Latelevis~e sprecata Dopo l'intervento di Guido Guarda sui libri che hanno trattato il fenomeno delle emittenti private in Italia («Indice della comunicazione», in Alfabeta n. 57), ospitiamo questo contributo di Dario Natoli, vicedirettore della Terza rete, sulla più recentepubblicistica riguardante la Rai. ppena sei anni fa, nel dicembre 1977, il Consiglio di amministrazione della Rai approvò un «piano triennale» (19781980) che aveva come obiettivi prioritari «il decentramento ideativo e produttivo», «l'equilibrato sviluppo degli impianti di produzione», «la ricerca e la sperimentazione». Il piano avrebbe dovuto «mettere la televisione e la radio al passo con· i tempi e con il progresso nel settore delle comunicazioni» (Biscardi e Liguori, L'impero di vetro, Torino, Sei, 1978: gli autori legittimano questa convinzione con la raccolta di sessanta dichiarazioni di leaders politici, dirigenti dell'azienda, giornalisti, sindacalisti, esperti stranieri). Sembrava vero e possibile. Eppure, appena sei anni dopo, sembra roba dell'altro secolo. ella premessa al piano, infatti, si affermava che «l'obiettivo primario e prioritario è quello di attuare il decentramento ideativo e produttivo che, unitamente alla già avvenuta divisione in reti e testate( ... ), completa il quadro generale di applicazione della Legge di riforma». Oggi a parlare di decentramento, almeno in Italia, siamo rimasti in pochi esemplari quasi al limite della protezione Wwf, mentre ai più è chiara la consapevolezza che la «divisione» in reti e testate non è affatto garanzia di pluralismo, promozione culturale, buona informazione ed efficienza produttiva. Si sono aggiunti, per -di più, problemi nuovi: quale, in primo luogo, la crisi della vecchia strutturazione industriale cinematografica e la conseguente necessità di un diverso rapporto fra cinema e televisione. Poi, come tutti sanno, le «nuove tecnologie»: vale a dire l'ipotesi emergente di una sorta di Mondo Nuovo della comunicazione. Ho l'impressione che nel dibattito di queste settimane rischiamo di prepararci al futuro in modo inadeguato (o orwelliano, com'è citazione d'obbligo quest'anno) se dimentichiamo le ragioni che condussero a progettare - sotto la ,lellere Dal testo al palco Gentile redazione di Alfabeta, ammetto di essere stato colto in fallo dalla sapienza scacchistica di Guido Almansi;,if quale (cfr. Alfabeta n. 56, gennaio 1984) mi rimspinta di una fase egemonica della cultura di sinistra - lo sviluppo della comunicazione (anche attraverso il decentramento), mentre oggi si pratica e si teorizza in modo crescente la teoria reaganiana della deregulation ( neologismo non contemplato nemmeno nell'ultima edizione dell'Oxford Dictionary e che equivarrebbe al neologismo italiano di sregolamentazione), con la conseguenza di prevedere uno sviluppo fondato esclusivamente sulla gestione accentrata nelle mani degli specialisti e del loro sapere specializzato (è di questo che si parla quando si enfatizza, oltre il dovuto, il ruolo del cosiddetto management). Questione non teorica, mi sembra, se la prima conseguenza della 'sregolamentazione' diventa, com'è di fatto, la maggioritaria presenza di networks privati, la crisi delle aziende pubbliche televisiva e cinematografica, la mancanza di una politica di piano per l'intero sistema delle telecomunicazioni. I I La causa prima dello spre- '' co del potenziale del mezzo televisivo» sta nel fatto che si «restringe agli 'specialisti' la base del processo produttivo»: così, ancora nel 1974, scriveva il nostro maggior teorico della comunicazione Giovanni Cesareo (La televisione sprecata, Milano, Feltri- -nelli). E precisava che «l'unica ipotesi 'storicamente adeguata' (... ) è quella di un uso di massa del mezzo, che rovesci il rapporto attuale fra 'televisione' e 'pubblico'. E per quest'uso è necessario ristrutturare l'apparato nei suoi tratti qualificanti» (corsivi nell'originale). • Nel corso di questi anni l'apparato (settore pubblico e privato, cinematografico e televisivo) si è andato ristrutturando, o si è lasciato che si ristrutturasse, in maniera tutt'affatto divers.a. Questo processo di rovesciamento delle tendenze teoriche e delle iniziativeconcrete degli anni settanta non è fondato - come taluno cerca di far credere - soltanto su cause oggettive forse imprevedibili di quegli anni o - come costantemente teorizza Alberto Abruzzese - da un «ritardo» della sinistra. C'è stata e c'è, al contrario, una scelta di politica industriale e culturale che, riprendendo a modo suo la bandiera della razionalizzazione sollevata proprio dalle sinistre fin dagli anni sessanta, tende a perpetuare la sotprovera di aver confuso (in «Dal testo al palco», Alfabeta n. 52, settembre 1983) nientemeno che tra «strategia» e «profezia», tra previsione dello «sviluppo tendenziale dellapartita» (a scacchi) eprevisione delle mosse dell'avversario. Ogni metafora, si sa, zoppica un po': e la mia (il gioco degli scacchi come modello limite delle interazioni estetiche, e di quelle teatrali in particolare) non fa .eccezione, naturalmente. E tuttavia continuo a pensare che quell'immagine di avvio, seppure troppo 1orte', presentasse alcuni vantaggi: fra gli altri, quello-di metter~ in luce, in forma esemplarmente istituzionalizzata, trazione degli apparati della comu- _nicazioneall'uso di massa, accentuando la dimensione del prodotto culturale come merce esclusivamente sottoposta alle leggi di mercato (cioè del profitto). Ne fa fede, mi sembra, il vezzo teorico-progettuale di ancorare la produzione culturale alle capacità di sviluppo della «risorsa» pubblicitaria - e la conseguente recentissima rincorsa al modello produttivo fondato sulla sponsorizzazione (che non è certo faccenda da liquidare, ma dei cui rischi devastanti sul piano culturale si va già smettendo di parlare a dibattito non appena avviato). • Ma quand'è ohe si è perso il punto di riferimento per uno sviluppo del sistema che fosse, al quei paesi con un regime radiotelevisivo, dal punto di vista istituzionale, in parte s'imileal nostro». Problemi comuni ma risposte diverse. Negli stessi anni in cui la Rai progetta il citato «piano triennale», entra in crisi, infatti, il cosiddetto modello Bbc: cioè l'ipotesi di sviluppo di un sistema produttivo-culturale all'interno di un unico e monolitico apparato produttivo, sia pur esso pubblico. Non a caso gli anni settanta sono, in Italia, quelli del drammatico equivoco della «libertà di antenna» (fomentato dall'ahimè celebre manuale di Roberto Faenza, Senza chiedere permesso, Milano, Feltrinelli, 1973 - e rapidamente fatto proprio, l'equivoco, dai fautori della tv commerciale). Daniele Scandola tempo stesso, sviluppo produttivo adeguato al futuro e sviluppo della democrazia? Nell'introduzione a Il video degli anni 80 (Bari,. De Donato, 1981) Giuseppe Richeri scrive: «Con l'apertura di una nuova fase, quella del mercato, il sistema radiotelevisivo italiano, fino a quel momento separato e protetto dai condizionamenti dei processi internazionali grazie al regime di monopolio pubblico, si trova a far parte (a condividere e, anche, a subire) di un sistema che ha dimensioni internazionali ( ... ) molti problemi che caratterizzano ora la situazione italiana sono comuni a quegli aspetti strategici e previsionali, da un lato, e antagonisticoconftittuali, dall'altro, che sono propri (ancorché poco evidenti, a volte, e non sempre nella stessa misura) di ogni interazione comunicativa e che si ritrovano vistosamente anche in teatro, sia pure all'interno di una relazione asimmetrica e 'squilibrata' com'è, statutariamente, quella fra attore e spettatore. Pur nella sua modestia, l'«articoletto» non mi sembra quindi inficiato dall'incipit scacchistico, il quale, anzi, con i preziosi aggiustamenti di Almansi, fa ancora di più al caso nostro: che altro sono, inEntrano in crisi, in quegli anni, l'industria cinematografica mondiale e le forme