con le belle linee d'una geometria concettuale. Come le altre meditazioni del libro, anche questa ha sviluppi arbitrari e bizzarri, che non portano

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