Alfabeta - anno VI - n. 59 - aprile 1984

vi della totalità. la quale sola si pensa» (Scholem. p. 88). A questo punto spezzare la totalità, rompere la compattezza monolitica del sistema significa, nell'economia del pensiero di Rosenzweig, porre radicalmente in questione la logica filosofica di quel «simmetrico-equivalente» nel cui orizzonte ogni elemento è insieme se stesso e il suo contrario. Una totalità spezzata: una trama di relazioni dissolte. In essa gli elementi, non più solidali, non più vincolati al gioco delle corrispondenze e degli scambi, appaiono sciolti, liberati, assoluti: ciascuno legato unicamente a se stesso. privo di connessioni con gli altri e con l'insieme. A questa situazione di rottura e di estraneità, Rosenzweig fa corrispondere la costellazione originaria del paganesinw. In essa un Dio metaf,sico abita lo spazio del suo Olimpo solitario; un mondo metalogico si struttura in se stesso, nell'unità della propria forma plastica; un uomo metaetico appare come eroe tragico. chiuso nel suo ostinato silenzio di fronte alla fatale e irredimibile incombenza della morte. Come è possibile a questo punto, oltre questa rottura e al di là di una simile separazione radicale, istituire una nuova trama di relazioni tra Dio, mondo e uomo? Come può il pensiero porre in rapporto questi differenti ordini di realtà, mantenendoli nella loro assoluta differenza? All'analisi di questi problemi è dedicata una parte assai importante del pensiero di Rosenzweig. Ma su di essa ben poco possiamo dire nel breve spazio di questa nota. Accontentiamoci allora di porre in rilievo quello che sembra essere il dato centrale di una simile indagine. Secondo Rosenzweig Dio, mondo e uomo possono evitare di essere compresi nell'orizzonte di un pensiero totalizzante, se e solo se le relazioni che tra essi giungono a stabilirsi sono e rimangono assolutamente, rigorosamente asimmetriche. Nella 'Stella' di Rosenzweig non vi è possibilità di confondere l'alto con il basso e la sinistra con la destra. Creazione, rivelazione, redenzione sono gli eventi e i momenti attraverso cui si sviluppa l'itinerario del nuovo pensiero. Ma in nessun passaggio di un tale cammino può nuovamente riproporsi il gioco dell'ambivalenza. In particolare: è come Dio che Dio si rivela all'uomo; ed è come uomo che l'uomo si rivolge al suo simile. Nessun equivoco logico, nessuna mistica confusione tra cielo e terra, tra uomo e Dio, possono darsi in questa rigorosa sequenza di rapporti. Ed è per questa ragione che l'uomo rimane irriducibilmente se stesso: inconfondibile, incontenibile, estraneo a ogni effettiva possibilità di assimilazione. In quanto uomo egli è sporgenza, singolarità, frammento, differenza non comprensibile nel circuito delle equivalenze filosofiche. «Un nome e un cognome»: sarebbe dunque un simile umanesimo della unicità e dell'eccezione il dato specificamente ebraico che il pensiero di Rosenzweig porta nel continente anonimo della filosofia? Per la verità, se ci limitassimo a rilevare un simile dato, non ci sarebbe possibile andare molto al di là di Kierkegaard e della sua strenua, implacabile, perfino aggressiva affermazione dello scandalo di un io che rifiuta la neutrale impersonalità del sistema. Ma le intenzioni e i propositi di Rosenzweig si pongono consapevolmente oltre una simile prospettiva. Il singolo di Kierkegaard, infatti, nel momento stesso in cui abbandona il luogo della totalità, rimane chiuso in se stesso, inaccessibile agli altri come uno sprezzante cavaliere serrato nella dura corazza della sua angoscia e del suo coraggio. Martire, testimone, paladino del Nulla o della gloria di Dio nel paradosso della fede, questo io singolare si rivela a se stesso sempre e soltanto nella plaga desolata. della propria orgogliosa solitudine. Non così in Rosenzweig, né - più in generale - in quello che abbiamo qui definito «umanesimo ebraico». Se vi è un tratto costante nel pensiero filosofico moderno ispirato dal giudaismo, questo si configura appunto come tentativo Igort (ripetuto di volta in volta in modi nuovi e differenti) di pensare l'uomo non più come categoria logica o come scandalo della singolarità, ma invece come relazione, prossimità, parola. Da Rosenzweig a Buber, sino alla più recente riflessione di Lévinas, sembra delinearsi con sufficiente precisione il disegno di un pensiero che inscrive ripetutamente nel solco della tradizione umanistica il dato di un'esperienza che la filosofia occidentale, nell'intero corso della sua storia, ha sistematicamente ignorato o rimosso: l'elemento dialogico, il rivolgersi dell'uomo all'uomo attraverso la parola detta e scambiata nel dialogo prima ancora che tematizzata e autoriflessa nel luogo solitario della pura meditazione. E ancora: ciò che Rosenzweig definisce come «nuovo pensiero» Il senso della letteratura / 4 non riguarda tanto un nuovo oggetto bensì piuttosto un differente stile, un modo di pensare diverso rispetto a quello che si è affermato come