verità - è di per sé «sintomo della scissione» (Lukacs), ratifica di una «mancanza», quel «Non-ancora» che mette in questione la rinuncia (Entsagung) dei moderni e si proietta caparbiamente nel futuro dell'utopia. Dopo aver ribadito che la ragione analitica non può legittimare ciò che fa e produce e soprattutto se stessa - secondo un vecchio adagio della Dialettica dell'Illuminismo magistralmente commentata da Habermas in Mythos und Moderne - e che certo non lo potranno quelle soluzioni «volontaristiche» di stampo nietzscheano che riducono tutto a un conflitto di forze, a sistemi di interazione e ai loro giochi, Frank non fa certo l'errore di ricondurre la crisi di legittimazione del sociale moderno al tramonto del mito. Piuttosto si tratta solo del contrario. È il raffiorare della querelle mitologica nonché il progetto di una nuova mitologia a inserirsi nel molto più complesso contesto della crisi dello Stato e del sociale. Il mito è insomma la spia - letteraria quanto si vuole, e questo Frank non esita a riconoscerlo - di una tale crisi, anzi il reagente al tornasole che denunzia i sogni assolutistici della ragione analiticostrumentale. Ma se una tale diagnosi può essere sostanzialmente corretta lo slancio totalizzante di Frank può apparire sospetto e preFranz Rosenzweig Il nuovo pensiero commento di G. Scholem a c. di G. Bonola trad. it. di G. Bonola e M. Bertaggia Venezia, Arsenale Ed., 1983 pp. 106, lire 12.000 E scono presso la Arsenale Editrice, ospitati nella elegante collana «Sinopia», due densi e importanti scritti di Franz Rosenzweig (Casse! 1887 - Francoforte 1929), il filosofo ebreo tedesco allievo di Meinecke, noto in Italia soprattutto per la sua radicale critica alla concezione hegeliana dello Stato, interpretata quest'ultima come espressione concettuale .e giustificazione teorica dello Stato nazionale totalitario, ovvero di quella compagine sistematica e onniconclusiva che assòrbe e integra nelle sue strutture costrittive e alienanti la concretezza dell'io empirico e la realtà effettiva dell'esistenza umana. Procedendo da tale critica - che già Kierkegaard, sia pure battendo altre vie, aveva promosso - Rosenzweig ne approfondisce i postulati e ne generalizza le istanze sino a vedere nello schema del «Tutto» il fondamento concettuale su cui si innalza l'intero ccsmo del pensiero filosofico «dalla Ionia a Jena». La filosofia è totalità: un mondo in cui l'esistenza di ciò che è meramente umano è da sempre sacrificata sull'altare del pensiero puro, un campo di relazioni anonime e ne_utre nel quale domina il logos, ma da cui sono escluse le autentiche parole dei viventi. Rispetto all'opera maggiore di Rosenzweig, Der Stern der Er/6sung (La stella della redenzione, di cui si attende l'imminente traduzione italiana presso Marietti), gli scritti pubblicati dalla casa editrice veneziana costituiscono - come avverte il curatore G. Bonola - stare il destro a interpretazioni assolutistiche e organicistiche. L'orizzonte utopico, infatti, non nasconde quello assolutistico - Frank riprende dai romantici la nostalgia verso una mitologia - anzi, riducendo il mito alla «metafora di un bisogno», simbolica generale di una mancanza, non si fa altro che riproporre un modello di totalità - sia esso pure la Menschheitsklasse marxiana - molto simile ai sogni di omologazione totale della cosiddetta ragione strumentale. M a il vero limite delle analisi di Frank sta nel non aver capito a fondo il peculiare tratto estetico della filosofia del nuovo mito, e soprattutto della funzione «estetica» del mito nella società moderna. Il «potenziale estetico» della mitologia è invece, a nostro parere, l'elemento originale della riflessione preromantica, tanto più significativo in quanto l'estetica informa tutto il pensiero moderno. In una formula, pericolosa quanto riduttiva, e che meriterebbe invece una trattazione più diffusa e sfumata, potremmo dire con Schelling (degli anni 1793-1800) che il mito - contrariamente a ogni lettura sostanzialistica - può essere storicamente falso, puro frutto della fantasia del poeta o del filosofo, ma non per questo perde la sua «efficacia» sociale, anzi - e qui sta la singolare invenzione dei preromantici - proprio grazie a questa sua «falsità», questo suo appartenere all'ordine del simbolico, riesce a resistere, persino nella società postindustriale, quale elemento di legittimazione. Non è un caso che i primi testi preromantici che si occupano della funzione sociale del mito ricorrano al contesto poetologico o comun- .que estetico. Basti pensare all'Alteste Systemprogramm des deutschen Idealismus (1796) - il cui anonimo autore dovrebbe essere Schelling - in cui si parla di «un'idea che ( ... ) non è ancora venuta in mente a nessuno», quella di una «mitologia della