di consumo dello spettacolo audiovisivo. Si apre una nuova dinamica internazionale di produzione e di consumo; si salda un inedito rapporto fra industria del software e dell'hardware. L'industria culturale americana coglie per prima i sintomi della crisi di trasformazione e sviluppa, per poi imporre, il modello produttivo basato, appunto, sulla 'sregolamentazione' e sul profitto, entrambi proposti (e teorizzati anche in Italia) come espressione di libetà e misura del consenso di massa. fatti, il Lettore Modello di Eco e lo Spettatore implicito di De Marinis (di cui, fra l'altro, era questione nel mio testo) se non, appunto, delle strategie di ricezione, ovverossia delle previsioni - testualmente iscritte - dello «sviluppo tendenziale della partita» (comunicativa) che un'opera (romanzo, spettacolo teatrale) ingaggiaogni volta con i suoi recettori? Certo, mi rendo conto come tutto questo possa avere sul mio contraddittore lo stesso effetto che fa l'acqua santa al diavolo (o meglio, il fuoco del/' 'inferno' semiotico ali'anima bella), se è vero che l'Almansi «mediocre problemista» (così si autoqualifica nella /etN on v'è dubbio che «queste crisi comportino anche la necessità di una ristrutturazione globale del modo di produzione dei beni simbolici o delle merci culturali» (Mattelart, / mass media nella crisi, Roma, Editori Riuniti, 1981); ma a me sembra che la ristrutturazione di fatto avviatasi in Italia sia anche la conseguenza di «una scelta fatta da una classe di intellettuali di adeguarsi alle regole· della società liber:ale avanzata, adattandosi alla sua nuova collocazione nella divisione internazionale del lavoro e 'nell'economia del pianeta» (ancora Mattelart, op. cit.). Questa scelta viene fatta, per di più, in modo subalterno, senza una effettiva visione strategica, se non quella di considerare come possibili e praticabili soltanto gli spazi risultanti dalla ristrutturazione produttiva determinata dalla dominante industria statunitense (e giapponese). Si verifica così, in Italia, la formazione di uno iato progettuale che lascia, per riprendere il caso Rai, il già citato «piano triennale» senza successive, concrete e prospettiche revisioni che tengano conto dei nuovi avvenimenti; mentre accanto all'azienda pubblica in crisi si irrobustiscono e diventano condizionanti i.modelli imposti dai terminali italiani dell'industria audiovisuale americana (i networks, almeno nell'attuale fase di sviluppo). Tutto ciò che accade viene teorizz.atocome ineluttabile e, a cose fatte, migliore di ciò che avrebbe potuto essere (e ancora potrebbe) con una diversa scelta di programmazione. Avviene così, per fare un esempio che attiene alla mia specifica esperienza professionale, che quella parte di decenti~mento ideativo-produttivo abbozzato fra mille compromessi con la Terza rete televisiva viene, al tempo stesso, boicottata e lasciata dà cinque anni senza verifiche e I necessari aggiornamenti (Raitre è, da un punto di vista istituzionale, ancora in fase sperimentale!). La forza innovativa della crisi, tuttavia, sta rimettendo tutto in discussione: sia il vecchio modello Rai, sia il quadro dei rapporti fra i vari settori del sistema audiovisuale così come si erano incancreniti in questi anni, sia il modello privato, sia la sconnessione del sistema globale della telecomunicazione. tera) è lo stesso Almansi che, qualche tempo fa, concludeva nel modo seguente un entusiastico 'pezzo' su alcune discutibili (per non direpeggio) proposte critiche di Yves Bonnefoy: «Bonnefoy evita i miraggi e ricerca invece nel buio dell'improbabile un baluginare fioco che mantenga accesa la poesia e la speranza. Ma è il suo brancolare, quasi da cieco, che io vorrei adottare come modello contro lefacili lusinghe della critica con i riflettori e la luce al neon» (La Repubblica, di un giorno d'estate del 1983). Cordialmente, Cosimo Minervini Bologna, 7 febb,raio 1984
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