Alfabeta - anno VI - n. 59 - aprile 1984

..: Aragonc«~~t"Bor Louis Aragon H paesano di Parigi trad. it. di Paolo Caruso introduzione di Franco Rella Milano, Il Saggiatore, 19822 pp. 192, lire 6500 Je n'ai jamais appris à écrire ou «les incipit» Genève, Skira, 1969 («Les sentiers de la création») Paris, Flammarion, 198!2 («Champs») e i saranno voluti più di quarant'anni perché, rispondendo all'invito della prestigiosa collana di Skira, «Les sentiers de la création», Aragon risalisse agli anni surrealisti («en plein coeur de ce temps où le roman m'était interdit», Incipit, p. 47) per ripercorrere i sentieri accidentati della sua allora contestatissima attività romanzesca. Svelamento di procedimenti creativi - nel prolungamento di Comment j' ai écrit certains de mes livres di Raymond Roussel (che fu, insieme a Lautréamont, un modello sempre riconosciuto) -, Je n'ai jamais appris à écrire ou «/es incipit» (1969) per lo scrittore settantenne è anche l'occasione di chiarire la sua difficile posizione con gli amici surrealisti, e in particolar modo con André Breton, autore nel primo Manifeste du Surréalisme (1924) di uno dei più violenti atti di accusa portati in quegli anni contro il romanzo («Je crois ne m'en etre jamais vraiment expliqué pour personne. Cela tient à ce que mon meilleur ami, l'esprit pour moi le plus proche, André Breton, ne m'écoutait guère quand je tachais deux ou trois fois d'aborder ce sujet avec lui. Parce que naissait entre nous un procès qui n'était pas que de l'incipit, mais du roman meme», Incipit, p. 34). L'interesse di questo testo - che ripercorre l'intera produzione romanzesca come sviluppo non premeditato («Corriprenez-moi bien, je n'ai pas écrit mes romans, je les ai lus») a partire dalla frase iniziale, l'incipit, investita della funzione arbitraria di «échangeur» - è qui di fare luce in maniera nuova sugli ambigui rapporti dei surrealisti con il romanzo, nel momento stesso in cui la scrittura automatica, presto abbandonata, e i «sommeils» devono fare i conti con la presenza irriducibile della narratività. Di fronte ai dilemmi di coloro che «se proclamaient les ennemis irréductibles de tout roman. Tout en lisant, eux, Le moine de Lewis, ou Restif de La Bretonne» (Incipit, p. 50), sforzandosi di neutralizzare i rischi della fiction nella difficoltà di comunicare le loro esplorazioni della surrealtà fuori dal modello del racconto, molto più chiara risulta la posizione di Aragon che, fin dalla prima infanzia, praticò senza soluzione di continuità quella scrittura del «mentir-vrai» che proseguì poi parallelamente alla sua attività poetica. Di questa «volontà di romanzo», legata esplicitamente all'estensione dello spazio narrativo e alla sperimentazione - tramite le tecniche del collage, del pastiche e dell'incipit - di nuove pratiche di scrittura, il nucleo germinale fu, per lunghi anni, quel romanzo dei romanzi, «à la fois le cambie et la négation du roman», La défense de l'infini, scritto nel segreto («un secret que des poèmes masquèrent») dal 1923al 1927e bruciato a Madrid, sull'altare del surrealismo, alla fine del 1927. Lo avevano preceduto, alimentati da un'identica «volonté de ficgnato di un dandysmo fine-secolo, della modernità, e, nel 1924, la raccolta Le libertinage ( ora disponibile nella tascabile «L'imaginaire» di G.allimard, 1982) annessa, nella «Préface» del 1964, alla produzione romanzesca per «ciò che vi è di romanzesco nella sua parte immaginaria». Invece, sempre nel 1964, Les aventures de Télémaque (1922) ne furono escluse perché, nei loro tentativi di adeguarsi alla poetica Marcello lori tion que je regardais camme une forme essentielle de lyrisme» (Le libertinage, «Préface» alla ristampa del 1964), nel 1922 Anicet ou le panorama-roman - e la parola «roman» non era solo piacere dell'allitterazione ma anche deliberata provocazione - allo stesso tempo parodia del «roman-feuilleton» e primo approccio, ancora impredel gruppo, persero ogni carattere fantastico e finirono col diventare «une sorte de manifeste de l'écriture, à quai se melent de purs et simples manifestes Dada». Sulla scia del rinnegamento di Madrid e per sancire ufficialmente l'abbandono momentaneo del romanzo, in un ultimo atto di fede surrealista (è il momento dell'iscrin zione al Pcf), Aragon pubblicherà, nel 1928, Le traité du style (disponibile anch'esso ne «L'imaginaire» di Gallimard, 1981), un violento e articolato pamphlet contro il r<r manzo, non quel «contrabbando» romanzesco che egli aveva voluto sperimentare ma quelle «rengaine des sentiments mécaniques, idioties nouvelles, concrétions légendaires, petites machines à crétiniser longtemps» che erano le produzioni allora di moda. P arallelamente, e nella falsariga della Défense de l'infini, Aragon scrisse, dal 1924 al 1926, Il paesano di Parigi che voleva essere «une nouvelle espèce de roman enfreignant toutes les lois traditionnelles de ce genre, qui ne soit ni un récit (une histoire) ni un personnage (un portrait)» (Incipit, p. 50) Ricerca di un nuovo linguaggio, sperimentato innanzi tutto per smontare i pregiudizi dei surrealisti, che non daranno prova di apprezzare l'intento, Il paesano di Parigi realizzò il paradosso di essere simultaneamente romanzo e surrealista, e forse per questo «il grande romanzo del moderno» (Rella, p. XLVIII), il luogo in cui si smarrivano le certezze dell'uno e degli altri. Contro le verità cosiddette moderne dei romanzi di viaggio, d'avventura o di evasione - «la littérature avec le verbe partir» tanto deprecata nel Traité du style - la doppia incursione nella metropoli dei passaggi («Il 'Passage de l'Opéra'») e dei parchi («Il sentimento della natura al parco

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