dominante nell'orizzonte della filosofia. «In luogo del metodo del pensare, come è stato costituito da tutta la filosofia precedente, entra in campo il metodo del parlare». M entre il pensiero è e vuole essere senza tempo, il parlare è intimamente legato alla temporalità. Esso «si nutre di tempo, non può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà a parare, lascia che siano gli altri a dargli lo spunto. Vive soprattutto d_ellavita di altri», mentre il pensare «è sempre solitari0 anche se avviene in comune tra più persone che 'stanno filosofando insieme' (Symphilosophierenden), anche allora l'altro mi muove solo quella obiezione che io mi sarei potuto opporre da solo. Di qui nasce il senso di noia che generano per lo più i dialoghi filosofici, anche la maggior parte dei dialoghi platonici. Nel dialogo vero qualcosa accade sul serio, io non so prima che cosa l'altro mi dirà perché in realtà non so neppure che cosa dirò io, anzi non so neppure se parlerò» (Rosenzweig, p. 57). A differenza del «dialogo vero», quello filosofico è una sorta di dialogo truccato. In esso quello che Rosenzweig chiama il «pensatore pensante» (al quale viene contrapposto il «pensatore della parola») vive nella pienezza illusoria del mondo egologico - proiezione narcisistica del suo pensiero nelle altrui menti che, umili e sottomesse, glielo restituiscono come fossero specchi. Per il «pensatore pensante» il pensiero si riduce a quel «già noto» o a quel «per sempre» che da sempre riposa nella quiete dell'assenza di tempo. Ma l'assenza di tempo, spiega Rosenzweig, non è che l'assenza deli'altro, un'assenza che il ~<pensatore della parola» non può in alcun modo accettare. La differenza tra pensiero vecchio e nuovo «non consiste nell'esprimersi a voce alta o a voce bassa, bensì nel bisogno dell'altro o, che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo». Bisogno dell'altro che, ovviamente, non può darsi come esigenza di comprensione da parte di un io il quale, ancora una volta, lo ridurrebbe narcisisticamente a sé. Poiché «bisogno dell'altro» non vuol dire affatto, in questo contesto, necessità di pensarlo, ma desiderio di pensare con lui e per lui, desiderio di parlargli. Contro la concezione di un pensiero che pensa in modo neutro e anonimo, in modo opaco e indeterminato (e dunque «per tutti e per nessuno», per la generica «collettività»), sorge, in questo ambito problematico, l'esigenza di un effettivo orientamento del pensare e del parlare. Per Rosenzweig l'oriente della parola è appunto costituito dall'altro: esperienza di prossimità e di relazione in virtù della quale parlare e pensare significano «parlare a qualcuno e pensare per qualcuno, e questo qualcuno è sempre ben preciso e non ha soltanto orecchie, come la collettività, ma ha anche una bocca» (Rosenzweig, p. 58). Dunque qualcuno parla, qualcuno mi chiama, si rivela à me e mi interpella. Qui - in questa situazione - la parola perde tutti i suoi contrassegni astratti e impersona- , li. È ancora, sì, rivelazione, ma ciò che manifesta non è più l'Idea, concetto-chiave della filosofia. Essa mostra invece l'umano, diviene presenza di un altro il cui evento non giunge mai per il «pensiero pensante», preoccupato soltanto di sé e intento a celebrare la propria solitudine attraverso il fasto dei suoi riti. Leparole1ih!mancano a domanda: qual è il senso della letteratura? ne implica un'altra, in un gioco di scatole cinesi: che senso ha dare un senso alla letteratura? Essa fa fare un altro passo, mi sembra. a ciò che aveva avanzato Raboni ad apertura del suo intervento. Allora: la letteratura appartiene alla Kultur o alla Zivilisation. secondo le oscillazioni di una dicotomia famosa? o non sarà essa stessa quell'ombra di disagio, di Unbehagen, che cade fra l'una e l'altra. nell'una e nell'altra? Dare un senso alla letteratura è operazione un po' equivoca - Io è del resto anche solo significarla come «disagio». Rischierebbe di apparire l'altra faccia del vecchio inestirpabile connotato di una letteratura «cons0Iatoria» (con tutto il corteggio di varianti: parenetica, costruttiva. promozionale, ecc.). Ma quasi altrettanto insoddisfacente risulta ormai la versione circolata in tempi non lontani e con ~ rispettabili alfieri. che si può defi- ~ nire superficialmente del negativo: ·i buco, trasgressione, ateologia ... ~ ~ Qualcosa come venticinque anni ~ fa, Maurice Blanchot ha creduto ...... ~ di liquidare la domanda: l'essenza .._ della letteratura consistendo nello sfuggire a qualsiasi determinazione, a qualunque affermativa che la stabilizzi o realizzi, non si può es- ~ sere mai certi che la parola 'lette- l ratura' risponda a qualche cosa di ti reale, di possibile o di importante: «chaque livre décide absolument d'elle». Le date, però, sono importanti perché fanno da spia alle metamorfosi alle quali libri, scritti, linguaggio sono legati: per lo meno impediscono di credere che le stesse parole, nel tempo, restino le stesse parole. Fatto è