ragione» che renda in forma estetica, e quindi «sensibile» al popolo, la filosofia razionale; o ancora ai primissimi scritti mitologici di Schelling o infine ai frammenti e al notissimo, ma poco studiato, Discorso sulla mitologia di F. Schlegel. Tutti questi scritti che si racchiudono cronologicamente in un periodo di quattro anni (1796-1800), anni fondamentali per la nascita dell'Idealismo tedesco~ e quindi delle prime grandi imprese dell'estetica filosofica, descrivono un itinerario alternativo a quello della Romantik heidelberghese e alla filosofia del mito elaborata nel suo ambito (si veda l'introduzione di G. Moretti a Dal simbolo al mito, Milano, Spirali Ed., 1983), ma soprattutto fanno da sfondo teorico all'attuale Mythos-Debatte che si confronta esplicitamente con gli stessi nodi problematici. In Mythos und Moderne questa dimensione estetica del mito viene più volte ribadita e costituisce il presupposto di molti degli interventi presentati. Fatto non trascurabile, se si pensa che proprio qui sta il maggior pericolo ma a1fche, problematicamente, ciò che salva. Certo, questa mistione di categorie tipiche della sociologia politica e dell'estetica di cui proprio i nazisti furono gli insuperati artefici poRoseg~weig due pietre di confine: entrambi «marcano un territorio anche teoricamente omogeneo nella riflessione di Rosenzweig, che sta entro la forza di attrazione della 'Stella'. Ambedue, simmetricamente, sono lontani da quest'opera, le si rapportano rispettivamente come una fondamentale intuizione ed un bilancio» (p. 10). Denso, stringato, «intuitivo» è infatti il primo scritto, una lettera di Rosenzweig a Rudi Ehrenberg del 18 novembre 1917 nella quale ci viene presentato il «germe iniziale», la «cellula originaria» della Stella della redenzione. Si tratta di pagine in cui si delinea un progetto ancora largamente incompleto: dunque pensieri allo stato nascente. Nulla di nebuloso o di vago, però. L'intuizione al contrario balugina felice come il frammento luminoso di un'idea. Laconico, ellittico, persino esoterico e bizzarro, appare invece il linguaggio di queste pagine. Esse non spiegano ma piuttosto affermano, mostrano. Del resto, non dimentichiamolo, si tratta di una lettera, di uno scritto cioè costruito, almeno in parte, su una sorta di «codice privato», concepito sulla base di un patrimonio di esperienze accumulate nel corso del tempo entro una cerchia ristretta di relazioni interpersonali. «Disponibile~~.Jl,Peitoal lettore e alle sue esigenze di comprensione, scritto in una prosa «dal respiro ampio e regolare»·, programmatico perfino nel titolo (Il nuovo pensiero), il secondo scritto di Rosenzweig appartiene invece «ex professo al genere letterario della postfazione», è cioè concepito come una serie di note supplementari a La stella e come una «guida alla lettura» dell'opera tendente a produrre «un'accurata sottolineatura del suo significato preponderante» (Bonola, p. 11). Conclude la raccolta, infine, un ampio e autorevole saggio di G. Scholem dedicato all'analisi e al commento del pensiero di Rosenz-~ weig, con particolare attenzione alla sua opera maggiore. È il testo della allocuzione pronunciata all'Università ebraica di Gerusalemme in occasione delle onoranze rese a Rosenzweig il trentesimo giorno successivo alla sua morte. Al di là degli indubbi meriti critici e della grande chiarezza esplicativa del saggio, ciò che in esso appare problematico è il tentativo di ricondurre La stella nell'alveo tradizionale del giudaismo. Eppure Rosenzweig aveva precisato con chiarezza - proprio nelle prime pagine del suo Nuovo pensiero - che Stern der Erlosung non si prestava a essere letto come «un libro ebraico». E allora come stanno le cose? Se non valgono formule riduttive né drastiche strategie di annessione territoriale, in che termini dobbiamo intendere il dato - comunque inaggirabile - dell'appartenenza di Rosenzweig all'esistenza e alla cultura ebraica? Che cosa di una tale esistenza e di una tale cultura viene portato dalla sua riflessione teorica nell'universo della filosofia occidentale? Il l'uomo d'improvviso sco- '' pre che egli, pur filosoficamente digerito da molto tempo, è ancora qui. E non certo l'uomo con il suo bel ramo di palma», l'esistenza vagheggiata da Schiller nel sogno della sua classica utopia. Non questa Anima circonfusa d'aureola, educata alla pura luce della Bellezza, ma piuttosto «qualcosa» di infinitamente più umile, «qualcosa» di assolutamente più vero: «l'uomo come 'io, io che sono polvere e cenere'. Io comunissimo privato individuo, io nome e cognome» (Rosenzweig, p. 21). È appunto la realtà umana vivente di una creatura ostinatamente radicata nel suo essere-qui, ciò che resiste a qualsiasi progetto di riduzione e di assimilazione. «Intrattabile», opaco, refrattario, questo io rompe l'ordine delle corrispondenze e delle simmetrie stabilite dalla grande «dominatrice universale». Egli esiste, è ancora qui: ma non nella prigione di quel silenzio al quale il sapere filosofico l'aveva condannato, bensì piuttosto nella fatica del suo respiro esitante, spezzato nell'annaspo quotidiano, nell'affanno di una miseria dal cui fondo egli «ancora grida la sua libertà, torbida e disperata, ed al 'vacuo sorriso' della speculazione filosofica oppone la sua inconsolabile paura della morte» (Bonola, p. 9). È dunque questo io, il quale porta il nome proprio come una differenza insormontabile, questo io vinto e abbandonato ma che ancora si arrischia a vivere (polvere e cenere, sì, ma anche carne e sangue, linguaggio e prossimità, speranza e cammino), questo io che sente e che «fa» insomma, ciò che il sistema filosofico non tollera, ciò che esso rimuove o rifiuta. Eppure, d'altra· parte, non si può certo affermare che la filosofia, nel corso della sua storia, abbia ignorato !'«Uomo». Ma la marca della lettera maiuscola mostra già, con evidente chiarezza, quale uomo essa abbia contemplato nell'empireo delle sue astratte visioni. Si tratta sempre di un concetto o di un'idea, di un tipo logico, di una categoria. È l'uomo classicamente concepito come splendore e pienezza della humanitas, quell'uomo il cui «bel ramo di palma» è già da tempo caduto nel fango. È l'artefice, il signore della terra; un tempo arbitro indiscusso nel dominio dell'immanenza, o&gi ridotto a animale da lavoro. E il Soggetto, fondamento e orizzo te del processo di comprensione, l'Uomo come pensiero puro in un mondo senza trebbe portare a quella «esteticizzazione della politica» contro cui già Benjamin metteva in guardia. Ma è pur vero che solo a partire da questa ricognizione su di un «ghiaccio troppo sottile» - come ricorda Frank - si può sperare di comprendere senza trionfalismi e senza indulgenza la cosiddetta «società dello spettacolo» che vive di questa mistione esplosiva. In questo può aiutarci proprio la lezione dei preromantici di Jena (August e Friedrich Schlegel, Tieck, Schelling, ecc.), i quali compresero con singolare urgenza la dimensione sociale di una nuova simbolica generale, di una «nuova mitologia» che C(?ÒVertissle conquiste della nuova razionalità, allora ai suoi primi passi, in un patrimonio sociale comune a tutti. E allo stesso tempo riconobbero l'enorme centralità dell'estetica, che non a caso sta al vertice dei loro sistemi, nella nascente società di massa. Un itinerario che l'attuale Mythos-Debatte ripercorre, cosciente certo delle tragiche esperienze del passato, ma non per questo disposta a abbandonare le «eterne speranze» del passato. Oggi non si tratta più semplicemente di «conoscere» le strategie del nemico, secondo la ben nota diagnosi di Cassirer, ma di «usarle» giacché non solo la ragione ma anche il mito è nelle mani dell'uomo. uomini. Ma perché mai la filosofia si -~ presenta come quel curioso paradosso logico in virtù del quale un pensiero che - nel corso della sua storia - si è più volte esplicitamente affermato come umanesimo, ha contempor,Jneamente dato luogo - nelle sue forme più rigorose e conseguenti - a un processo di radicale negazione dell'uomo in quanto concreta singolarità vivente? È a questo punto che diviene di centrale importanza l'interpretazione della filosofia offertaci da Rosenzweig. Secondo una tale prospettiva, essa si configura come un sapere tendente a ridurre la totalità a un sistema solidale di relazioni equivalenti. In altri termini, gli elementi che compongono la totalità (Dio, il mondo, l'uomo) non sono considerati dalla filosofia come realtà irriducibili l'una rispetto all'altra. La totalità filosofica, infatti, si configura come una sorta di gioco i cui elementi non hanno significato in se stessi. Ciò che dà senso è piuttosto l'insieme delle relazioni, reciproche e commutabili, che essi di volta in volta stabiliscono fra loro. Così dunque, nel gioco della filosofia, Dio non è mai unicamente Dio, né il mondo è mai soltanto mondo, né l'uomo è mai semplicemente uomo, ma, al contrario, queste tre matrici originarie si intrecciano e si confondono in una dinamica di sovrapposizioni, di permutazioni e di scambi, la quale ~ dà luogo a ibride figure. -~ Un Dio che si umanizza appare ~ nella cornice • intramondana di ~ ~ quella totalità immanente che al- ...., lude solo a se stessa in quanto non :-:::: è altro che l'identità del pensiero. "- ~ «Allora, Dio, considerato nella sua essenza sarebbe l'io, l'io sareb- lr'\ be il mondo, e tutte queste combi- ~ nazioni e mutazioni che si chiama- S no 'punti di vista' (Standpunkte) l non sarebberoche aspettisuccessi- ~
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