che la letteratura produce senso, anzi produce dei sensi. È anche il punto dove mostra il suo limite o dirò meglio la sua irriducibilità. Che produca sensi è cosa con cui bisogna fare i conti, piaccia o non piaccia. Si può anche prendere uno di questi sensi o il tratto che unifica in un fascio una certa quantità di sensi, e assegnarlo alla letteratura, pretendendo che stia lì la sua identità, il suo fine. «Tendo al mio fine» mi pare sia il ben noto epifonema di Carlo Emilio Gadda interrogato sulle proprie «tendenze» di scrittore; peraltro subito chiosato in nota con il rinvio all'ambiguità del vocabolo: insieme «finalità» e «estinzione». Il senso, inevitabilmente, si collega con la morte. Ma «non ci lasceremo squartare fra tesi e antitesi»: ottimo programma anche per qualche ipotesi sulla letteratura. Anche astraendo per un momento dai motivi portati avanti, mi sembra condivisibile l'intervento di Antonio Porta proprio nel modo non tanto di investire l'argomento ma piuttosto di attraversarlo, con la forma felice e in certo senso improvvisata via via della «serie di appunti», degli aggiustamenti veloci. Tanto è vero che ora mi accorgo come caschi a vuoto l'inciso «astraendo dai motivi... », visto che il metodo stesso di approccio a un problema finisce per indicare un certo tipo di impostazione di fondo e di risposta - particolarmente in questo caso. Sul merito dello scritto di Porta mi riservo di tornare. Intanto vorrei provarmi a indicare che cosa significhi dare un senso alla letteratura. Interrogando il momento di decisione dell'atto letterario ci si imbatte in qualcosa cui «mancano le parole per dirlo» (per dirlo tutto, s'intende). Ciò riguarda, dirò così, la partenza della letteratura, non il suo arrivo: non ne designa insomma un'impotenza istituzionale ma la sua qualità di impossibile, quella che la fa reale. Ma riconoscere che la letteratura è il posto dove le parole mancano, vuol dire insieme riconoscere che è il posto dove possono prodursi. Dare un senso alla letteratura sarà dunque metterla là dove ci si adopera perché qualcosa avvenga. Il mancare («mancano le parole per dirlo») suona quale avatar del produrre. Se la letteratura produce sensi, produce anche il suo proprìo nella forma di un lavoro. Ho già espresso l'idea che la letteratura, sotto questo aspetto, non abbia a che fare con l'Uno ma semmai con l'Uno-in-più. Se ci si ostini sull'uno, potrà dirsi che il senso della letteratura è il suo lavoro - che produce sensi, come il vero significato del sogno è il lavoro onirico. Portato sul piano dell'attuazione, ciò indica l'esigenza di un lavoro combinatorio continuo: cioè che combini senza soste le unità minime del reale di linguaggio (il reale, lo si è imparato almeno fin da Freud, non coincide necessariamente con la realtà ... ) in unità sempre più grandi. Tale lavoro combinatorio, appunto perché inventa i punti di connessioni degli elementi, è per forza uno sperimentare. Può spiacere il richiamo, almeno fonico, a un'etichetta recente e vertiginosamente sfilacciatasi, ma che farci? Se soprattutto lo sperimentare si riconnette al soggetto, al suo dividersi o fading nell'incontro col significante, eccetera... Anche la letteratura è «non tutta», e il suo senso o uso un mito ossia un progetto. Torno all'intervento di Porta, ricco di punti stimolanti che magari, a volte, lasciano perplessi - il bello sta qui, nel rischio. «Il senso della letteratura è dare oggi forma al sentimento ... » È un punto abbastanza perturbante, per vecchie implicazioni che porta seco il termine 'sentimento'. Ma la frase che ho appena finito di scrivere («abbastanza perturbante») provoca un'apertura imprevista: se quel «sentimento» lo si leggesse, per esempio, nel rapporto fra heimlich e unheimlich? Vado ad aprire il libro appena uscito di Porta, Invasioni, e intendo senza più perplessità una direzione su cui può avviarsi la letteratura: «Il nido è pieno di ali minuscole I piumine leggere respirano intorno è fieno / dentro il neroluce mi adagio mi fido / al centro del bozzolo si schiude il mio giorno / / da anni da una vita laceravo / ora è la stretta espansiva che sognavo» ecc.; e capisco anche la proposta di «una scrittura diretta e semplice, perfino trasparente». C'è un libro che negli ultimi tempi mi ha dato qualcosa di quella «stretta espansiva» di cui parla Porta, non a me solo credo, ed è La felicità mentale di Maria Corti. Non appena per la finezza dell'indagine critica - è un libro di studio -, soprattutto per il coinvolgimento del lettore nello stato indicato nel titolo. Non saprei spiegare fino in fondo che cosa sia la «felicità mentale»: ma forse riguarda anche il dare un senso alla letteratura. Il dibattito su «Il senso della letteratura», cominciato su Alfabeta n. 57, ha accolto finora interventi di F. Leonetti e A. Porta (n. 57), G. Raboni (n. 58) e, nella serie «Riferimenti», contributi di G. C. Ferretti e F. Muzzioli.

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